Lettere al direttore

02 Luglio 2002 | di

LETTERA DEL MESE

«Perché a te, padre Pio?»

«Ho assistito in tv alla canonizzazione di padre Pio, il cappuccino stimmatizzato di San Giovanni Rotondo. Quanta gente in piazza San Pietro alla cerimonia; quanta gente raccolta davanti al convento e alla chiesa dove lui ha trascorso gran parte della sua vita. Quante testimonianze di riconoscenza e di devozione verso questo umile frate. Ma perché, mi chiedevo, tutto questo per lui. Eppure ci sono stati di recente uomini santi come lui, che magari hanno avuto in vita un ruolo più importante del suo, dal punto di vista culturale o organizzativo, e non hanno tanto seguito: perché?».

Marcello Robusti - Campobasso

«Perché a te Francesco, non bello, non nobile, tutte le genti vengono dietro?». Era la stupita (forse anche stizzita?) domanda che frate Leone, il compagno fedele, rivolgeva a Francesco d`€™Assisi. Con le medesime parole di frate Leone, Davide Maria Turoldo intitolava un suo libro dedicato a sant`€™Antonio. La stessa domanda ci sorge, appunto, di fronte alla figura di padre Pio da Pietrelcina, proclamato santo domenica 16 giugno, proprio quando a Padova si spegneva l`€™eco della festa di sant`€™Antonio. Una stessa domanda, che non ha bisogno di risposta, che percorre la santità  di tre grandi figure del francescanesimo, che dal Medioevo giungono ai giorni nostri. Tre figure con caratteristiche comuni `€“ le stimmate per san Francesco e padre Pio; il dono della bilocazione (dell`€™essere contemporaneamente in luoghi diversi), dell`€™operare miracoli, dell`€™assiduo richiamo al sacramento della riconciliazione per sant`€™Antonio e padre Pio. Ma anche con inevitabili diversità : il muoversi senza fissa dimora dei primi due, la permanenza a San Giovanni Rotondo di padre Pio, praticamente dal 1916 fino alla morte, nel 1968.

Tutti e tre i santi collegati dalla stessa radicalità  evangelica, dalla uguale passione per il Signore Gesù. Uomini di un lontano Medioevo, i primi due. Dei nostri giorni, il terzo. E stupisce ritrovare nella cosiddetta «modernità » una figura come padre Pio. Burbero, a tratti scostante, capace di attirare persone di ogni ceto e cultura, affascinati da un «mistero» di soprannaturalità  che caratterizzava la sua vita. Moriva nel 1968, l`€™anno fatidico in cui molti «miti» e valori crollavano, abbattuti dalla «contestazione generale». A trentaquattro anni di distanza, (12  mila 395 giorni, tanti quanti i palloncini lanciati in cielo da San Giovanni Rotondo il giorno della canonizzazione), un tempo record per una canonizzazione moderna: Francesco d`€™Assisi ha atteso due anni, Antonio di Padova meno di uno, ma erano altri tempi.

In un momento in cui ancora una volta il mondo sembra disorientato, non per una contestazione a valori non più accettati e nella ricerca di altri, ma per mancanza di valori, padre Pio appare come un cristiano semplice, forte, che ha creduto al suo Signore senza limiti, pur tra difficoltà  non lievi: forse è per questo, più che per i miracoli e le cose prodigiose che di lui si raccontano, che egli resta un punto confidente di riferimento per tanti nel mondo.

O sono proprio i miracoli, le cose straordinarie a richiamare le folle, perché gli uomini, confusi e smarriti, hanno bisogno di cose «forti» per poter credere in qualcosa? Guai a quel popolo che ha bisogno di eroi, si dice. Ma padre Pio è pronto a ricordarci che Dio si manifesta al suo popolo non nell`€™impeto del vento o nell`€™infuriare della tempesta, ma nel breve soffio della brezza. Lo dice la Bibbia.        

