Lettere al direttore
«Pena giusta per chi non si pente!»
«Il caso del signor Carmelo Musumeci, al quale è stato dedicato un approfondimento sul numero di gennaio scorso, mi ha rafforzato nell’idea della necessità dell’ergastolo ostativo e delle pene più severe. Il signor Musumeci dice di essere diventato un ostativo “pur di non fare il delatore” e si domanda come “farebbero i miei figli a stimarmi se uscissi facendo incarcerare un altro?”. Questa è captatio benevolentiae. Le parole sono importanti: quello che lui chiama “delatore” io lo chiamo “collaboratore di giustizia”. Mi chiedo come facciano i suoi figli a stimarlo dal momento che con il suo atteggiamento sta coprendo criminali che sono ancora liberi di compiere altri delitti e dei quali di fatto resta complice. Capisco che crescere in certe situazioni di estrema miseria possa in parte giustificare il fatto di fare scelte sbagliate e di intraprendere la carriera di delinquente, ma credo che per uccidere una persona, oltre tutto a 36 anni, ci voglia molta cattiveria. In tutta l’intervista al signor Musumeci non traspare per niente il suo pentimento per i crimini commessi. Perché questo è quello che conta: il pentimento. A mio avviso, chi si è reso colpevole di un reato può essere reintegrato nella società solo dopo essersi pentito del reato commesso, solo dopo aver espresso la sua volontà di non compiere più tale reato, e questo comporta necessariamente l’assumersi anche la responsabilità di incolpare altri eventuali criminali. Altrimenti, di fatto, ne resta complice e non c’è in lui pentimento ma solo finzione!».
Gianluca – Bologna
Dopo la pubblicazione, sul numero di gennaio, dell’articolo sull’ergastolo ostativo, sono giunte in redazione molte lettere. Alcune a sostegno della nostra linea, altre, molto più numerose, contrarie. Ne abbiamo scelta una per tutte (che abbiamo dovuto lievemente sintetizzare), rappresentativa di questo secondo gruppo. Per la risposta, passo volentieri la mano ad Alberto Laggia, autore dell’articolo in questione.
«Caro signor Gianluca, c’è un ottimo motivo per essere contrari alla pena dell’ergastolo, ma lo stesso discorso vale per la pena di morte, ed è la natura e lo scopo delle pene secondo la nostra Carta costituzionale. All’articolo 27 si afferma, infatti, che: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un principio fondamentale e sacrosanto che collide in modo assoluto con la pena capitale, ma anche con la pena “perpetua”, ovvero l’ergastolo. Quale senso può avere, infatti, il “fine pena mai” con l’affermazione decisiva che la pena è concepita per il reintegro nella società? Rispetto invece a Musumeci e alle sue scelte, penso che il miglior atteggiamento sia quello di non giudicare. Faccio solo due osservazioni. Una cosa è “essere collaboratori di giustizia”, altra cosa è il pentimento: il primo è un patto con lo Stato, vantaggioso per entrambi, il secondo ha a che vedere con la sfera etica e con la coscienza. Si può scegliere di non diventare “collaboratori”, benché ci si possa essere pentiti amaramente del delitto commesso, perché, ad esempio, ne andrebbe dell’incolumità dei propri familiari.
Non le sembra un motivo da comprendere? Mi permetta, infine, un’ultima considerazione: chi ha conosciuto Musumeci, il suo percorso umano e culturale, non ha dubbi sul fatto che si tratti di un’altra persona, rispetto al Musumeci che entrò in carcere oltre vent’anni fa. Ripeto il numero: oltre vent’anni, cioè più di un terzo della sua vita, senza mai uscire dalla cella. Rifletta: il “fine pena mai”, cioè l’ergastolo ostativo, cancella la cosa più importante che un uomo possegga: la speranza. Che Stato è quello che prevede una vita senza speranza, con una pena “non scontabile”?». (A.L.)
Giovani, non solo bamboccioni
«Bamboccioni, poco inclini al sacrificio. Smarriti al seguito di un ideale – il posto di lavoro fisso e possibilmente dietro casa – che ormai è pura fantasia. Ecco come i politici italiani – dal viceministro alle Politiche Sociali, Michel Martone, ai ministri Elsa Fornero e Anna Maria Cancellieri – vedono i giovani d’oggi. Nessuno ha insegnato loro a non fare di tutta l’erba un fascio? Fiero delle mie due lauree e del contratto a termine conquistato all’alba dei 32 anni, mi sento offeso da queste parole pronunciate da chi dovrebbe sostenere il Paese e le sue nuove risorse, cioè i giovani».
