27 Febbraio 2014

Lettere al Direttore

Onlus: che senso ha fare regali a chi dona?

«Sono un’insegnante in pensione da alcuni anni. Durante la mia attività didattica ho sempre sensibilizzato i miei alunni alle problematiche sociali e, per questo motivo, ho cercato di mettere in contatto i miei bambini con le associazioni che lavorano in situazioni difficili. Oggi, però, mi rendo conto che alcune Onlus sono piuttosto eccessive e forse anche onerose.



Ogni giorno trovo nella cassetta della posta molte lettere di richiesta d’aiuto e ogni lettera contiene bollettini e piccoli doni: stelle, segnalibri, biglietti augurali, coroncine, borse per la spesa. È possibile tutto questo? Penso che bisognerebbe ridimensionare questo fenomeno, perché tutti i soldi spesi per queste richieste potrebbero essere spesi per le stesse associazioni».

Lettera firmata

 

Gentile signora, ciò che lei dice è vero. Sovente le nostre cassette della posta sono letteralmente invase da richieste di aiuto che contengono al loro interno gadget di ogni tipo. Il suo dubbio è quindi legittimo: ha senso sprecare fondi per fare regalini ai donatori? Non sarebbe meglio usare quel denaro per i fini dell’associazione? La mia prima risposta è «sì», ma con dei distinguo. Nessuna associazione od Onlus, nemmeno la più seria o specchiata, potrebbe portare avanti una causa umanitaria senza farla conoscere e senza sensibilizzare le persone. In campo umanitario, infatti, le iniziative pubblicitarie devono essere fatte non al fine di sostenere l’esistenza della Onlus, ma per moltiplicare la solidarietà e la capacità che essa ha di risolvere particolari problemi sociali e umanitari, inscritti nella propria mission.



Dove sta, quindi, il limite? Nella cara vecchia «misura». È legittimo, anzi utile, farsi conoscere usando i mezzi che la società moderna mette a disposizione, marketing incluso, ma nel farlo ci si deve dare un limite e uno stile. Le faccio un esempio concreto. Oggi in campo di raccolta fondi va di moda uno stile più aggressivo, pietistico, con uscite ripetute (per esempio, le lettere che si ripetono a distanza di breve tempo, relativamente allo stesso progetto) e con l’inserimento di un regalino, per colpire ancor di più a livello emotivo il donatore e sollecitare il suo intervento. Ebbene, questa è una scelta di stile, che magari paga, ma che supera l’intento informativo e di promozione del bene e che quindi non è strettamente necessaria; una scelta che, tuttavia, cuce addosso all’associazione o alla Onlus un’immagine ben precisa, sia nel bene sia nel male. Uno stile più sobrio può dire della stessa realtà altre cose, che magari la caratterizzano di più, la rappresentano di più.



Personalmente, come francescano, propendo per questa seconda scelta. Per me il dono è innanzitutto un modo di essere, un’esigenza dello spirito, non qualcosa da estorcere.



Un’ultima precisazione: ci dev’essere comunque sempre un limite nel rapporto tra spese di gestione e promozione e soldi investiti in solidarietà. Gli americani dicono che i primi non dovrebbero superare il 30 per cento della raccolta. Più si abbassa la percentuale, più l’organizzazione è virtuosa, entro certi limiti. Infatti, i costi vivi ci sono e sarebbe ingiusto e illusorio, oltre che ipocrita, negarli.

 

 

Anche i «veri cristiani» dubitano?

«Caro direttore, leggo con attenzione le risposte che ogni mese dispensa ai lettori del “Messaggero” e vorrei, a mia volta, esporle un dubbio ricorrente. Come si fa a essere “veri cristiani” e a credere in un Dio che si è fatto carne? Immaginarlo come entità superiore che, proprio per questo, sfugge ai limiti della mente umana, è una questione. Ma pensarlo come un figlio in carne e ossa, generato da una donna per opera dello Spirito Santo, richiede un grande atto di fede. Da parte mia, ammetto di serbare molte perplessità a riguardo. Mi domando se questo dubitare sia opera del maligno o se rientri, invece, nella normalità. Spero lei possa darmi una risposta e rasserenare il mio animo inquieto».

Lettera firmata

 

Gentile lettore, farsi domande è sintomo di una fede sana e in continua ricerca. Il dubbio non è di per sé un male, anzi, spesso è il sintomo di un reale desiderio di incontrare Dio. E questa è cosa buona e naturale.



Come scrive papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium: «La fede non ha paura della ragione; al contrario, la cerca e ha fiducia in essa, perché “la luce della ragione e quella della fede provengono entrambe da Dio” (Giovanni Paolo II citando san Tommaso D’Aquino, enciclica Fides et ratio), e non possono contraddirsi tra loro».