 

GalaTeo, parente stretto della carità 

«Ho letto il GalaTeo di Roberto Beretta, del mese di giugno, che mi ha lasciato piuttosto perplessa circa le espressioni usate nei confronti di chi... non conosce bene il `€œgalateo`€. Faccio un esempio: `€œNon c`€™è più bisogno di cartelli che vietano di sputare in terra in chiesa... ma oggi tutto è cambiato, nessuno più fa il carrettiere!`€. Oggi ci sono invece gli sputasentenze...

«Io direi, caro Beretta, che sarebbe meglio se ci fosse più carità  e meno galateo; anche perché non saremo giudicati sul galateo ma sull`€™amore! Io benedico il Signore per i `€œparroci riscaldati da esperienze carismatiche`€ (vedi padre Raniero Cantalamessa) che ci hanno fatto uscire da quell`€™apatia, da quella tiepidezza e da quel cristianesimo imbalsamato e soltanto anagrafico...».

Iva Girelli - Roma

A parte che il galateo, per quel tanto che dice di delicatezza e di rispetto degli altri, lo si può ritenere stretto parente della carità , ma Beretta non va preso sul... serio. I suoi interventi sono tutti condotti sul filo di una lieve ironia, mai greve, mai cattiva. Non usa il veleno, ma l`€™aceto, e per di più balsamico. Non sputa sentenze, non giudica istituzioni, movimenti o altro, ma si prende gioco, con garbo e ironia appunto, dei tanti piccoli vizi e vezzi del mondo cattolico (e quindi anche di se stesso, che non si toglie dal mazzo), di quando assolutizza situazioni, momenti, iniziative, togliendo loro il senso del limite che ha ogni esperienza umana.

Anche noi stimiamo l`€™amico padre Raniero e i tanti che, come lui, hanno ridato slancio a tante comunità  cristiane (auspicando, magari, un maggiore inserimento in esse), tuttavia, non ci sembrerebbe fuori luogo chiedere allo Spirito Santo, oltre ai classici sette doni, anche quello dell`€™ironia, cioè della capacità  di ridere di noi stessi, di accettare i nostri limiti, anche quando sono gli altri a segnalarceli, a vivere con minore astio, più tranquilli, più in pace con noi stessi e con gli altri.

 

Matrimonio: le coppie si ritrovano per camminare insieme

«Vorrei dare un contributo al tema della preparazione al matrimonio. Mi chiamo Anna, sono sposata con Roberto da quasi 14 anni (ne ho 38) e abbiamo tre bimbi. Oggi nella nostra parrocchia si celebra la festa della famiglia, con tanto di rinnovo delle promesse nuziali e io non sono potuta andare per motivi di salute (una banale influenza). Così nella disabitudine alla solitudine mi sono messa a leggere con attenzione il `€œMessaggero`€ di marzo ed è nato in me il desiderio di scrivere qualcosa.

«Insieme a Roberto partecipiamo come coppia un po`€™ più matura (almeno come anni di matrimonio) a un gruppo di giovani famiglie che venivano a casa nostra, quando erano ancora fidanzati. Una volta alla settimana venivano da noi per approfondire insieme temi diversi di fede e sociali. Quando iniziammo, dando la nostra disponibilità  al parroco, erano già  nate la nostra bimba più grande (Sara, che oggi ha 12 anni) che aveva poco più di quattro anni e la media (Elisabetta, che oggi ha 8 anni)... Ricordo, non certo per merito, ma per com`€™è il mio carattere di avere sempre reso partecipi i giovani della fatica di essere moglie e madre. E lo vedevano: dovevo interrompere l`€™incontro per cambiare il pannolino o allattare Elisabetta e loro mi seguivano e mi osservavano. Andavo da Sara che mi chiamava. Vedevano i lavori che non ero riuscita a fare. Vedevano con i loro occhi la mia stanchezza e vedevano anche la fatica di Roberto che è molto più metodico di me e... con le interruzioni faticava a riprendere i discorsi interrotti. Ci hanno anche visto discutere perché non condividevano alcuni pareri durante le discussioni e ci hanno visto ridere o sorridere dei reciproci difetti.

