Lettere al direttore
LETTERA DEL MESE
Svuotato il Limbo ora tocca al Purgatorio?
Qual è la sorte dei bambini morti prima di ricevere il battesimo? Esiste il Limbo? Non sono domande d’altri tempi, e le risposte vanno fondate nella dottrina della Chiesa.
«Sono una mamma che ha da poco partorito, non senza problemi, un bel bambino. Nel corso del parto sono sopravvenute delle complicazioni che hanno messo a rischio la vita del mio Andrea. Poi, ringraziando il cielo, tutto è andato per il meglio. Tra un paio di mesi celebreremo il battesimo in parrocchia, ma mi sono chiesta più volte: e se il mio piccolo fosse morto senza battesimo? È vero che solo da poco il Papa ha abolito il Limbo? Soprattutto mi preoccupa il fatto che la Chiesa possa ritenere o abbia potuto ritenere peccatori dei bambini innocentissimi. Chi più di un bimbo appena nato può essere candido e innocente, e quindi in caso di morte (anche prima del battesimo) candidato al paradiso?».
Carla (Napoli)
Le rispondo volentieri, anche perché colgo che la sua difficoltà nasce da un cuore buono, dal cuore di una mamma che si è trovata in una particolare difficoltà durante il parto e si è preoccupata sia per la «salute» che per la «salvezza» di suo figlio. Quanto lei dice, con molto buon senso, circa la sorte dei bambini non battezzati, va però inserito in una cornice di riflessione più ampia, per non incorrere in giudizi dettati più dall’emozione che dal ragionamento sui dati che la dottrina cristiana ci offre con chiarezza.
Comincerei con il liberare il campo da espressioni banali e prese di posizione profondamente inesatte che sono state registrate proprio in occasione della pubblicazione – nel gennaio 2007 – del testo della Commissione teologica internazionale intitolato appunto La speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza battesimo. Con grande superficialità molti giornali hanno titolato: il Papa ha abolito il Limbo, la Chiesa ha finalmente liquidato lo stato intermedio tra Purgatorio e Inferno. Qualche studioso è andato oltre, in tutti i sensi, ipotizzando entro breve la messa in liquidazione anche del Purgatorio: si tratta dello storico medievalista Jacques Le Goff, il quale non ha fatto altro che ribadire la sua tesi – tanto fragile quanto unilaterale – sull’invenzione del Purgatorio da parte della Chiesa e per lo più in epoca tarda, cioè nel Medioevo. Messo in chiaro che non c’è nessun conto alla rovescia per la «chiusura» del Purgatorio, bisogna subito aggiungere che non è in potere della Chiesa determinare e tanto meno cambiare le cose così come stanno nell’aldilà. Il riferimento della Chiesa è sempre la rivelazione cristiana, mai manipolabile a piacimento ma accolta nella sua integralità. In essa, però, non si trova alcun fondamento esplicito a supporto della teoria del Limbo, e se i Padri greci ne parlano, l’unico Padre latino che ce ne offre un’ampia trattazione è sant’Agostino. Questi, contrastando il monaco inglese Pelagio, il quale sosteneva la non necessità per i bambini del battesimo al fine di raggiungere la salvezza, riteneva che detti bambini intaccati dal peccato originale fossero destinati all’inferno, anche se poi lì puniti con una «pena mitissima». Fu proprio per allontanarsi dal rigore di matrice agostiniana che nel Medioevo la teologia elaborò la teoria del Limbo, luogo di felicità solo naturale perché si è privati della visione di Dio (san Tommaso spiega però che, in detta condizione, i bambini non possono soffrire, dal momento che la visione beatifica è conosciuta solo per fede ed essi quindi ne ignorano l’esistenza). Ad ogni modo la teoria del Limbo non entra in alcuna definizione dogmatica della Chiesa, ed è rimasta per secoli una semplice opinione teologica. Si sa, ad esempio, che papa Ratzinger già da cardinale si era espresso con chiarezza: «Il Limbo non è mai stato una verità definita di fede. Personalmente lascerei cadere quella che è sempre stata soltanto un’ipotesi teologica». Il documento sopra citato chiude la questione affermando che ci sono «serie basi teologiche e liturgiche per sperare che i bambini morti senza battesimo siano salvi e godano della visione beatifica». La sua intuizione materna, quindi, è in linea con il linguaggio prudente e fondato della Chiesa.
