Lettere al direttore

25 Febbraio 2009 | di

 

LETTERA DEL MESE
 
 
Confessione, sacramento fuori moda?
 
Le persone che si confessano vanno diminuendo, e non pochi tra coloro che praticano questo sacramento fanno fatica a parlare dei propri peccati a un sacerdote.
 
«Caro padre, trovo sempre maggiore difficoltà ad accostarmi al sacramento della penitenza. Si incontrano preti o troppo sbrigativi o troppo indagatori, per cui mi è difficile sentirmi in libertà davanti al Signore a parlare delle mie cose. Siccome da ragazza ho avuto un padre spirituale, e ricordo con nostalgia le belle chiacchierate che facevamo (poi alla fine c’era l’assoluzione!), da quando è venuto a mancare ho intrapreso un vero e proprio pellegrinaggio da una chiesa all’altra. Con scarsi risultati».
Lettera firmata
 
Il sacramento della penitenza non gode oggi di buona salute, nel senso che è sempre meno praticato. Purtroppo sono riuscito a trovare solo percentuali datate, risalenti a una decina di anni or sono e riferite alla sola Italia: si tratta di una ricerca sociologica curata dall’Università Cattolica. Le riporto comunque, nella consapevolezza che nel frattempo non ci sono stati miglioramenti, semmai uno scivolare silenzioso nella stessa china. Il 30 per cento dei cattolici intervistati non ritiene necessaria la presenza dei preti nei confessionali; il 10 per cento vede, anzi, proprio nei preti un impedimento a un rapporto diretto e libero con il Signore; il 20 per cento, poi, ha un certo imbarazzo a parlare dei propri peccati con un’altra persona; non mancano infine lamentele sulla poca delicatezza e accoglienza dei preti stessi. Sembra dunque che allo sconto di maniche larghe che molti fanno a se stessi, per cui la riconciliazione sacramentale è del tutto accantonata, si aggiunga una larga fascia che vive una certa insoddisfazione legata alla figura del sacerdote confessore, di volta in volta ritenuta inadatta, condizionante, comunque non invitante.
Il suo caso, di per sé, ha un profilo tutto particolare, visto che ha potuto fruire di un’esperienza prolungata di direzione spirituale che è praticamente coincisa con la possibilità di accostarsi serenamente al sacramento della riconciliazione. A onor del vero, bisogna anche saper distinguere tra i diversi livelli: una cosa è la direzione spirituale, che molto spesso, anche se non necessariamente, incorpora il momento sacramentale della confessione dei peccati e dell’assoluzione; altra cosa è il counseling, vale a dire la consulenza di tipo psicologico-pastorale, svolta da persone competenti nell’ascolto profondo e nell’offrire indicazioni e orientamenti di vita, a livello sia umano che spirituale; altra cosa ancora è quello che il Catechismo della Chiesa cattolica (nn. 1423-1424) chiama con nomi diversi per sottolinearne i diversi aspetti: sacramento della conversione, perché realizza sacramentalmente l’appello di Gesù a cambiare vita; sacramento della penitenza, per il fatto che porta a compimento un cammino di pentimento; sacramento della confessione, dal momento che il fatto dell’accusa dei propri peccati davanti al sacerdote è elemento essenziale del sacramento; sacramento del perdono, poiché l’assoluzione del ministro sacro effonde sul penitente il perdono e la pace di Dio; sacramento della riconciliazione, che apre cioè all’accoglienza della riconciliazione di Dio e dispone alla riconciliazione con i fratelli.
Questo elenco delle varie definizioni per dire il medesimo sacramento può essere utile per capire come, nel suo caso ma anche per molti fedeli, è generalmente uno degli aspetti che costituiscono il sacramento a fare problema: detto con tutta chiarezza, a imbarazzare è in particolare la mediazione del sacerdote. Se però questo è il punto dolente, si tratta anche del punto decisivo, che caratterizza in modo forte la visione cattolica della mediazione sacramentale. Il sacerdote, spesso non per sviluppate doti umane e certamente non per una grazia che gestisce in proprio, ha il grande e impareggiabile compito di trasmettere la stessa accoglienza nel perdono che Gesù ha esercitato nella sua vita terrena. La sfida è enorme, e la gran parte dei sacerdoti – mi creda – la assume con assoluta dedizione.