«Non so se questo sia positivo, però credo abbia dato loro il senso della realtà . Spesso anche durante i nostri incontri si parla tanto e quando si parla si tende un po`€™ ad... `€œautoincensarsi`€. Quando invece si vive insieme, viene tutto al pettine. Le nostre famiglie, sono tutt`€™altro che perfette, anzi, facciamo fatica a incontrarci e molte di loro fanno fatica ad aprire la loro casa (perché si sporca... e dopo è faticoso pulire). Alcuni non partecipano regolarmente alla messa domenicale. Altri hanno sempre troppi aiuti dai genitori e non imparano ad arrangiarsi; per loro sono un po`€™ preoccupata perché se non ci si allena alla fatica diventa difficile fare uno sforzo senza danni...

«Alcuni di loro ci hanno ringraziato per essere stati noi stessi e aver fatto loro toccare con mano le gioie e le fatiche dell`€™essere sposi e genitori. E ancora oggi, nei momenti di fatica o di dubbio, ci cercano per avere la nostra comprensione e il nostro appoggio e sanno che noi, che di difetti ne abbiamo tanti, possiamo comprendere i loro.

«Quello che, secondo me, manca nella Chiesa è questo reciproco scambio, per cui quando partecipi a un momento formativo, chi ti parla è sempre troppo teorico e difficilmente si sperimenta la concretezza della condivisione anche delle fatiche.

«Io e Roberto, sempre all`€™interno della parrocchia, abbiamo tentato per quasi dieci anni un cammino di comunione più forte con alcune famiglie, ma purtroppo, per diversi motivi, è fallito. Da quell`€™esperienza, che tanto ci ha fatto soffrire per come è finita, abbiamo sperimentato la grazia della condivisione delle gioie e delle sofferenze, che senz`€™altro mancano ai nostri giovani sposi e che aiutano a capire che la coppia non è sola, ma sostenuta dall`€™amore dei fratelli».

Anna - Bologna

Preparando il dossier sulla famiglia, abbiamo dialogato con diverse persone interessate. Ebbene, dal dibattito è emerso proprio il problema che lei ha messo a fuoco: la mancanza in molte parrocchie di momenti di aggregazione delle famiglie, soprattutto giovani. Le coppie magari si trovano insieme durante il corso di preparazione al matrimonio, iniziano, più o meno sentito, un cammino insieme, che si conclude però il giorno stesso in cui ogni coppia sale sull`€™altare a scambiarsi il fatidico «sì». E invece è il giorno dopo quel «sì» che cominciano i problemi, e allora si sente la voglia di confrontarsi con altri, di avere un aiuto a sciogliere i primi nodi. Forse più che il corso di preparazione al matrimonio è urgente il corso di... mantenimento. In alcune parrocchie qualcosa funziona. Ci piacerebbe poter segnalare esperienze di questo tipo, perché possano servire di esempio e di stimolo al altri. Se ne conoscete, fatecelo sapere.

 

Fao: i Paesi poveri condannati alla fame

«Gentile direttore, dopo tre giorni di dibattito al vertice della Fao di Roma è stato firmato un documento finale per la lotta alla fame nel mondo. L`€™obiettivo è di dimezzare il numero di morti per fame entro il 2015, lo stesso annunciato al vertice del 1996. I delegati presenti al vertice, provenienti da 182 Paesi, sono stati 6 mila 600, i capi di stato o di governo dei Paesi dell`€™Unione europea solo tre: Ciampi, Berlusconi e lo spagnolo Aznar.

