Lettere al direttore
Quando a dimettersi è il Papa
«Benedetto XVI si è dimesso: mai come in questo momento l’ho sentito vicino e l’ho apprezzato. Per questo gesto coraggioso, ringrazio il Santo Padre, e spero che i disegni del Signore si realizzino attraverso il suo successore».
Lucio
«Premesso che l’elezione di un Papa avviene per scelta dei cardinali che si affidano allo Spirito Santo; posto che il ruolo del Pontefice – in quanto successore di Pietro e, quindi, di Gesù – è di condurre come un pastore i figli della Chiesa, mi chiedo quanto sia lecita la decisione di Benedetto XVI. Cosa ne sarebbe dei miei figli se, dopo averli adottati all’età di 50 anni, superati i 65 anni mi sentissi stanco e li abbandonassi? Sono convinto che per arrivare a Dio esistano due vie: quella della Parola e quella del silenzio. Se il Papa non era più in grado di diffondere con vigore gli insegnamenti di Cristo, avrebbe potuto continuare il suo mandato col silenzio e la preghiera. E, invece, ha optato per una decisione più “drastica”. Scelta che ha acceso in me una profonda solitudine spirituale».
Nicola
Dall’11 febbraio scorso, da quando cioè Benedetto XVI ha annunciato la sua rinuncia al papato, sono stati numerosissimi i lettori che ci hanno scritto per esprimere il loro punto di vista sull’argomento. Ho deciso di pubblicare queste due lettere, molto diverse tra loro, in quanto ben rappresentano gli stati d’animo contrastanti che attraversano oggi il mondo, cattolico ma non solo. Mi limiterò, nella risposta, a tracciare solo qualche spunto di riflessione, rimandando i lettori agli interventi di alcuni nostri collaboratori, proposti nelle pagine seguenti.
Le dimissioni di Benedetto XVI hanno aperto un’infinità di interrogativi più che comprensibili. E, dobbiamo ammetterlo, hanno determinato uno spaesamento, un senso di vuoto che razionalmente fatichiamo a spiegare. Ogni nuovo inizio porta con sé, si sa, incertezza e aspettative per il futuro, tanto più quando la novità coinvolge un’istituzione importante come la Chiesa. L’idea espressa da Nicola di una comunità abbandonata a se stessa, però, rimanda a una concezione di Chiesa ormai superata: quella di un popolo di Dio composto di persone immature e infantili. Ma così non è: ciascuno di noi è chiamato a prendersi cura della propria fede. Non siamo orfani da svezzare, ma cristiani adulti e responsabili. In questo senso, il gesto di Benedetto XVI va letto anche come un atto di grande fiducia nei confronti del popolo di Dio.
Nel valutare la decisione di Benedetto XVI, inoltre, non possiamo non tener conto di una realtà che è mutata molto negli ultimi decenni, anche con il progressivo aumento dell’età. «Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede» – per usare le parole di papa Ratzinger dello scorso 11 febbraio –, alla guida della Chiesa è indispensabile una personalità forte e attiva. Perché il Papa è sì un leader spirituale, ma è anche un uomo di governo. E, qualora le sue esili spalle non riescano più a portare la responsabilità del ruolo affidatogli, è giusto che passi la mano. Per il bene suo, ma, soprattutto, per il bene della Chiesa, la quale, alla sequela dell’unico Signore, continuerà altrimenti la sua missione nel mondo. La rinuncia di papa Ratzinger, dunque, va letta come il nobile slancio di un uomo che ha saputo compiere un gesto nel quale si esprime – per dirla con le parole di Francesco Moraglia, Patriarca di Venezia – «la libertà della persona e, in un ecclesiastico, la libertà è sempre sinonimo di obbedienza a un dovere più grande».
Imprenditori immigrati: troppo ottimismo?
«Reverendo padre, mi riferisco all’articolo “Partite Iva a colori”, (Messaggero 1/2013). Mi fa piacere l’entusiasmo nei confronti degli immigrati che hanno avuto successo nel campo industriale e nelle varie attività di servizi nel nostro Paese… Spesso e volentieri la stampa e la tv ci presentano una realtà un po’ diversa da quella da voi illustrata. Quante volte Finanza e Nas, controllando aziende gestite da stranieri, hanno confiscato enormi quantità di merce contraffatta o pericolosa? Si è mai chiesto se tali aziende sono tutte in regola?».
