Troppa famiglia a catechismo?
«Caro direttore, sono la mamma di due ragazzi di 12 e 10 anni. Il primo dei due a breve farà la prima comunione e la cresima, insieme. Frequenta la prima media e finora non ha mai potuto accostarsi all’eucaristia. Con mio marito abbiamo cercato di educare i nostri figli alla fede, cercando soprattutto di dare loro un buon esempio. In questo caso, però, ho dovuto adattarmi a una scelta che non condivido: perché attendere così tanto per dare la comunione a un ragazzo? E, soprattutto, perché chiedere un coinvolgimento pesante e spesso difficile in termini di orario alle famiglie? Noi avremmo comunque accompagnato i nostri figli all’incontro con il Signore, che bisogno c’era di obbligarci a una lunga serie di riunioni? Mi pare che per l’ennesima volta nella Chiesa si sia presa una decisione calandola dall’alto, senza cioè coinvolgere i fedeli. Che cosa ne pensa?».
Lettera firmata
Gentile lettrice, le questioni sollevate – i sacramenti dell’eucaristia e della cresima conferiti insieme; il maggior coinvolgimento dei genitori – vanno ricondotte insieme al loro contesto. Mi riferisco alla nuova formulazione del percorso di iniziazione cristiana intrapreso dalla Chiesa italiana. In altri termini: il tradizionale catechismo dei bambini e dei ragazzi sta mutando pelle. È, per certi versi, una rivoluzione, perché se non è cambiato l’obiettivo – la trasmissione della fede e l’incontro con Cristo – sono mutati lo stile e il modo, la scansione dei tempi e la proposta dei sacramenti.
Non tutte le diocesi stanno procedendo con la stessa velocità, quindi in alcuni territori si continua a procedere «come si è sempre fatto», ma in altre zone si è ormai «a regime» con la nuova pastorale, che si ispira al cammino del catecumenato. In merito la invito a leggere il dossier del numero di aprile, dove abbiamo cercato di raccontare di cosa si tratta, con alcune sottolineature – ho in mente soprattutto l’intervista a don Luigi Girardi – dedicate al nuovo corso del catechismo dei bambini. Infine lei mi chiede: «Che cosa ne pensa?». Penso che ci sia stato e ci sia ancora un difetto di comunicazione piuttosto importante, certo nei riguardi delle famiglie, ma pure verso gli «addetti ai lavori» (parroci e catechisti). In proposito c’è ancora molto da fare, anche perché, lo ribadisco, stiamo vivendo una stagione di grande rinnovamento che segnerà profondamente il volto delle nostre comunità.
La pietà popolare ha ancora un senso?
«Gentile direttore, la Chiesa, con l’avvento di papa Francesco, sta cambiando. Prima i sacerdoti si preoccupavano soprattutto di inculcarci delle norme; ora, seppure a rilento e a volte di controvoglia, cercano di mostrarci il volto misericordioso della Sposa di Cristo. Ma c’è un aspetto sul quale non mi è ancora chiaro il pensiero dell’attuale Pontefice (e di conseguenza dei sacerdoti): la devozione popolare ha ancora un senso? Oppure è solo “roba d’altri tempi” buona a malapena per anziani “sempliciotti”?».
L.L. – Asti
Gentile lettore, il suo scritto mi ha richiamato alla mente l’indagine che abbiamo svolto in occasione dell’Ostensione del corpo di sant’Antonio, nel febbraio 2010, curata da una realtà autorevole come l’Osservatorio socio-religioso Triveneto. Ebbene, tale ricerca ha rilevato dei dati sorprendenti: il popolo dei devoti di sant’Antonio, infatti, non è né vecchio, né bigotto, né tanto meno ignorante. Ci siamo trovati dinanzi a una fetta di credenti abbastanza giovane (due su tre avevano un’età compresa tra i 30 e i 59 anni), colta (più istruita della popolazione italiana nel suo insieme), che crede senza incertezze in alcune fondamentali verità di fede (come la risurrezione: 83 per cento tra i pellegrini al Santo; 30 per cento il dato tra la popolazione in generale; 58 per cento tra i praticanti assidui).
La devozione, quindi, pare proprio non conoscere tramonto. Il motivo è presto detto: accostarsi a un santo o a una santa risponde a un bisogno profondo dell’essere umano, quello di vedere con i propri occhi che la santità è una via praticabile per tutti. Non si spiegano altrimenti i santuari sempre pieni o i numerosi pellegrinaggi ai luoghi della pietà popolare. E non si tratta di superstizione, benché a volte capita di imbattersi anche in quella.
Personalmente credo che la devozione sia uno dei volti della fede sul quale non bisogna appiattirsi (e noi, anche attraverso la nostra rivista, cerchiamo di non farlo), ma che può aiutare davvero a incontrare Dio nella propria vita. Già Paolo VI, nell’esortazione Evangelii Nuntiandi, scriveva che la pietà popolare «rende capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede». E, in tempi più recenti (novembre 2013), papa Francesco, nella Evangelii Gaudium (125), ha affermato: «Per capire questa realtà c’è bisogno di avvicinarsi ad essa con lo sguardo del Buon Pastore, che non cerca di giudicare, ma di amare. (…) Penso alla fede salda di quelle madri ai piedi del letto del figlio malato che si afferrano ad un rosario anche se non sanno imbastire le frasi del Credo; o a tanta carica di speranza diffusa con una candela che si accende in un’umile dimora per chiedere aiuto a Maria, o in quegli sguardi di amore profondo a Cristo crocifisso. Chi ama il santo Popolo fedele di Dio non può vedere queste azioni unicamente come una ricerca naturale della divinità. Sono la manifestazione di una vita teologale animata dall’azione dello Spirito Santo che è stato riversato nei nostri cuori (cf. Rm 5,5)».