«Venticinque milioni di persone ogni anno salvate dalla morte per fame: è questo l`€™obiettivo fissato nel documento finale. Chiudendo il vertice, il presidente Silvio Berlusconi ha detto: `€œChi ha fame non è un uomo libero e potrebbe risultare anche pericoloso in un mondo segnato dalla paura del terrorismo`€. Mi permetto di  fare una riflessione su ciò che ha detto il presidente del Consiglio italiano: è vero in parte. Chi soffre la fame e ha sentimenti di odio verso il mondo occidentale, lo fa perché è al culmine della disperazione e sa che l`€™80 per cento delle risorse disponibili appartengono a pochi del mondo industrializzato... Si può parlare, quindi, di fallimento del vertice? È possibile che oltre 800 milioni di persone che stanno morendo di fame e di aids possano aspettare fino al 2015? Lo stesso annuncio fu fatto al vertice del 1996. È possibile che i potenti della Terra abbiano disertato il vertice di Roma perché impegnati in altri problemi più importanti, inviando soltanto delegazioni, mentre le popolazioni povere dell`€™Africa muoiono di fame e aids?... ».

Gaudiosi Florio, Salerno

Abbiamo sintetizzato la sua lettera per ragioni di spazio, cogliendo, ci pare, il messaggio essenziale che lei voleva trasmetterci e cioè che, al di là  dei proclami e delle promesse ogni volta non mantenute, la volontà  dei Paesi ricchi di risolvere (o inziare seriamente a risolverlo) il problema della fame nel mondo è assai scarsa. Lo dimostra il fatto che al verticenon c`€™era quasi nessuno dei grandi, solo delegazioni, come a dire che il dramma di chi soffre e muore per mancanza di cibo non è al vertice dei loro pensieri e del loro impegno. Così si spiega (non si giustifica) la rabbia dei popoli, che a volte esplode in gesti sconsiderati e atroci, che finiscono poi con il fare vittime, soprattutto tra chi non c`€™entra.

Ha ragione Berlusconi quando dice che chi ha fame non è un uomo libero. «Ventre digiuno non ascolta nessuno», diceva la saggezza dei vecchi. Ed è vero. O ascolta le parole di chi, approfittando della sua situazione, lo aizza all`€™odio, alla vendetta e al terrore. Ecco perché Berlusconi ha richiamato la pericolosità  di questo dramma in un momento in cui le sirene dell`€™odio e del terrore sono più che mai suadenti.

Per disarmare efficacemente le armi del terrore servono quelle giustizia, della lotta alla miseria e alla fame. Il problema della fame, in un mondo «globalizzato», non è solo problema di chi la soffre, ma di tutti. Ed è nell`€™interesse della tranquillità  e della pace di tutti provvedere non più a parole, ma con i fatti.

 

Oltre la legittima difesa

«Le scrivo per dire la mia sul tema della legittima difesa. Non obietto che rispondere violenza alla violenza abbia una sua innegabile liceità , ma vorrei far presente l`€™abisso che passa fra azione legittima e azione giusta. Se Gesù, quando lo venivano a prendere, avesse risposto con la spada alle spade, come gli suggeriva Pietro, il suo certamente sarebbe stato un atteggiamento legittimo, ma lei converrà  con me che non avrebbe prodotto nulla, assolutamente nulla, dell`€™esempio di amore totale che ci è stato tramandato. Credo, dunque, che chi voglia seguire Gesù abbia di fronte un compito ben più alto del semplice non fare più male di quanto se ne riceve».

Guido - Milano

Legittima difesa vuol dire porre in salvo la propria vita minacciata da ingiusto aggressore con mezzi che possono eliminare l`€™aggressore stesso. Dice san Tommaso: «Dalla difesa personale possono seguire due effetti, il primo dei quali è la conservazione della propria vita; mentre l`€™altro è l`€™uccisione dell`€™attentatore...». Lo ribadisce anche il Catechismo della Chiesa universale, dove afferma (n. 2264) che «chi difende la propria vita non si rende colpevole di omicidio anche se è costretto a infliggere al suo aggressore un colpo mortale». Un atto legittimo, in taluni casi doveroso. Pur senza usare mai «maggior violenza del necessario». Perché legittima difesa non è licenza di uccidere. Sempre il Catechismo, al n. 2265: «La legittima difesa può essere non soltanto un diritto, ma un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri, del bene comune della famiglia e della comunità ».