LETTERE AL DIRETTORE
A 15 anni in vacanza da solo?
«Mio figlio Luca ha 15 anni e per la prima volta quest’anno mi ha chiesto di andare in vacanza insieme con la sua compagnia, nella quale, tra l’altro, c’è una ragazza che gli piace. Mi sono sempre reputata una mamma aperta e non possessiva, eppure, di fronte alla richiesta, d’istinto avrei risposto con un “no” secco. Ho provato, invece, ad analizzarmi: di sicuro c’è in me un certo disorientamento per quello che percepisco come un distacco, ma ciò che mi preoccupa veramente è l’immaturità di Luca e, per la verità, anche quella dei suoi amici. Lo vedo troppo dipendente dal gruppo. Ne ho parlato con mio marito: anche lui condivide le mie preoccupazioni, però dice che prima o poi bisognerà pur “fargli spiccare il volo”. Abbiamo cercato in questi anni di educarlo a sani valori, di dargli delle priorità, di allenare la sua capacità di scelta, ma alla fine un genitore non sa mai se ci è riuscito davvero. Oscilliamo – come tutti, credo – tra la paura di tarpare le ali a nostro figlio e quella di lasciare che bruci le tappe. Che cosa ci consiglia?».
Lettera firmata
Difficile consigliare, troppe le variabili in gioco; alcune le ha citate lei: la giovane età, il livello di maturità, l’affidabilità della compagnia, il tipo di educazione. Però mi sentirei di condividere la sua prudenza, perché Luca in effetti è ancora molto giovane; la sua dipendenza dal gruppo potrebbe esporlo a rischi senza che gli anticorpi dell’educazione ricevuta siano in grado di reagire. Una gradualità delle tappe di crescita – difficile per un genitore, soprattutto oggi, quando ogni cosa si consuma in fretta e dire di no è quasi un tabù – è una carta di credito per il futuro. L’attesa è frustrante, ma spinge alla conquista dei propri spazi di libertà; «bruciare le tappe» può tarpare le ali al desiderio, e chi non impara a desiderare non può essere né libero né felice, perché è già satollo di tutto e appesantito da esperienze più grandi delle sue spalle.
A un certo punto però – e qui ha ragione suo marito – anche per Luca verrà il momento di spiccare il volo, e si tratterà di un momento delicatissimo, certamente non immune da un margine di rischio. A voi decidere, con scrupolo e con serenità, dando fiducia ma anche richiedendo atteggiamenti responsabili.
Che difficile viaggiare in carrozzina
«Mia moglie da qualche anno è costretta in sedia a rotelle e passa in casa un’infinità di tempo. Quest’estate, per la prima volta dopo l’incidente, vorrei convincerla ad affrontare un viaggio. Non ha idea di quanta fatica sto facendo nel reperire informazioni: sulla carta gli alberghi che interpello risultano “accessibili”, ma quando approfondisco un po’ salta sempre fuori qualche pecca. Scusandomi per lo sfogo, le porgo cordiali saluti».