Lettera del mese. Dalla parte del figlio
Chi sono i miei genitori?
Una lunga lettera, che abbiamo dovuto tagliare per limiti di spazio, pone la questione della recente decisione della Corte Costituzionale in materia di fecondazione eterologa.
«Caro direttore, questa notizia ha generato in me sbigottimento e incredulità. Alludo alla decisione della Corte Costituzionale che ha bocciato il divieto di fecondazione eterologa previsto dalla legge 40 del 2004. Tradotto: le coppie non fertili potranno fare ricorso anche in Italia a un donatore esterno di ovuli o di spermatozoi. Per me, uomo della strada e timorato di Dio, non è affatto una conquista dell’ingegneria genetica o ingegneria riproduttiva che dir si voglia (…)».
F.P. – Avellino
Che fatica incontrarsi, se non proprio a mezza strada, almeno da qualche parte, quando ci si incammina da punti di vista diversi. Che fatica incontrarsi, quando anche il proprio linguaggio e il significato che si dà alle parole differiscono. Non sempre per colpe soggettive, ma anche perché ognuno è impastato nella propria cultura. Ma che fatica anche semplicemente per incontrarsi, senza pregiudizi e senza scomuniche reciproche. Con il desiderio di comprendersi o anche solo di ascoltarsi sinceramente.
Conosco personalmente coppie che non possono avere figli. Ne conosco la sofferenza, il senso di fallimento. Intuisco il loro pressante e umanissimo desiderio di trovare una via d’uscita, qualche volta a portata di mano, altre volte chiedendo miracoli alla scienza. Non sempre la soluzione, qualsiasi essa fosse, è stata meglio del problema. Non lo è stata in genere se doveva in verità accontentare un delirio di onnipotenza, un desiderio smodato che rispondeva a un bisogno molto personale di identità e di dignità. Non lo è stata mai se al figlio che doveva arrivare a tutti i costi si affidava il compito di «tenere in piedi» la coppia o qualcosa del genere. Del resto, nessuna soluzione esterna a noi può magicamente risolvere il nostro bisogno di fare i conti con la fragilità e il limite personale. Richiamiamo a questo punto di che cosa si tratta. Si parla di fecondazione omologa quando il seme e l’ovulo utilizzati nella fecondazione assistita appartengono alla coppia di genitori del nascituro, il quale presenterà, quindi, un patrimonio genetico ereditato da coloro che intendono allevarlo. La fecondazione eterologa si verifica, invece, quando il seme oppure l’ovulo (ovodonazione) provengono da un soggetto esterno alla coppia.
Il magistero della Chiesa ha già chiarito a più riprese come la dignità della procreazione passi attraverso il rispetto della mutua donazione dei coniugi nella sua integrità fisica, affettiva e spirituale. La dignità del nascituro, a sua volta, si salvaguarda nel rispetto di una genitorialità che non divida tra loro gli elementi fisici, psichici e morali che la costituiscono. Allora mi chiedo se ci può essere un «punto d’incontro», che deve necessariamente essere di tipo etico, con la posizione di chi non solo accoglie la fecondazione artificiale omologa, che di per sé già priva la procreazione del gesto specifico dell’unione degli sposi, ma anche quella eterologa. Oltre, intendo dire, i bisogni sacrosanti degli adulti e la fattibilità tecnica (dimensioni che da sole non sono sufficienti a definire pienamente un «diritto»).
Nella fecondazione artificiale eterologa, oltre a relativizzare il valore dell’unità del matrimonio e della dignità dell’unione sponsale, non si lede il diritto del bambino, prima ancora di quello al bambino? E cioè il diritto di ogni figlio di avere due genitori certi sotto il profilo della parentalità genetica e gestazionale nonché sotto il profilo sociale e giuridico, rintracciabili come tali. Che cosa potrà rispondersi quando si chiederà: «Di chi sono figlio?». Mi domando come mai quindi, in tempi di ostentazione del «corporeo», per non dire di tutto quanto è biologico e rispettoso del «naturale», proprio la generazione nella carne possa diventare un pasticcio. Certo il figlio dovrà poi essere «adottato» in famiglia, cioè accolto ed educato con amore. E questo è un passaggio di assunzione di responsabilità, affettiva ma anche educativa, centrale per i genitori (se il figlio è di chi gli vuol bene, allora quando un genitore non gli vuole più bene non è più suo figlio? La responsabilità genitoriale termina lì e può sbarazzarsi di lui?), che va oltre il metodo naturale o meno nel dare al mondo un figlio. Ma con la fecondazione eterologa si scindono a priori sia la filiazione nell’amore sia la filiazione nella sua unità e integrità. Senza dimenticare che è da un imprescindibile rapporto altrettanto «carnale» tra un uomo e una donna, oltre che da un desiderio e da una progettualità condivisa, che nasce quell’incontro di cellule destinato a diventare uomo compiuto.
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