Questo riguarda la legittimità  di un atto estremo. Ma si può andare oltre, entrando nell`€™ambito delle libere scelte, che possono tramutarsi nel più grande gesto di gratuità  e di amore, offrendo la propria vita per gli altri. Per gli amici: non c`€™è più grande amore che dare la propria vita per essi. Ma anche per i nemici, nella certezza che il proprio sangue sarà , insieme a quello di Cristo, strumento di redenzione, di salvezza per l`€™ingiusto aggressore. Come hanno fatto i martiri. Gesù stesso ha chiesto ai discepoli di porgere l`€™altra guancia, di amare i propri nemici, e ha rifiutato di difendersi e, nell`€™Orto degli ulivi, a Pietro, pronto a usare la spada contro chi lo stava per ammanettare, ha ingiunto di rimettere l`€™arma nel fodero. Siamo sul piano delle scelte radicali nelle quali fondamentale è la libertà .

 

Il vestito non fa il giovane

«Oggi tanti giovani sono convinti di non essere accettati dagli adulti, e questo li fa sentire pieni di rabbia contro la nostra società , che si impone su tutto e su tutti. Se dei genitori vedono la figlia andare in giro con certe magliette, dicono che è un`€™asociale. Uno che si veste in modo stravagante, o che ascolta un certo tipo di musica, non è detto che non abbia sani principi. Però, vestendosi in modo strano, non fa che attirare l`€™attenzione su di sé. Probabilmente ha bisogno di essere al centro dell`€™attenzione, oppure di nascondere la propria normalità  sotto una maschera. Forse è la paura di non essere accettati dagli amici, se si presentano troppo normali, a spingere tanti giovani a comportarsi così.

«Penso sia normale essere giudicati senza pietà , al primo impatto visivo con un estraneo. Spesso la prima impressione non è buona, ma poi, parlando insieme, scopriamo la persona in sé con i suoi ideali. Ci si chiede quale parte abbiamo in questo palcoscenico che è il mondo, e perché cerchiamo sempre la perfezione del nostro corpo, nascondendo la nostra malinconia e la nostra solitudine. Perché non abbiamo il coraggio di fare le nostre scelte in tutti i campi della vita, anche in quello morale, prescindendo dal giudizio degli altri, e perché ci sentiamo realizzati solo quando abbiamo soddisfatto quelle esigenze che gli altri ci impongono?

«Viviamo sempre di più assuefatti, deboli, schiavi di un sistema che appiattisce la nostra fantasia, il nostro io. Il modo di vestire, che fa problema e stupisce, è l`€™esplicitazione più chiara del rifiuto di considerare la singolarità  di ognuno. Si è convinti che sono gli altri, in quanto tali, che rendono possibile l`€™io come persona. Se ciascuno di noi provasse a gioire, perché è l`€™unico esemplare della Terra a pensarla come la pensa lui, a vivere come lui, ad avere i gusti che solo lui ha; se si rendesse conto che vive la fede nel modo con cui lui solo la vive, che ama nel modo con cui solo lui ama, quante depressioni in meno ci sarebbero!...»

Salvatore, Nocera Umbra (PG)

Non so se possa bastare questo a limitare il numero dei depressi. La depressione è una malattia complessa, rognosa, ha tante cause e uscirne non è la cosa più facile del mondo, mentre è assai più semplice entrarvi. A parlarne, il discorso si farebbe lungo, molto oltre lo spazio consentito. Ci ritorneremo su con alcuni articoli. Però è vero che la consapevolezza della propria individualità  è una grande ricchezza spirituale. Che siamo, ognuno, esseri unici, creati e amati da Dio come tali, è una verità  sacrosanta. Però è anche vero che siamo nel mondo con gli altri, e che è nel confronto con gli altri che scopriamo noi stessi, che ci differenziamo e maturiamo. La fatica è di combinare le due cose, noi e gli altri, farle vivere in armonia, nel rispetto reciproco, accettando il positivo e il negativo di ognuno come occasione per ripensarsi e crescere.