Lettera firmata
Come spesso accade, anche in questo caso la verità sta nel mezzo. Se è vero che per uscire dalla crisi in cui l’Italia si trova serviranno drastici sacrifici e spirito di adattamento da parte di tutti i cittadini (a cominciare dai giovani), non dobbiamo dimenticare i molti esempi virtuosi che il nostro Paese già vanta. Certo, il panorama che emerge dall’ultimo Rapporto sulla coesione sociale non è consolante. Secondo i dati diffusi dall’Istat, in collaborazione con l’Inps e il ministero del Lavoro – disponibili sul sito www.istat.it – infatti, nel secondo trimestre 2011 il tasso di disoccupazione giovanile (fascia dai 15 ai 24 anni) si è attestato al 27,4 per cento, raggiungendo il 44 per cento tra le donne del Sud. Negli ultimi quattro anni, la quota di lavoratori dipendenti under 30 è passata dal 21,4 per cento del 2007 al 17,6 del 2011. E, come se non bastasse, nel Rapporto si legge che il 67,7 per cento delle assunzioni è stato formalizzato con contratti a tempo determinato, il 19 per cento con contratti a tempo indeterminato e l’8,6 con semplici accordi di collaborazione.
Se le opportunità di un impiego fisso si riducono a un pallido miraggio, è anche vero, però, che non tutto è perduto. La buona volontà delle nuove leve italiane non è merce così rara come qualcuno vuol farci credere. In questo senso vanno lette le ultime stime dell’Ufficio Studi della Camera di Commercio di Monza e Brianza, secondo cui nella prima metà del 2012, nel solo territorio lombardo, scatteranno circa 9 mila e 700 nuove assunzioni di forza lavoro giovanile. Entro fine anno, poi, i neo-laureati che avvieranno una nuova attività in proprio saranno più numerosi dei coetanei assunti. Nella sola Lombardia – sempre secondo le previsioni della Camera di Commercio di Monza e Brianza –, il 16 per cento delle nuove imprese nazionali nascerà da imprenditori under 30. Sotto questa nuova luce, dunque, lo stereotipo dell’italiano trentenne attaccato alle gonne di mamma, che aspetta a braccia conserte il lavoro dei suoi sogni e la scrivania a due passi da casa, non regge.
Vivere immersi nel precariato e nella disoccupazione non significa automaticamente farne parte, tanto meno perdere a priori ogni speranza di riscatto. Lo sa bene Giuseppe De Rita che, in una recente intervista al quotidiano «Il Mattino», ha difeso i giovani italiani precari e disoccupati. Per il presidente del Censis, dare loro dei «bamboccioni» equivale a esprimere un giudizio morale: «Ci sono tanti giovani laureati che si spostano dal Sud al Nord. Come ci sono tanti pendolari che ancora vivono a centinaia di chilometri da casa. C’è tanta autonomia, c’è tanta elasticità: altro che schemi rigidi!». Ecco che allora, in un panorama disarticolato ed eterogeneo come quello italiano, forse alcune figure pubbliche dovrebbero imparare a pesare le parole, consapevoli del loro ruolo di comunicatori e consci della grande responsabilità educativa che li contraddistingue. «Ferisce più la lingua della spada», dicevano gli antichi. La saggezza, è proprio vero, non ha età.
Gelosa, ma della baby-sitter
«Per tornare al lavoro ho lasciato mia figlia di 18 mesi a una baby-sitter. Tra lei e la piccola si è subito instaurato un rapporto molto intenso. Devo ammettere che se la cosa da un lato mi rende felice, perché sento che la bambina non soffre troppo il mio distacco, dall’altro sono turbata perché temo che un rapporto affettivo così intenso con un’altra persona possa confonderla. A volte sono addirittura gelosa...».
Alessandra – Chieti
Come ha ben intuito, il rapporto affettivo instaurato con la baby-sitter si sta dimostrando positivo per la piccola. D’altra parte, sarebbe molto doloroso per lei saperla nelle mani di una persona fredda e distaccata. Ogni rapporto stabilito dalla bambina con persone diverse dal nucleo familiare più stretto (quindi nonni, baby-sitter, amici di famiglia) è un’opportunità di arricchimento, che moltiplica i suoi sguardi sulla realtà e allarga il suo mondo affettivo. Altro conto è se la baby-sitter non dovesse rispettare le vostre scelte educative di genitori o non vi aiutasse con delicatezza a far accettare al bambino il distacco, oltrepassando in questo modo i limiti del suo ruolo. Per il resto, anche tra tanti affetti, la mamma resta sempre la mamma per un bambino e nessuno, per quanto lo ami, può sostituirsi a lei. Mi permetto di aggiungere un piccolo consiglio personale: la sua preoccupazione e gelosia tradiscono il timore di non essere riconosciuta, un timore che probabilmente viene dalla sua storia personale. Ascolti questo suo disagio, potrebbe essere un’occasione di crescita e arricchimento.