Lettera firmata
Inutile far finta di niente: il problema dell’accessibilità, che lei solleva, esiste eccome. E non solo a livello turistico. È anche vero, però, che le proposte di viaggio per persone con disabilità stanno cominciando a diffondersi. I motivi sono più economici che culturali: infatti, si è calcolato che i turisti disabili in Europa sono un bacino potenziale di 35 milioni di persone. Ecco qualche esempio positivo: alcuni tour operator propongono appositi pacchetti di viaggio; molte città d’arte hanno realizzato guide turistiche dedicate all’accessibilità; nei nostri litorali si possono trovare spiagge completamente attrezzate, e sono nate addirittura agenzie di viaggio specializzate. Internet, poi, nel settore mette a disposizione informazioni provenienti da turisti che hanno testato con mano l’accessibilità di varie località vacanziere, anche se resta imprescindibile la verifica diretta perché, al di là di alcuni criteri generali, spesso le esigenze sono personali, a seconda del tipo di disabilità. Anche in una società maggiormente impegnata sul versante dell’accoglienza, sarà difficile prescindere dalla telefonata preventiva: meglio una (s)conferma prima che una brutta sorpresa dopo. In conclusione, riprendo un aspetto che emerge dalla lettera: per quante incognite, disagi o fastidi possano esserci nell’«uscire di casa», il decidersi a farlo resta un passaggio delicato ma indispensabile per la qualità di vita di una persona con disabilità. Le barriere architettoniche possono fare paura, ma mai quanto quelle che abbiamo nella nostra mente, e che troppo spesso ci bloccano impedendoci, a conti fatti, di vivere.
Nelle pieghe del precariato
«Caro padre, sono un’abbonata di 45 anni. Vorrei parlarle del mio fratello minore, trentaduenne. Dopo la laurea è passato da un lavoro all’altro, sempre qualificato ma con contratti atipici. Ciò nonostante era riuscito a pagarsi un affitto e a fare qualche piano per il futuro con la sua fidanzata. Però, cinque mesi fa, il suo ultimo contratto a progetto è stato dimezzato come impegno orario e come retribuzione. Così le prospettive sono svanite ed è venuto a vivere da me, squattrinato e sfiduciato. Ho quasi l’impressione che la sua situazione sia parte integrante del sistema economico attuale».
Lettera firmata
I precari in Italia sono quasi tre milioni, sommando prestatori d’opera occasionali, contratti a progetto e dipendenti a tempo determinato. Il profilo è quello che emerge dalla lettera: meno di 40 anni, diploma o laurea in tasca, non sposato. Pazienza se si vive questa realtà al primo impiego, ma anche la pazienza ha un limite nel momento in cui si varcano senza prospettive i 30 anni, quando si punterebbe a stabilizzare gli affetti o anche solo a emanciparsi da casa. Quale contributo può offrire, a queste legittime aspirazioni, un impiego che non dà punti di riferimento e che da un momento all’altro, senza preavvisi o giuste cause, può svanire? La crisi, poi, non aiuta: se negli ultimi anni i posti di lavoro flessibili hanno dato un contributo decisivo alla riduzione della disoccupazione, ora però sono i primi a saltare. Con scarsi ammortizzatori sociali, a differenza del resto d’Europa.
La flessibilità lavorativa può anche sollecitare aspetti positivi: apertura al nuovo, disponibilità alla ricerca, forme di autoimprenditorialità. Ma prevalgono gli effetti problematici come spaesamento, senso di solitudine e d’anonimato, sradicamento, sfiducia. In definitiva, non è sicurezza dinamica ma incertezza stabile. Come se ne esce? Nessuno ha la ricetta in tasca, e chi dovrebbe non offre risposte sufficienti. Ora sembra però che gli economisti vedano all’orizzonte bagliori di ottimismo. Speriamo che oltre il tunnel qualcosa cambi.
Estate: e il bambino dove lo metto?
«Un’altra estate è alle porte e la mia ansia, come ogni anno in questo periodo, aumenta. A metà giugno chiudono le scuole e, al pari di quasi tutte le madri che conosco, sarò costretta a intraprendere uno slalom forzato tra centri estivi (pochi e costosissimi), baby-sitter (vedi sopra), corsi-di-qualsiasi-tipo (idem) che tengano impegnati i miei tre figli di 11, 9 e 6 anni mentre io sono al lavoro. So bene che la scuola non è un parcheggio per i bambini, ma è anche vero che da più parti si spingono le donne a fare figli senza però sostenere le madri che lavorano fuori casa con misure adeguate. Oltre ai doveri della politica, penso che non farebbe male in questo campo una seria presa di posizione anche della Chiesa».