Altrimenti, l`€™alternativa è tra l`€™accartocciarsi in un individualismo egoistico e sterile e lo scivolare in un anonimato frustrante, anticamera della depressione, appunto.

Comunque, giudicare le persone solo per come vestono o per che musica ascoltano è limitante e ingiusto. «L`€™abito non fa il monaco», anche se indica un certo stile di vita. L`€™importante è non giudicare quello stile di vita, ma cercare di capirlo. Può esserci in esso una ricchezza che non conosciamo e che vale la pena di valorizzare. Mai fermarsi al primo impatto.

 

Il grazie di Sarah al Santo

«Sono Sarah Cheekhoory, 34 anni, vivo in Sicilia da 13. Sono nativa dell`€™Isola Mauritius. Le scrivo per raccontarle un episodio della mia vita che mi ha fatto conoscere il nostro Santo. Il 29 settembre dello scorso anno, dopo un forte mal di testa, mi hanno diagnosticato un`€™emorragia talamica ventricolare, all`€™ospedale Cannizzaro di Catania. Entrata in un coma leggero, avevo perso la vista e i medici mi avevano dato 48 ore di vita. Vivo sola in Sicilia e nel caso mi fosse successo qualcosa, nessuno voleva prendersi la responsabilità . Allora alcuni amici, con l`€™aiuto della direzione dell`€™ospedale, hanno contattato i miei parenti a Mauritius. E lì è stata scelta mia sorella per affrontare questa situazione così delicata. Ragazza molto sensibile e non tanto coraggiosa, mia sorella è stata sempre devota a sant`€™Antonio. Disperata, si era rivolta a lui piangendo e disperandosi per tutto il viaggio.

«Nel frattempo, mi ero svegliata dal coma ma di tanto in tanto cadevo in un sonno profondo. Mia sorella è arrivata quando mi hanno trasferita dalla terapia intensiva alla neurochirurgia: al vederla, dopo 12 anni, mi sono svegliata completamente. Non avevo più quel sonno profondo e quasi per miracolo l`€™emorragia aveva cominciato ad assorbirsi. I medici non hanno capito né la causa dell`€™emorragia né la mia guarigione. Fatto sta, che dopo sette giorni dall`€™arrivo di mia sorella mi hanno dimessa.

«Il mese successivo mia sorella mi ha chiesto se in Sicilia ci fosse una chiesa dedicata a sant`€™Antonio, per ringraziarlo. Allora l`€™ho portata dalle suore di viale Rapisardi di Catania. E quel giorno mi sono sentita veramente miracolata: i medici mi avevano dato 48 ore di vita e ora potevo vedere, camminare e guidare la mia auto. Da quel giorno in poi mi sono sempre rivolta a sant`€™Antonio per intercedere presso il nostro Signore, per me e mia sorella, in qualsiasi difficoltà , e anche per ringraziarlo in quanto mi ha già  aiutato».

Sarah Cheekhoory

L`€™aver ritrovato la serenità , la gioia di vivere, la speranza nel futuro è un grande miracolo. Dobbiamo essere grati a Dio che ha voluto essere benigno. La nostra vita ora deve essere conseguente nell`€™amarlo al di sopra di ogni cosa e nei fratelli che ogni giorno incrociamo nella nostra vita, come dice Gesù nel Vangelo.         

 

fede e vita di Claudio Mina

Meno si prega, meno si desidera pregare

«Prima di sposarmi avevo nella mia giornata alcuni momenti fissi per la preghiera, i quali tenevano vivo in me, senza sforzo, il pensiero di Dio e mi davano serenità  interiore. Ora, sposata e con un bimbo di pochi mesi, mi è difficile restare fedele alle mie abituali preghiere, che sono divenute sempre più saltuarie. Questo fatto mi lascia, però, un fondo di disagio. Una persona con cui mi sono confidata mi ha detto con forza che non occorreva che mi sforzassi di pregare, perché ciò che più conta è il compiere bene la volontà  di Dio, cioè i propri doveri. Questo consiglio mi lascia incerta. Dovrei davvero accettare di non cercare più di stare vicino a Dio come facevo in passato?».