Lettera del mese. Dopo l'ateismo
Viviamo in un tempo di idolatria
Mentre l’ateismo nega la risposta e l’indifferenza azzera la domanda, l’idolatria è l’anestetico per soffocare il dolore derivante dal fatto che la domanda dell’uomo è stata rimossa.
«Caro padre, ho seguito i suoi tre interventi quaresimali nella trasmissione di Raiuno A Sua Immagine. Anche se il tema era non facile, mi complimento perché è stato trattato con grande competenza, e le sue risposte sono risultate più volte illuminanti. Mi ha colpito una sua affermazione, quando ha detto che il contrario della fede non è l’ateismo bensì l’idolatria, e vorrei che approfondisse questo aspetto».
Marco G. – Milano
C’era una volta l’ateismo. Sì, quello che tutti conosciamo, dalle solide radici scientiste ottocentesche e con sviluppi anche drammatici nel cuore del XX secolo, quando ha sposato ideologie anticristiane, come nel caso del nazismo tedesco e del comunismo russo. Un ateismo lineare, metodico, limpido nei suoi principi e diretto nelle proprie finalità: scalzare Dio, metterlo finalmente alla corda, sbarazzarsene una volta per tutte. Da qui la reazione preoccupata della Chiesa, che lo avvertiva come nemico frontale e mortale. Nell’enciclica programmatica del suo pontificato, Ecclesiam suam (1963), papa Montini scrive: «È questo [la negazione di Dio] il fenomeno più grave del nostro tempo», espressione ripresa quasi letteralmente al n. 19 del documento conciliare Gaudium et spes: «L’ateismo va annoverato tra le realtà più gravi del nostro tempo». Vi è anche da dire, però, che l’ateismo, nel suo confronto serrato con la fede, è pur sempre una forma di credenza, per il fatto che l’ateo è qualcuno il quale crede che Dio non esista: egli crede contro Dio. La sua forza oppositiva si gioca, nonostante tutto, nei paraggi di Dio e quasi alla sua ombra, tanto che lo scrittore Heinrich Böll si lamenta affermando: «Gli atei mi annoiano, perché trascorrono la vita parlando di Dio». Paradossalmente, poi, quando l’ateismo raggiunge l’obiettivo di eliminare Dio, perde l’oggetto dell’argomentare e del contendere e si affloscia su se stesso.
È anche vero che la gran parte dei contemporanei, soprattutto in Occidente, vive senza grandi passioni, oppure è preda di passioni tristi: pensiamo al prosperare delle forme depressive. Le ideologie, pretenziose prefigurazioni del futuro, sono morte e sepolte, e il crollo finanziario ed economico degli ultimi anni ha inquinato la possibilità di proiezioni positive per il domani. Ci si installa così nel presente, abitandolo e sfruttandolo fino in fondo per quanto può dare, trasformandosi in consumatori docili e sazi e anestetizzando le grandi domande dell’esistenza. Noia collettiva, sterilità delle pulsioni, inerzia valoriale, superficialità diffusa: questo sembra essere il plancton che nutre le nuove generazioni e ha buona presa su quelle che dovrebbero essere adulte, ma sono purtroppo irretite dal mito dell’eterna giovinezza.
Quasi nessun dialogo è possibile con una posizione come quella dell’indifferenza, che rappresenta la liquefazione della domanda su Dio. Non vi è alcuna attesa di redenzione, ma calma piatta e gestione routinaria del presente, nel quale ci si trastulla con i molti idoli che il mercato mette a disposizione. L’idolatria dunque, prospera sul terreno dell’indifferenza, e ci mette in mano, o nel cuore, una moltitudine di «piccoli sostituti» di un Dio ritenuto troppo ingombrante o troppo lontano, realtà che corrispondono subito, su comando, ai bisogni immediati. L’idolo (il primo dei quali è il nostro «io» narcisista) vuole staccarci da Dio, inebriandoci di autosufficienza. Si può dire, allora, che mentre l’ateismo nega la risposta e l’indifferenza azzera la domanda, l’idolatria è l’anestetico per soffocare il dolore derivante dal fatto che la domanda dell’uomo è stata rimossa. Perché il desiderio di Dio, dell’Assoluto, appartiene alla «versione base» dell’umano e non è un optional. E non può essere a lungo soffocato.
Lettere al direttore, scrivere a: redazione@santantonio.org