Lettera firmata
In redazione riceviamo molte lettere sui temi correlati alla maternità. A mio parere questo rappresenta un chiaro segnale: le donne, soprattutto quelle con figli ancora piccoli e un lavoro fuori casa, chiedono di essere ascoltate. Perché spesso portano gran parte del peso della gestione familiare e perché, in 20 casi su 100 − dati Istat − con la nascita del primo figlio vengono licenziate o sono costrette a lasciare il lavoro. Condivido, quindi, le sue attese nei confronti di una Chiesa che deve essere attenta alle esigenze delle donne e delle famiglie in genere: se davvero pensiamo che la famiglia sia la cellula fondamentale della società, dobbiamo tutelarla, con le parole ma anche con azioni concrete. Una delle iniziative che ogni anno la Chiesa promuove per animare creativamente i tempi «morti» delle vacanze estive è, solo per fare un esempio, quella dei cosiddetti Grest (Gruppi estivi): un paio di settimane organizzate da una o più parrocchie, nel corso delle quali i bambini – sotto la guida di animatori formati e motivati – si divertono e al contempo ricevono stimoli per crescere nella fede (non affronto qui la questione di una sempre maggiore presenza di bambini immigrati di altre religioni). Lei potrà obiettare che due settimane non risolvono i problemi di un’estate… È vero, ma è altrettanto vero che se ogni attore sociale facesse la sua parte, in modo disinteressato e mettendo al centro solo il bene delle famiglie, buona dose delle ansie estive verrebbe placata. In questa difficile congiuntura economica, ad esempio, si potrebbe mettere in discussione la consueta chiusura estiva delle scuole per almeno due mesi consecutivi. So che in alcuni istituti paritari questo già avviene: si propongono nel mese di luglio percorsi formativi per gli allievi, guidati dagli stessi insegnanti.
Sarebbe una strada percorribile per tutti, che garantirebbe costi contenuti per la collettività, continuità per i bambini e una maggiore serenità per le famiglie.
Preghiera autentica e gradita a Dio
«Considero il “Messaggero di sant’Antonio” una rivista che aiuta a crescere nel cammino di fede. Molti articoli hanno un messaggio spirituale che apprezzo molto, ma ho trovato interessanti soprattutto gli interventi di padre Ermes Ronchi sulla preghiera: hanno cambiato il mio modo di pregare e mi hanno insegnato e mi insegnano ogni volta di più la vera Preghiera gradita a Dio».
Una lettrice riconoscente
Quando ho chiesto a padre Ermes Ronchi di curare per noi la rubrica che lei tanto apprezza, ho fatto più o meno la sua stessa considerazione. Avevo letto alcuni libri di questo religioso Servo di Maria, restando affascinato da una prospettiva perseguita con caparbia coerenza, pagina dopo pagina: «La preghiera è una relazione. Il Vangelo non si riassume in una verità, bensì in una relazione». Se si parte da qui tutto viene a ruota, perché non è più possibile limitarsi a enunciare tecniche più o meno sofisticate di preghiera, e nemmeno lasciarsi imprigionare in formule ritenute di per sé efficaci. Se tutto, nella preghiera, va riletto in termini di relazione, il collegamento con i tempi, i luoghi e i volti della vita dev’essere evidente. La preghiera, cioè, investe tutte le dimensioni dell’esistenza per il semplice fatto che queste, anche singolarmente prese, sono terreno fertile, materiale, occasione, sprone di preghiera: il bene come il male, il dramma come la gioia. Mi rendo conto che per chi è più avanti negli anni ed è stato abituato soltanto a «dire preghiere», il passaggio a un nuovo modo di pregare può non essere indolore. Non si tratta, però, di abbandonare un mondo anche affettivo collegato a preghiere che abbiamo tanto amato e a lungo ripetuto, quanto piuttosto di riempire di nuovo slancio, fervore, intensità comunicativa – relazionale appunto – le preghiere di sempre. Alcuni lettori mi hanno confidato che, come nel suo caso, questo passaggio è stato facilitato dalla lettura della rubrica «Note di preghiera». La scansione mensile degli interventi, tra l’altro, aiuta a non ingolfarsi di contenuti, ma a farsi accompagnare passo dopo passo. Di fatto, le vere trasformazioni sono sempre lente. Grazie padre Ermes.