Aldo – Torino
Ho dovuto tagliare la sua lunghissima lettera, ma credo di non aver in alcun modo nascosto le sue perplessità, che in parte condivido. Nessuno in effetti può affermare che tutte le aziende di immigrati siano in regola, ma credo che in buona coscienza non possiamo farlo nemmeno per le altre. Tuttavia è un dato di fatto – lo attestano studi di istituzioni affidabili come Cnel, Cna… – che è in atto da alcuni anni una tendenza nuova: i piccoli imprenditori e artigiani di origine straniera contribuiscono significativamente alla ricchezza del Paese. Si tratta di aziende e lavoratori autonomi che hanno posizioni all’Inps e pagano le tasse, regolarmente presenti nel nostro Paese e sovente iscritti alle associazioni imprenditoriali italiane, le quali hanno uffici appositi per aiutare gli immigrati a ottemperare agli obblighi di legge. Ciò non significa che non ci siano abusi e che il fenomeno immigratorio non comporti complessità difficili da gestire. Ma che senso avrebbe tacere il buono? Il fenomeno immigratorio in Italia è stato particolarmente veloce e poco «governato» dalla classe dirigente. Ma non si tratta solo di un fenomeno italiano o europeo.
Non è un caso che da anni l’arcivescovo di Milano Angelo Scola parli di «meticciato di civiltà e culture» come di un processo in atto a livello globale, con dinamiche che in buona parte ci trascendono. È un processo rischioso ma anche affascinante, che nessuno può arrestare, perché i processi storici, afferma l’arcivescovo, accadono «senza chiedere il permesso». Di fronte a questo dato di fatto possiamo chiuderci a riccio e subire gli avvenimenti rischiando di fomentare conflitti o scegliere di affrontare la complessità, senza buonismi e ingenuità, ma anche senza atteggiamenti pregiudiziali, promuovendo soluzioni percorribili. Una sfida inedita per tutta l’umanità, nella quale ciascuno di noi è chiamato a fare la sua parte, perché questo è il tempo in cui ci è dato di testimoniare il nostro essere cristiani. Una sfida che coinvolge anche noi stampa cattolica, che abbiamo il dovere di parlare dei problemi, ma soprattutto di valorizzare il positivo che si delinea nel grande laboratorio delle società contemporanee.
Invidia, passione triste fabbrica d’infelici
«Caro direttore, ho letto un libro da voi segnalato nel numero di gennaio della rivista, precisamente Come nessun altro. Invidia infelice e vita benedetta di Armando Matteo e devo dire che vi ho trovato delle riflessioni molto belle e interessanti. Personalmente vivo confrontandomi troppo, e in modo perdente, con le fortune degli altri e, se non giungo a desiderare il loro male, mi infastidisce parecchio quello che loro hanno e io non ho e nemmeno potrò mai avere. Mi sento una cristiana piccola piccola, che fatica a cogliere lo sguardo di Gesù come benedizione e rassicurazione per la mia esistenza. Ho difficoltà a pensare la mia vita come unica e positiva anche senza quelle cose che purtroppo mi mancano e amerei possedere».
Lucia – Palermo
Vivere confrontandosi continuamente con altri, sempre migliori, ricchi di qualità umane e spirituali, in possesso di beni e denaro, magari immeritatamente fortunati, questa è la tensione che logora l’invidioso e un po’ tutti noi quando, insoddisfatti e vogliosi, desideriamo l’erba sempre più verde del vicino.
L’invidia, vizio non così raro, è però anche il vizio inconfessabile: se non ci disturba essere definiti golosi e un po’ superbi, chi provasse a definirci invidiosi rischierebbe di passarsela male. Infatti, se l’invidia rode dentro, va però ben nascosta e dissimulata, perché altri ne approfitterebbero per deriderci e calcare la mano proprio su ciò che non abbiamo in dote e vorremmo a ogni costo acquisire. Con l’aggravante che oggi è lo stesso clima culturale dell’Occidente opulento e vacuo a mettere ognuno in competizione con tutti, per cui i termini di confronto si moltiplicano e divengono sempre meno imitabili, determinando un vero e proprio «tormento dell’impotenza» (è così che il filosofo Salvatore Natoli definisce l’invidia).
Come prima cosa, signora Lucia, voglio ringraziarla per la sua sincerità: è forse la prima persona che mi rivela per iscritto di essere irretita nel vizio dell’invidia, e lo giudico un buon segno, vale a dire principio di superamento possibile di un ostacolo che ha saputo riconoscere, valutare, e sul quale si è presa la briga di leggere un libro. Lei parla anche, nella sua lettera, della difficoltà di cogliersi nello sguardo di Gesù, atteggiamento sanante di ogni invidia, poiché ci riflette incontestabilmente la positività radicale del nostro essere al mondo come persone amate, preziose e uniche agli occhi di Dio. La parola invidia deriva dal latino invidere, guardare di sottecchi, vedere con occhi torvi, pieni di livore, per cui il suo superamento consiste in un aggiustamento dello sguardo per operare il quale abbiamo necessità dello sguardo stesso del Figlio di Dio che ci ricollega alla volontà buona di un Padre il quale si prende cura di noi e non ci fa mancare nulla. Restituendoci occhi semplici e un cuore libero.