Lei mi chiede come si fa a essere «veri cristiani»: il fatto è che non esistono ricette né formule belle e pronte. «Vero cristiano è colui che porta con gioia e pazienza le umiliazioni» ha spiegato il Pontefice lo scorso settembre, durante un’omelia tenuta nella Domus Santa Marta, a Roma. Vero cristiano è anche colui che, tenendo fisso lo sguardo su Gesù Cristo, «dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12,2). Dunque nessuna regola fissa, nessuna equazione matematica. Credere – in Dio, ma anche nella sua incarnazione e risurrezione – è il traguardo di un percorso interiore costellato di ostacoli, imprevisti, dubbi. E questo non deve spaventarci o scoraggiarci. Lo ha sottolineato anche papa Francesco nel corso dell’udienza generale del 30 ottobre 2013: «Chi di noi – tutti, tutti! – chi di noi non ha sperimentato insicurezze, smarrimenti e perfino dubbi nel cammino della fede? Tutti! Tutti abbiamo sperimentato questo: anche io. Tutti. È parte del cammino della fede, è parte della nostra vita. Tutto ciò non deve stupirci, perché siamo esseri umani, segnati da fragilità e limiti. Tutti siamo fragili, tutti abbiamo limiti: non spaventatevi. Tutti ne abbiamo!».



Ciò che conta, quindi, è la volontà di superare i nostri limiti. E che gioia, poi, quando l’impresa riesce!

 

 

In paradiso potrò rivedere tutti i miei cari?

«Gentile direttore, padre David Maria Turoldo, rivolgendosi a Dio, diceva: “Se nel tuo paradiso non mi fai ritrovare mia madre, tienitelo pure il tuo paradiso…”.



Io vorrei chiederle: come potremo vivere nella felicità e nella beatitudine eterna con il nostro Dio, se con noi non ci potranno essere tutte le persone che più abbiamo amato nella vita terrena? Anche quelle che, purtroppo, hanno rifiutato Dio? Condannando all’inferno chi ha sbagliato e non si è pentito dei propri peccati, nello stesso tempo Dio non condanna all’infelicità quelle anime che saranno insieme con Lui in paradiso? Questa è una domanda che mi accompagna da sempre. Lei, padre, cosa ne pensa?».

E-mail firmata

 

Mi giungono spesso dai nostri lettori domande su come si vivrà in paradiso. E devo confessarle che ogni volta sono un po’ in difficoltà a rispondere. Non possiamo accostarci, infatti, a un tema come questo con le nostre categorie mentali terrene. Tutto ciò che riguarda l’aldilà può essere da noi unicamente immaginato, intuito. Di certo sappiamo solo che in paradiso Dio troverà il modo di valorizzare tutto ciò che di bene e di buono abbiamo avviato nella nostra vita e quindi anche le nostre relazioni positive.



Da quanto possiamo leggere nelle Scritture e nei testi dei Padri, apprendiamo che il paradiso sarà certo un luogo di felicità piena («L’uomo ha in Dio la pienezza della sua perfezione» scrive san Tommaso) nel quale sperimentare quella comunione profonda con Dio e al tempo stesso con i fratelli che, è ancora san Tommaso a dirlo, sarà «estremamente deliziosa, perché ognuno avrà tutti i beni di tutti gli altri beati. Ognuno amerà l’altro come se stesso e perciò godrà del bene altrui come del proprio. Così il gaudio di uno solo sarà tanto maggiore quanto più grande sarà la gioia di tutti gli altri beati». Già, gli altri beati. Ecco il punto da lei posto: e se tra questi non ci fossero le persone che ci sono state care in vita? Come potremo, noi, essere nella gioia?



Facciamo un passo indietro e proviamo a chiederci: qual è lo sguardo con cui ci guarda il Signore? Indubbiamente è uno sguardo d’amore, ricco di misericordia per ogni creatura, la qual cosa mi fa pensare che, come ha scritto padre Turoldo, «non so come, non so dove, ma tutto perdurerà».



Sono certo che Dio ha una speranza: che anche chi si trova a percorrere strade non adeguate possa ritrovare la gioia di un amore che riempie la vita e dà senso a ogni cosa. Però, al contempo, il suo è un amore talmente grande che non può prescindere dalla nostra libertà: nel suo amore infinito egli accetta, come gesto estremo, il nostro no. Mi piace immaginare che nel cuore di Dio ci sarà sempre la nostalgia per un paradiso che egli avrebbe voluto pieno di tutti i suoi figli. Ma, al contempo, vi sarà la pace di chi sa di aver rispettato fino in fondo la libertà delle sue crea­ture e dunque di averle, proprio per questo, infinitamente amate.





