Lettere al direttore
Insieme oltre il lutto. Parliamone
Nel numero di novembre, in seguito al dossier sulle persone vedove, alcuni lettori ci hanno scritto per esprimere il loro punto di vista o donarci la propria esperienza. Lettere piene di dolore, di fatica di vivere ma anche di spiritualità e di speranza che vogliamo condividere con tutti voi. Passo dunque la parola a questi lettori scusandomi del fatto di non poter pubblicare per intero i loro scritti e ringraziandoli per essere riusciti ad andare oltre il loro dolore, oltre l’indifferenza della società, oltre i luoghi comuni sulla morte e sul lutto e a farsi voce di tutti quelli che soffrono per la perdita della persona amata ma cercano comunque la luce.
Francesco trova indovinato il taglio del dossier. Ha 49 anni, è vedovo da otto, è padre di quattro figli dai 28 ai 15 anni. Il suo è un percorso difficile e ciò che più gli pesa è la solitudine: «Una volta le persone vedove avevano un ruolo privilegiato nella società e nella Chiesa. Oggi vengono quasi tacitamente “rimproverate”. La gente ti guarda ed è come ti dicesse “ma perché non ti diverti, invece di piangerti addosso?” In questa società esisti solo se sai divertirti. … Anche dopo aver superato i primi due anni tremendi del lutto iniziale, sento il peso di una personalità (la mia) che è stata menomata dalla vedovanza. E, al massimo, l’unica domanda che riesco a farmi è questa: riuscirò mai a rendere felice una donna, visto che anche con mia moglie sono stato così difettoso?».
La lettera di Angelo è stringata, troppo vicina è la perdita, ma trova comunque la forza di condividere. «Ho molto apprezzato l’articolo, “Vedovi oltre il lutto”. Purtroppo anch’io ho perso la moglie pochi mesi fa, e faccio tanta fatica a uscire dal dolore». Per questo chiede consigli per reagire. È un messaggio chiuso in bottiglia, il suo, un messaggio in cerca di risposta, che appartiene a molte altre lettere.
Più critica la voce di Maria Grazia, che dalla nostra rivista si aspettava una trattazione un po’ più «spirituale» e un po’ meno «umana» della vedovanza: «Sono vedova da quindici anni, da quando di anni ne avevo solo 44; tutte le cose che voi dite mi sono state consigliate dai vari sacerdoti interpellati, ma non mi bastavano. Era come se la morte di mio marito mi avesse tolto la mia identità di sposa… E la mia identità l’ho ritrovata quando, dopo tanto girare, ho avuto la grazia di incontrare il Movimento Speranza e Vita di Sestri Levante… La mia vedovanza è stata allora illuminata dalla certezza che io sono ancora sposa, perché il mio matrimonio, proprio perché sacramento, non è venuto meno, anzi è tuttora operante. Ora io sento viva e vera la comunione dei santi che prima era un concetto: metà della nostra coppia gode già della gloria di Gesù Risorto».
Fiorina Brollo Guanella, membro dell’Associazione il Melograno, fa un excursus storico dei movimenti di spiritualità vedovili e dei diversi convegni organizzati dalla Cei per sottolineare l’apporto che la «famiglia vedova» può dare alla pastorale della famiglia e alla Chiesa in genere: «(Questi incontri) ci hanno aiutate a riflettere sull’identità della vedovanza cristiana, come stato di vita secondo lo Spirito, come chiamata dall’Alto, come dono di Dio». E conclude affermando che in particolare l’esperienza triveneta dei movimenti di spiritualità vedovile «ci ha insegnato che la persona vedova, testimoniando l’amore e la fedeltà coniugale oltre la morte del coniuge, in Cristo sposo, partecipa in modo proprio alla santificazione della famiglia e alla edificazione del Regno di Cristo nel mondo».
Carla parla di quanto sia ancora più difficile affrontare il lutto quando chi gestisce gli ultimi momenti del morente, sia medici che operatori o strutture ospedaliere, non hanno la sensibilità e la preparazione per lasciare ai due coniugi la dignità dell’ultimo istante. La sua è una storia particolarmente dolorosa. A causa di una malattia entra in ospedale nello stesso giorno in cui ricoverano il marito. È ad appena 300 metri da lui, ma nessuno li aiuta a incontrarsi: «Ho trovato un medico poco sensibile, gli ho chiesto di andare da lui, ma mi ha negato il permesso». Dopo vari giorni e vicissitudini, il Vidas, un’associazione di assistenza ai malati terminali, la porta dal marito. «Come sono entrata nella sua stanza mi ha detto: “Finalmente sei qui, aspettavo solo te”». Quelle sono state le sue ultime parole. Ma quell’incontro, troppo breve per racchiudere la ricchezza di una vita insieme, ha il peso di un macigno.
Venerina vuole invece sottolineare che la nostra vita è segnata dal distacco, il quale è insieme perdita e crescita: ogni volta siamo chiamati a cercare la strada. Venerina ha cresciuto da sola suo figlio, ha 53 anni: «Mio figlio è stato il mio respiro, a lui ho dedicato ogni istante della mia esistenza». Ma la necessità del distacco per vivere la propria vita è insita in ogni relazione madre-figlio. Il giorno in cui suo figlio se ne è andato di casa «mi sedetti in poltrona, guardai l’orologio, erano le 6… chiusi gli occhi e avvertii un lacerante senso di vuoto: per chi vivrò adesso? Il cuore mi si fermò in gola, non potevo vivere senza una ragione e fu lì che con dolce fermezza sgorgò la mia risposta: vivrò per Dio. Compresi che l’avevo sempre fatto… ma non era mai stato così chiaro come in quell’istante. Mi ci è voluto del tempo, ma passo dopo passo ho ricostruito me stessa».