Lettera del mese. Pellegrinaggi
I mercanti fuori dal Tempio
Mai fare mercato in nome della fede: Dio non è in vendita e nessuno può comprarlo. L’uomo, però, ha sempre bisogno di segni per esprimere la sua interiorità: una candela, dei fiori, un’offerta… I santuari sono anche questo.
«Caro direttore, sono stato pellegrino presso molti santuari, anche in quello della Basilica del Santo. Ciò che sempre mi colpisce e mi rammarica è il mercato che si fa intorno alle chiese o nei loro chiostri. Ma i Vangeli non raccontano che Gesù ha scacciato i mercanti dal Tempio? Non le sembra che si continui, in proposito, a fare orecchi da mercante?».
Luca – Novara
Ricevo tante lettere simili alla sua, e in tutte si contesta quel «commercio» che prospera all’ombra di santuari e basiliche. In diverse lettere, inoltre, il richiamo evangelico è lo stesso, vale a dire il passo che descrive Gesù mentre scaccia i mercanti dal Tempio. Ora, credo che per rispondere con chiarezza a un legittimo dubbio sollevato da più parti sia necessario capire bene il significato del testo evangelico che lei (e non solo) cita a supporto della sua tesi, e poi entrare nel merito della questione dei santuari e di ciò che gira loro intorno. Innanzitutto, il brano a cui si fa riferimento è contenuto nel Vangelo di Giovanni 2,13-25. Ne riporto la prima parte: «Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel Tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”. I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: “Lo zelo per la tua casa mi divorerà”».
Gesù è indignato, anche se il suo atteggiamento deciso, che subito passa all’azione, non sconfina nell’ira: la parola giusta per definire alla radice il sentimento che alberga nel suo cuore è «zelo»: utilizzato nel Salmo 69,10, questo termine indica passione per qualcosa, nel nostro caso per Dio e i suoi diritti. «In realtà – afferma Benedetto XVI nell’Angelus dell’11 marzo 2012 commentando Gv 2,13-25 – è impossibile interpretare Gesù come violento: la violenza è contraria al Regno di Dio, è uno strumento dell’anticristo. La violenza non serve mai all’umanità, ma la disumanizza». Ma di che tenore è, allora, il gesto di Gesù? Va tenuto in conto, infatti, che la vendita di animali destinati al sacrificio era cosa del tutto normale e prevista all’interno del cortile del Tempio di Gerusalemme. Quando Gesù viene presentato al Tempio (cf. Lc 2,22-28), gli stessi Maria e Giuseppe si procurano «due giovani colombi» (era questo il sacrificio che i poveri potevano permettersi). Anche i cambiavalute avevano in quel contesto una loro funzione: chi veniva da lontano doveva cambiare in valuta locale prima di acquistare alcunché. Ciò non toglie che Gesù intervenga, alla maniera dei profeti, compiendo un gesto simbolico di grande valore che non gli verrà contestato in sé, ma in relazione all’autorità che lo rende possibile: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?» (Gv 2,18).
Ma veniamo al possibile parallelo con l’oggi. Il testo in causa dice che mai e poi mai si deve fare mercato in nome della fede, che Dio non è in vendita e nessuno può comprarlo, che noi siamo salvati per quello che riceviamo e non per quello che crediamo di dare. Tutto vero, ma ciò non toglie che l’uomo abbia sempre bisogno di segni per esprimere la sua interiorità: una candela, dei fiori, un’offerta… I santuari sono anche questo, non solo questo. Nessuno viene esonerato dall’esercitare con responsabilità il proprio rapporto con Dio, che non può mai essere mercantile. Nei santuari si accende magari una candela, ma ci si avvicina anche al sacramento della riconciliazione (a volte dopo anni) e si partecipa all’eucaristia. In genere, poi, quello che fa mercato è fuori dal luogo sacro propriamente detto, e i pellegrini, quando tornano a casa, hanno tanti piccoli segni da distribuire a parenti e amici. Per cui un po’ di mercato, discreto, al giusto posto, serve.
Lettere al Direttore, scrivere a: redazione@santantonio.org