Lettera del mese. Fede

 

Posseduto da Dio

 

Il cristiano mai dovrebbe dimenticare che, prima di rischiare di essere posseduto dal demonio, è, senza alcun dubbio e prima di qualsiasi altra cosa, realmente abitato dal Signore.

 

«Caro direttore, in questi giorni ho visto un filmato dedicato all’azione del demonio. Le assicuro che sono rimasta sconvolta ascoltando quanto si diceva riguardo a possessioni, fatture, infestazioni, oggetti contaminati, eccetera. Io pensavo che queste cose fossero relegate ai tempi passati, ma purtroppo ho constatato che avvengono anche oggi. Se è effettivamente così, come mai i preti oggi non ne parlano quasi più? Oltre a vivere in grazia di Dio, come possiamo difenderci da tutto ciò e dalle persone che si sono votate al demonio?».

Felicia Basta

 

Per poter affermare che oggi di demonio si parla troppo, o troppo poco, abbiamo prima bisogno di fare alcune precisazioni. Non accenno minimamente a film, libri o passaggi televisivi che solleticano le nostre paure, e che qualche volta giocano con la nostra ignoranza. E intanto ci fanno su un bel po’ di soldi. E nemmeno ai riti satanici, con annessi e connessi, in cui talvolta cadono i nostri ragazzi, e che andrebbero affrontati in maniera un po’ più intelligente: dove responsabilità educativa e persino lotta al crimine dovrebbero accompagnarsi a pastorale e spiritualità.



La prima precisazione da fare mi sembra quella anche più fondamentale. Il cristiano mai dovrebbe dimenticare che, prima di rischiare di essere posseduto dal demonio, è senza alcun dubbio, e prima di qualsiasi altra cosa, posseduto, e cioè realmente abitato da... Dio. Ce l’ha promesso Gesù stesso: «Noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). E voglio proprio vedere chi è in grado di sfrattarli questi! Nell’antichità, e perciò anche nella Bibbia, di demoni se ne parlava in abbondanza. Quantitativamente molto più di ora. Il che non vuol dire di per sé che ce n’erano più di adesso. Ma solo che in quelle culture, nelle loro chiavi di interpretazione della realtà, le malattie o tutto ciò che sfuggiva alla capacità umana di comprensione, venivano catalogati sotto la voce «demonio». Di conseguenza, curare voleva anche un po’ dire «esorcizzare». Infatti, noi tuttora chiamiamo ciò «male»: che sia il mal di denti o il male del peccato. «Far male», ugualmente, allude a entrambi questi significati. Perché comunque noi siamo corpo e anima.



Lo sviluppo delle scienze psicologiche e della teologia oggi ci aiuta a distinguere meglio tra disagio o malattia psichica e vera possessione diabolica. Il che non vuol dire, di nuovo, che di quest’ultima oggi ce ne sia meno di una volta. Da questo punto di vista, è riduttivo affermare che i preti parlano poco di demonio, visto che lo tirano in ballo persino davanti ai bambini appena nati, a ogni celebrazione del battesimo, nel momento dell’«unzione dell’esorcismo». Praticamente ogni diocesi ha incaricato uno o più sacerdoti al «ministero dell’esorcistato»: per servire davvero le persone, aiutandole a identificare il loro reale malessere, per evitare il «fai da te» e, perciò, per arginare parole e credenze non del tutto evangeliche. Che poi tutto ciò avvenga, nella maggior parte dei casi, nel silenzio di un impegno quotidiano, senza tanti clamori, questo è un altro discorso. Non dimentichiamo che l’eucaristia e la confessione, in quanto incontri con la forza della misericordia di Dio, sono, se così vogliamo dire, l’esorcismo che abbiamo a portata di mano. Se, infine, la Bibbia chiama il demonio «accusatore», ma pure «diavolo» (in greco è «colui che divide»), allora è evidente che anche la comunità cristiana è un «esorcismo».



A me sembra, in realtà, che il demonio si sia fatto al giorno d’oggi molto più astuto di una volta, a tal punto da non aver nemmeno bisogno di ricorrere a certi mezzi plateali. Talvolta non ha neppure necessità di intervenire, gli basta lasciarci fare... Sant’Antonio diceva che persino Satana arrossisce dei peccati dell’uomo. Non è forse demoniaca la corsa al potere e alla ricchezza che inchioda milioni di nostri fratelli alla povertà più indegna? Cosa manca per essere demoniaco al pensiero «l’importante è che stia bene io»? C’entra niente il demonio, secondo voi, coi disastri ambientali che giustifichiamo in nome del benessere? Che è, come direbbe san Francesco, ribadire che noi siamo responsabili dei nostri peccati, i quali possono aprire la strada al male. Il punto, allora, non è parlarne poco o troppo: è, piuttosto, parlarne a proposito.





Lettere al Direttore, scrivere a: redazione@santantonio.org



Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017