LETTERE AL DIRETTORE

Genitori, figli

«Sono la mamma di Giulia, che quest’anno compirà 18 anni. Giorni fa, all’uscita dalla scuola, ho partecipato a una discussione con alcuni genitori. Una mamma affermava che, per il diciottesimo compleanno della figlia, “visto che ormai le ragazze di oggi hanno tutto”, le avrebbe regalato un “seno nuovo”. Quando io ho detto che per Giulia avrei preferito una vacanza studio all’estero, mi è stato risposto che “bisogna stare al passo con i tempi per poter capire i figli”. Beh, devo dirle che sono ancora esterrefatta…».
Lettera firmata
 
Può sembrare strano che un sacerdote tratti un argomento come questo. È anche vero, però, che alcuni genitori − mamme soprattutto − hanno a cuore il problema che riguarda al contempo medicina, salute, educazione e, perché no, anche i valori dello spirito. Non si tratta perciò di fare la morale, ma di distinguere gli ambiti trovando per ognuno di essi adeguata risposta, o anche solo un plausibile suggerimento.
Sulla questione della chirurgia estetica è intervenuto opportunamento lo Stato, per porre dei paletti ritenuti necessari. Come quello di vietare la mastoplastica additiva per le ragazze al di sotto dei 18 anni, voluto dal sottosegretario alla Salute Francesca Martini. Ogni anno nel nostro Paese sono 180 mila gli italiani che ricorrono alla chirurgia plastica, e non sempre per esigenze mediche. Sono almeno 25 mila le donne, tra i 16 e i 45 anni, che vanno in sala operatoria per un seno nuovo e più grande, motivate, a loro avviso, dal fatto che, oltre alla taglia, cresce l’autostima.
Le ragioni addotte dal sottosegretario Martini, che non si è dichiarata contraria alla chirurgia estetica, sono molto chiare: «Le pazienti devono sapere che si tratta di interventi che presentano rischi e controindicazioni. La protesi applicata su una ghiandola mammaria non ancora formata potrebbe comprometterne lo sviluppo perché interagisce, comunque, con le modificazioni di un corpo che sta crescendo». Le protesi rimangono dei corpi estranei, sostiene Carlo D’Aniello, presidente della Società italiana di chirurgia plastica ricostruttiva ed estetica, che aggiunge: «A 18 anni non sempre si ha la maturità per sapere se davvero sia opportuna una mastoplastica».
In definitiva, quindi, un genitore è libero di regalare al proprio figlio o alla propria figlia ciò che vuole, così com’è altrettanto libero di tracciare il percorso di crescita che preferirebbe per lui. Non mi permetto di giudicare. Mi chiedo, però, se tanti genitori siano consapevoli del fatto che assecondare sempre e comunque le richieste dei propri figli non è indice di apertura, ma di immaturità, di poca autorevolezza e, in fondo, di scarso amore nei loro confronti. Spesso è più facile dire sempre «sì», piuttosto che affrontare insieme la questione, qualunque essa sia.
Quante sono le ragazzine che non si piacciono e vorrebbero sentirsi più belle, magari con un seno rifatto o con un corpo la cui magrezza è portata all’eccesso? Come genitori o educatori possiamo aiutarle a non aver paura di guardarsi allo specchio, e di vedersi per ciò che realmente sono: adolescenti sane, nel pieno dello sviluppo, che muovono i primi passi in autonomia. Sosteniamole affinché non facciano del proprio corpo il centro di ogni interesse. Piuttosto, spingiamole a curarlo con equilibrio e vero amore per se stesse, magari praticando uno sport. Insomma, aiutiamole a scegliere e a non seguire sempre l’onda delle mode. Doniamo loro «altro»; qualcosa, cioè, che non dovrà mai essere sostituito, un valore aggiunto che non sia un «corpo estraneo». Se incentiviamo la manutenzione dello spirito, e dell’intelletto, anche il corpo ne trarrà vantaggio.
 