Federica 1976

È comprensibile che il consiglio che le è stato dato la lasci perplessa. Infatti, se è vero che per andare a Dio occorre essere fedeli nel compimento dei propri doveri, è altrettanto vero che di tali doveri fa parte inscindibile anche la preghiera, che è un aspetto centrale della vocazione cristiana. Lo scopo, infatti, per cui siamo stati creati è quello di giungere a vivere per l`€™eternità  nell`€™indicibile felicità  della convivenza con Dio, sorgente infinita di ogni amore, bellezza e bontà . Ed è proprio per prepararci al raggiungimento di questa meta che Dio ci pone nel nostro cammino terrestre, affinché abbiamo modo di scegliere liberamente fin d`€™ora di amarlo con tutto il nostro essere, cercando di entrare il più possibile in un rapporto di affettuosa intimità  con lui. Così come ci rivela la Scrittura, in cui Dio ci dice: «Ecco, io sto alla porta e busso; e se uno ascolta la mia voce e mi apre, io entrerò e cenerò con lui, e lui con me».

Dunque, Dio ci ha dotato della stupenda facoltà  di ascoltare la sua voce e di intrattenerci amichevolmente con lui, godendo del suo amore e della sua tenerezza. Questa facoltà , però, posta come un germe nel profondo del nostro essere, non si risveglia e non si rafforza in noi senza il nostro intervento: è ben noto, infatti, che tutte le facoltà  umane, per mantenersi hanno bisogno di un perseverante esercizio. Lo sanno bene, ad esempio, gli sportivi, i musicisti e gli artisti di ogni genere, i quali si tengono quotidianamente in allenamento; altrimenti, le loro abilità  vanno atrofizzandosi. Ciò vale anche per quella preziosa facoltà  che è l`€™aspirazione al divino la quale, per rimanere viva, ha bisogno di essere quotidianamente messa in azione. Questo avviene quando noi apriamo amorevolmente la nostra mente e il nostro cuore a Dio, cioè quando preghiamo o comunque cerchiamo un rapporto d`€™amore con lui.

Di fatto, se perseveriamo con fedeltà  in questo impegno, allora, raccogliendoci, ritroviamo con facilità  la sua vicinanza, che ci dà  quella serenità  e quella pace che anche lei aveva sperimentato. Ma quando, invece, per ragioni più o meno valide, si comincia ad abbandonare la ricerca del rapporto con Dio, diminuisce la nostra sete di lui e la capacità  di trovare appagamento nello stare in sua compagnia: così, quanto meno si prega, tanto meno si desidera pregare e si trova sempre più difficoltà  nei tentativi di farlo.

Allora Dio diviene per noi una realtà  sempre più vuota, evanescente e priva di incidenza nella nostra vita quotidiana; e, contemporaneamente, si sbiadiscono quei doni di forza, di luce e di amore che si ricevevano dal contatto quotidianamente rinnovato con lo Spirito Santo.

Sarebbe, dunque, assai pericoloso ritenere che l`€™adempimento di vari impegni possa sostituirsi alla preghiera. Anche nella vita più attiva, dunque, dovremmo ritagliarci con intelligenza degli spazi per stare vicini al Signore, il che non avviene necessariamente mediante preghiere vocali ma, se ciò ci risulta più agevole e più possibile, anche intrattenendoci di tanto in tanto in un rapporto d`€™affetto con lui. E se rinnoviamo frequentemente questa «ricarica interiore», allora anche il compimento dei nostri doveri quotidiani diviene preghiera, perché animati dall`€™amore di Dio ci è più agevole compiere ogni cosa in Lui e con Lui, e soprattutto `€“ ciò che più conta `€“ amando ogni prossimo dell`€™amore con cui ci sentiamo amati.  

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017