Precario non significa bamboccione
«Gentile direttore, non vorrei sembrare una mamma “chioccia”, ma anche se mio figlio ha trent’anni e un lavoro precario non lo considero un bamboccione. Di fatto non ho i mezzi economici per mantenerlo fuori di casa, e lui da solo ancora non ci riesce. Per questo vive sotto il tetto “di famiglia”, almeno per ora. Non credo che darsi una mano sia sbagliato, e se i genitori lo fanno per i figli si spera che e i figli lo facciano quando sarà il loro turno».
Lettera firmata
Maneggiando questo argomento, mesi fa il ministro dell’Ecomonia Padoa Schioppa ha sollevato un vespaio. Il suo errore è stato sicuramente quello di aver liquidato un tema così delicato con una battuta che a molti è suonata come «offensiva» o per lo meno fuori luogo. Da parte mia invito innanzitutto a distinguere gli ambiti, sia per non fare confusione sia per evitare di cadere nella vuota retorica. Quello dell’italiano che rimane con i genitori fino a trenta o anche quarant’anni è un luogo comune piuttosto diffuso, un cliché che ha comunque solide basi statistiche. Di fatto siamo il Paese con il più alto numero di uomini e donne, ormai adulti, che faticano a lasciare il nido. I dati Istat ci informano sul fatto che in Italia i giovani tra i 20 e i 30 anni sono circa otto milioni, e che di questi solo il 30 per cento vive fuori casa.
Una cosa però sono i legami con la famiglia, la volontà di prendersi cura dei propri genitori, il senso delle radici, sicuramente positivi. Altra cosa le difficoltà oggettive – sotto gli occhi di tutti – che incontrano le nuove generazioni: contratti a tempo dalle forme più svariate che inevitabilmente generano un senso diffuso di precarietà e incertezza, stipendi bassi, mancanza di qualsiasi tipo di tutela; e dunque la fatica di rendersi indipendenti, formarsi una famiglia, ottenere un mutuo. A poco servono le agevolazioni fiscali sugli affitti attivate dal ministro.
Se le cose stanno così, il buon senso ci dice che «precari» e «bamboccioni» non vanno messi sullo stesso piano. Anche se a ciò va aggiunta un’ulteriore riflessione. Molti giovani (e molti genitori) pensano che si debba andare via di casa quando si hanno tutte le sicurezze: un appartamento proprio, un lavoro a tempo indeterminato, un’auto luccicante, precise garanzie e abbastanza denaro per mantenere il tenore di vita al quale mamma e papà li hanno abituati. Oggi non è più così. Quel giorno potrebbe arrivare tardi o addirittura non arrivare mai. Proprio per questo le famiglie dovrebbero incoraggiare maggiormente i figli a rendersi autonomi, insegnando loro a vivere con sobrietà e responsabilità (quella che un tempo si chiamava «la testa sulle spalle») già a partire dalle presenti e contingenti dinamiche familiari. Educandoli inoltre a sapersi assumere un imprescindibile margine di rischio, a operare cioè – come d’altra parte è stato normale per tanti genitori e nonni – scelte definitive anche in una situazione d’incertezza. Volere tutto e volerlo subito può rendere la precarietà una «scusa» per evitare situazioni scomode e continuare a cullare l’illusione di poter diventare indipendenti senza grandi sforzi. E dico questo con il dovuto rispetto nei confronti della molteplicità e variabilità di sfumature che la vita riserva ai singoli casi.
40 mila preghiere ai piedi del Santo
«Caro Gesù, per l’intercessione di sant’Antonio ti prego per le seguenti persone a me care: le mie bambine, mio marito, tutta la mia famiglia e gli amici molto speciali». Oppure: «Chiedo un lavoro stabile per Massimiliano». O ancora: «Per mio figlio Dino, perché abbia fede in Dio e torni ad amare la sua famiglia... Per la salute della piccola Elisa». Più di 40 mila abbonati hanno risposto all’iniziativa «I cuori di sant’Antonio. La mia preghiera per la Messa di Natale». Nella Santa Messa del 25 dicembre, alle ore 10, noi frati del «Messaggero di sant’Antonio» abbiamo portato davanti all’altare, in Basilica, i cuori che ci avete spedito da tutta Italia. E abbiamo pregato secondo le vostre intenzioni.
Una giornata per la pace ad Assisi
La Commissione giustizia pace e salvaguardia del creato della Provincia patavina dei frati minori conventuali organizza ad Assisi, giovedì 24 gennaio 2008, una giornata dedicata interamente alla preghiera e al digiuno a favore della pace.
Un incontro francescano semplice che desidera perpetuare il ricordo della giornata di preghiera proposta nel 2002 da papa Giovanni Paolo II.
Per i dettagli del programma visitate il sito: www.provinciapatavina.org oppure scrivete a preghierapace@gmail.com
Il Messaggero per i non vedenti
La vita di padre Placido Cortese, direttore del «Messaggero» e martire sotto il nazifascismo, è ora disponibile come audiolibro in versione mp3, su supporto
cd-rom, al costo di euro 5. Info: e-mail abbonamenti@santantonio.org; numero verde 800 019591 (in orario d’ufficio).
Sabato 16 febbraio alle ore 14.00 il «Messaggero di sant’Antonio», in collaborazione con l’Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti, organizza una visita gratuita alla Basilica del Santo per i non vedenti. Padre Paolo Floretta farà da guida. Chi volesse partecipare si prenoti per tempo telefonando al numero verde sopra riportato.