Il buco degli affitti in nero
 
«Mia figlia, dopo un primo periodo da pendolare, ha deciso di andare a vivere nella città dove frequenta l’università. Al di là del costo non certo basso, c’è un altro fatto che mi ha stupito in negativo: tutte le stanze e gli appartamenti che le sono stati proposti erano pagabili solo in nero. O così o niente. Possibile?».
Un papà
 
Le città universitarie ben conoscono – purtroppo – la realtà dipinta dal sorpreso genitore. Dati precisi non ne esistono, perché il fenomeno è sommerso, per quanto di dominio pubblico. Sono le Fiamme Gialle le uniche che hanno provato a tracciare un quadro, parziale ma comunque indicativo, nel tentativo di contrastare la prassi degli affitti in nero. Prendiamo ad esempio Roma: nel solo 2008, 258 controlli hanno permesso di individuare 7 milioni di euro evasi al fisco e di denunciare 58 proprietari di immobili. Per quante centinaia di unità bisogna moltiplicare questi dati?
Al di là dei numeri, la pratica dell’affitto in nero è decisamente da condannare. Non è giustificabile come cristiani, ma nemmeno come cittadini: l’onestà è un valore non accessorio, che interviene non solo per la registrazione del contratto, ma pure per la cifra che viene chiesta, troppo spesso sproporzionata. Questione di trasparenza, di legalità, di morale quindi. Ma non solo. C’è un ulteriore punto di vista che merita di essere conosciuto. Perché affittare in nero… non conviene. Infatti, basta fare due conti per far cadere il pregiudizio principale che induce molti padroni di casa a non registrare il contratto di locazione. «Costa meno e noi ci guadagniamo di più» si difendono. Non è sempre così. Non, per esempio, se si stipula un contratto a canone concordato, o addirittura lo specifico canone per studenti fuori sede, che prevede significative agevolazioni e sgravi fiscali per entrambi i firmatari. Purtroppo però queste opportunità sono poco conosciute, anche se qualcosa si muove. Ne sono un esempio la Guardia di Finanza, il Comune e l’Università di Bologna, che si sono attivati per diffondere alcune buone prassi, con campagne mirate e documenti divulgativi scaricabili dal sito dell’ateneo. Ciò detto, il problema resta socialmente grave, e meriterebbe diversa attenzione anche da parte della politica.
 
Tra Ramadan diete dimagranti e Quaresima
 
«Sono colpita dal fatto che quando inizia il Ramadan se ne parli su tutti i giornali, ma anche in televisione, offrendo informazioni circostanziate su cos’è e cosa comporta, per i fedeli musulmani, questo tempo particolare. Quando, invece, arriva la Quaresima, l’attenzione dei media è scarsa se non proprio nulla. Eppure il digiuno cristiano non è da meno di quello musulmano. Che ci sia qualcosa da riscoprire da parte nostra, per far capire come alcuni segni – e il digiuno è uno di questi – sono importanti, se non irrinunciabili, per un’autentica vita di fede?».
Lettera firmata
 
Da qualche giorno siamo entrati nel tempo santo della Quaresima, e quella disattenzione dei media che lei notifica è stata puntualmente confermata. Fa notizia ciò che è strano, esotico, che dovrebbe – almeno in teoria – allargare le nostre conoscenze sul mondo degli altri, in questo caso degli altro-credenti. Con il rischio, però, di conoscere tutto o quasi sul vissuto dei nostri fratelli musulmani, senza avere più memoria di ciò che fa parte della nostra personale tradizione di fede. Ma la «concorrenza» non è solo sul piano religioso, basti pensare al fatto che il digiuno oggi fa sempre più tendenza e viene vissuto come ritualità laica di benessere psicofisico e spirituale. Un recente libro che mette a confronto le diverse concezioni religiose del digiuno, inizia con queste frasi: «Negli Stati Uniti Madonna, Demi Moore, Clint Eastwood o Bruce Willis fanno a gara per spiegare alla stampa popolare il gran bene che hanno tratto da una dieta a base di brodini e acqua… Rotocalchi e riviste dedicate alla salute declinano il digiuno in tutte le forme: digiuno che ringiovanisce, che permette di mantenere la linea, che aiuta a combattere lo stress». In un clima di pluralismo di indirizzi e di intenzionalità, sia di carattere religioso che laico, anche i cristiani farebbero bene ad approfondire, nello specifico, il senso evangelico del digiuno. Ogni anno il Papa dedica un Messaggio per introdurre i fedeli al tempo della Quaresima: nell’ultimo parla diffusamente di questa pratica e la motiva con argomenti robusti. Perché non approfittarne?
 
 
L’altro editoriale
Ancora una parola, sottovoce, per Eluana
di padre Ugo Sartorio
 
Molti lettori ci hanno sollecitato a intervenire sulla vicenda Englaro. Da parte nostra, siamo convinti che il dopo Eluana può essere un tempo fecondo di riflessione per credenti e non.
 
