Lettera del mese
Musi lunghi a messa
Cristiani senza gioia?
La nostra fede nella risurrezione di Cristo non ci fornisce un sorriso stampato in faccia, buono per ogni occasione. Né ci sottrae dall’impegno di abitare tutte le nostre «tristezze», pur senza prenderle a pretesto della nostra pigrizia…
«Gentile direttore, chi le scrive è un pessimo cristiano tutto intento ad approfondire quesiti e questioni non riuscendo, com’è ovvio, a mettere mai il punto alla fine del rigo… Ma dopo questa presentazione vengo al perché di questa lettera generata da una domanda: perché alla consacrazione la gente ha facce serissime, nemmeno fosse un funerale? È un inno di gioia a Dio “Santo, Santo, Santo...” e non un de profundis, o sbaglio? E perché quando la gente si accosta alla comunione (io non lo faccio da qualche anno, un po’ perché i miei peccati sono sempre gli stessi e un po’ perché avverto che Cristo è inarrivabile e quindi il mio pentimento è qualcosa di tristemente inadeguato rispetto a quello che Lui mi chiede), perché, ripeto, la gente si avvicina al sacerdote con la stessa faccia funerea? Dovrebbe essere felice di essere invitata al banchetto eucaristico e di potervi andare totalmente in sintonia, beati loro, col Cristo».
Marco M.
Perché siamo tristi?! E se fosse proprio perché il nostro senso di inadeguatezza, la chiara percezione che abbiamo del nostro limite, della nostra fragilità e della distanza, sempre troppa!, tra i nostri ideali cristiani e la realtà, ci paralizza? In qualche modo ci «toglie l’aria», e noi spiritualmente annaspiamo e boccheggiamo arresi alla nostra mediocrità.
Carissimo Marco, la tristezza è solo un’altra sfumatura dello spettro dei nostri sentimenti e stati d’animo. E non è peggiore di altri. Ci aiuta a renderci consapevoli e allo stesso tempo a esprimere una parte di noi e di quello che ci accade: delusioni, sofferenze, lontananza da persone amate, insuccessi. Tutto questo è assolutamente normale. Pena «buttare a mare» una parte di ciò che siamo, operazione che non ha mai facilitato la vita a nessuno. Ci capita di essere tristi, talvolta, anche solo perché ci capita di essere uomini e donne.
Persino Gesù s’è accostato a persone in qualche modo «tristi» per consolarle: lo fece con le sorelle e sue amiche Marta e Maria, addolorate per la morte del fratello Lazzaro (Gv 11,1-44). Lo farà con i due discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35), tristi perché delusi dalla piega presa dagli eventi. Se perciò la tristezza ci appartiene costitutivamente, come la gioia, e se davanti a Dio vogliamo comunque andarci nella verità di noi stessi, talvolta non potremo esimerci di andarvici «col volto triste».
I nostri due discepoli affranti, però, strada facendo scopriranno che, senza smettere neanche un istante di essere uomini in carne e ossa, potranno diventare al contempo «compagni di strada del Risorto»! La nostra fede nella risurrezione di Cristo e la speranza nella nostra con Lui, non ci forniscono un sorriso stampato in faccia buono per ogni occasione. Né ci sottraggono dall’impegno di abitare anche noi tutte le nostre «tristezze», pur senza prenderle poi a pretesto della nostra pigrizia, o pezze giustificative del nostro poco impegno…
Non si tratta di essere ipocriti, ma di credere che la differenza per il cristiano la fa il sentirsi, sempre e comunque, nelle mani di Dio e da Lui amati immensamente: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (Rm 8,31). Ecco, questa è la gioia, vera e profonda, che attraversa paradossalmente anche la tristezza, e che dovrebbe sempre accompagnarci. Questa è la gioia che san Francesco comanda ai suoi frati, e che perciò, come pensiamo, anche sant’Antonio avrà cercato di vivere: «E si guardino i frati dal mostrarsi tristi all’esterno e rannuvolati come gli ipocriti, ma si mostrino gioiosi nel Signore e lieti e cortesi come si conviene». Gioiosi, sì, ma non per atteggiamento preso. Quanto per fede.
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