Ha tenuto la scena televisiva e le prime pagine dei giornali per mesi, poi se n’è andata, circondata da acuti mediatici e da contorsionismi politici, ma anche da un fiume in piena di preghiere, da una partecipazione calda di gente qualunque che, senza giudicare, ha seguito in silenzio, rispettosamente, anche in mezzo a perplessità e dubbi, questo calvario. Diciassette anni di muta presenza, un padre straziato dal dolore e alla ricerca disperata di una via d’uscita, una storia fatta prima di vitalità che si abbeverava alla pienezza della vita e poi, d’un tratto, da un lungo tragitto senza sbocco apparente, opaco per alcuni e scia di luce per altri. Le suore che hanno accudito Eluana per anni, levigando di carezze la sua pelle, hanno custodito il lucignolo prezioso di una giovane che si è fatta donna ricevendo tutto e dando moltissimo: di questo danno testimonianza. Accudire la vita è infatti un privilegio, un atto d’amore, l’unico atto d’amore che riscatta la nostra umanità dai bassifondi dell’insignificanza, dell’autodistruzione, della violenza che infliggiamo a noi stessi e agli altri. Anche se quando si soggiorna a lungo nella «stanza del dolore» le cose possono non essere così chiare, e i contorni della verità e delle convinzioni sono più incerti, per cui puntare il dito e sentenziare può apparire prevaricazione.
 
Detto questo, l’ascolto per chi – forse perché troppo spaventato da quella tragicità che la vita può riservare a tutti – fa fatica a reggere e taglia corto dicendo che Eluana era già morta dopo quello schianto in macchina in una notte d’inverno del 1992, oppure la comprensione per chi non riesce più a capire la sensatezza di una vicenda umana sigillata dentro un corpo che non risponde, non deve togliere nulla alla chiarezza della visione cristiana della vita. Non si tratta di voler imporre ad altri qualcosa che essi considerano solo come peso e costrizione, ma di operare energicamente da cittadini e credenti affinché il «“favore della vita” sia praticato come la scelta più ragionevole non solo per i cristiani, ma per tutti». Sono parole del Patriarca di Venezia Angelo Scola pronunciate dopo la morte di Eluana e che tracciano i confini dell’identità cattolica senza interrompere il flusso del dialogo tra Chiesa e mondo cosiddetto laico. Il bene comune va cercato insieme, ognuno declinando la sua identità sostenuta e nutrita dalla propria storia.
 
Nella festa di san Francesco di Sales patrono dei giornalisti, il 24 gennaio scorso, avevo già apprezzato la grande delicatezza e la decisione con cui il Cardinale Scola – incalzato da una domanda di Lucia Annunziata, sua intervistatrice in quell’occasione – si era espresso sull’argomento: «Solo una volta ho parlato, qualche anno fa, a lungo con il padre di Eluana. Quand’ero rettore all’Università Lateranense, mi aveva voluto presentare la sua posizione. Ho grande rispetto per la sua coscienza, ma la vicenda di Eluana non riguarda più solo lei, perché ha assunto una dimensione pubblica circa uno dei beni fondamentali della vita comune. Questo bene fondamentale è che cosa sia la vita, cosa sia il diritto alla vita e quando si giunga alla fine della vita. Dentro una democrazia sostanziale di valore, che dà al riconoscimento il peso fondamentale in vista di una vita buona, abbiamo in comune il dovere di narrare la nostra visione della vita. Altrimenti io toglierei qualcosa al bene della società. Io sostengo che l’alimentazione e l’idratazione siano risposte normali a esigenze vitali, e dico che dovrebbe per lo meno valere il principio della precauzione. Se c’è anche solo la presunzione che l’alimentazione e l’idratazione siano questo – e sono convinto ci sia più che la presunzione – ho il dovere – e chi governa ce l’ha – di garantire questo dato fino all’ultimo».
Il dopo Eluana è anche un tempo mesto di riflessione che, sganciandosi dalle polemiche contingenti, deve mirare a prendersi a cuore il significato della vita e della morte attraverso un dibattito aperto e partecipato. Oltre i furori delle ideologie, le rigidità di una certa fede trasformata in randello, i fumogeni delle politiche di parte, con umiltà e rispetto, come merita la vita.
Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017