Lettere al direttore

Gesù non ci ha salvato perché è stato un recordman della sofferenza. Anche se ha molto sofferto per restare fedele all’amore verso il Padre e gli uomini.
29 Giugno 2009 | di


Non la sofferenza ma solo l’amore salva

«Ho letto, nel numero di maggio, il suo intervento a conclusione del reportage sul terremoto d’Abruzzo. I passaggi sono chiari, ma da un sacerdote mi aspettavo anche una riflessione sul fatto che la sofferenza conduce alla salvezza… La sofferenza, infatti, ci rende graditi a Dio, ed è un bene prezioso da offrire per la conversione del mondo. Non è così?».

Lettera firmata


Il tema della sofferenza è inesauribile, soggetto a continui rilanci, anche perché l’esperienza di ognuno in questo campo è unica. Nell’intervento che lei cita, spiegavo in breve che non esiste «il» senso del male o del dolore che ci schiaccia, ci opprime e ci violenta, ma che è invece possibile – anche se non sempre o da parte di tutti – intuire «un» senso per eventi anche drammatici. Aggiungevo poi che la fede cristiana è di grande aiuto in questo percorso, che comunque rimane arduo.
La sua domanda, però, mette a fuoco un’altra questione, che riguarda il significato salvifico del dolore. Vale a dire, la sofferenza del cristia­no (una malattia invalidante, un abbandono, un torto subìto, ecc.) hanno un qualche va­lore positivo in ordine alla salvezza? Se leggiamo i vangeli, l’unica sofferenza con valenza salvifica è quella derivante dalle perse­cuzioni contro la fede. Soffrire senza rinnegare la propria fede in Dio è l’atteggiamento credente per eccellenza, che all’estremo può condurre al martirio, ma anche in questo caso non è la sofferenza ad essere gradita a Dio quanto piuttosto la fiducia incrollabile in lui esercitata pur dentro un contesto di durissima prova. Il cristiano accetta di perdere la vita quando non c’è altro modo per non perdere il suo legame con Dio, giudicato come realtà che fonda l’identità personale più genuina e profonda. E lo sguardo, a questo punto, non può che posarsi su Gesù, che la tradizione cri­stiana considera come modello di ogni mar­tirio. Anche qui va chiarito il fatto che Dio non approva e tantomeno apprezza la croce alla quale il Figlio è appeso dagli uomini. Gradito a Dio è piuttosto l’amore che porta Gesù ad accettare la croce: questa viene abbracciata (non scelta ma accolta) nel momento in cui intraprendere un’altra strada significherebbe tradire la missione affidatagli dal Padre, quella cioè di manifestare in pienezza agli uomini il suo volto di misericordia. È qui la grande svolta del vangelo: non gli uomini – come è nell’immaginario religioso di molti – devono sacrificarsi per rendere onore a Dio, ma Dio si lascia inchiodare alla croce perché gli uomini abbiano la vita e vedano finalmente il volto di un «Dio diverso», non vendicativo, «umile». Nella prospettiva cristiana, ben riassunta dall’immagine dolente ma assolutamente liberante e originale della croce, l’amore non si impone bensì si propone, si offre e perciò soffre.

Tornando sulla via maestra del nostro discorso, è chiaro dunque che non la sofferenza ma l’amore salva. La sofferenza non è ricercata dal cristiano per se stessa, per il fatto di avere un qualche peso specifico in ordine alla salvezza, quasi fosse un sigillo di garanzia di autenticità della fede. Solo che il permanere nell’amore (quando c’è rifiuto, disprezzo, indifferenza) richiede per tutti il pagamento di un prezzo salato. Il dolore e la sofferenza – con le varianti del caso – sono in genere questo prezzo: non il fine, dunque, ma l’inevitabile pedaggio per una fedeltà nell’amore che voglia essere leale e incrollabile.
Ci dobbiamo distanziare da un certo dolorismo che in passato ha condotto a una superficiale e dannosa esaltazione della sofferenza in sé, senza offrirne la specifica connotazione cristiana. Non è vero che ogni sofferenza è cristiana, così come non è vero che ogni croce è la croce di Cristo. Mi fermo qui, anche se rimane in sospeso una seconda questione: è possibile, e come, offrire a Dio la propria sofferenza?
 

Lettere al Direttore


Cristiani, vicini a giusta distanza

«Caro direttore, le scrivo perché sono letteralmente allibita e spero che lei possa in qualche modo aiutarmi, facendomi capire il perché di certi atteggiamenti a mio parere assai poco cristiani. Di recente, durante una riunione in parrocchia, ho assistito all’incontro tra una giovane donna che si sta separando, il parroco e un gruppo di “bravi cattolici”, come amano definirsi. Bene, questa donna, in evidente difficoltà, è stata evitata da tutti, anche dal sacerdote stesso, che ha cercato in ogni modo di non parlarle. Non pensa che, proprio in questi casi, i cristiani dovrebbero essere accoglienti, non giudicanti e, oserei dire, affettuosi?».

Lettera firmata

Quello che lei non dice è perché la donna sia stata evitata. Anche se, dal tono con cui parla dei parrocchiani e del loro prete, mi pare di capire che questi non siano una bella e candida compagnia. Il loro sembra essere un moralismo d’altri tempi, del tutto fuori dalla storia di salvezza che la Chiesa – maestra di misericordia – cerca di tessere giorno dopo giorno nella trama della vita degli uomini.
Voglio anche comunicarle, però, un’altra chiave di lettura («una» tra le tante possibili) che forse può aiutare a leggere da un diverso punto di vista un atteggiamento che, così com’è stato descritto, è senz’altro sbagliato e poco cristiano. Molto spesso, e qui le parlo sulla base della mia esperienza di sacerdote, una persona in difficoltà – come può essere un coniuge che si sta separando –, tende ad aggrapparsi in modo eccessivo agli altri. La sua domanda di aiuto rischia inoltre di essere scambiata per una richiesta di presa di posizione. In pratica, parenti, amici e conoscenti, prete compreso, sono più o meno consapevolmente sollecitati – da parte di uno dei coniugi, a volte di entrambi – a schierarsi. Questo può spaventare molte persone, che temono, per esempio, di venire coinvolte in una lite o in una disputa a distanza tra i due. Si tratta allora di mantenere la disponibilità all’ascolto (chi soffre spesso chiede solo di essere ascoltato e sa bene, generalmente, che nessuno dall’esterno potrà risolvere i suoi problemi) garantendo assoluta discrezione su quanto si viene a sapere e vigilando al contempo sul proprio coinvolgimento emotivo nel problema. In definitiva, un atteggiamento accogliente e, come lei stessa dice, «affettuoso», soprattutto in certe situazioni non andrebbe mai negato a nessuno, il che non significa però compromettersi in modo incauto al di là delle proprie capacità o competenze. Per essere davvero vicini, ci vuole anche la giusta distanza.



In vacanza senza mia madre malata?

«Si avvicinano le ferie e io dovrei essere felice perché finalmente posso godermi la famiglia, ma un pensiero mi tormenta. Da un paio d’anni mia madre, affetta da una forma di demenza, è venuta a vivere nell’appartamentino vicino. Questo mi permette di assisterla, ma la mia vita, con due figli ancora piccoli e un lavoro part-time, è diventata un inferno. Mia madre è sempre meno autosufficiente, ha poca memoria, si perde, non è più capace di badare a se stessa. Anche se c’è una signora che mi aiuta, sono esausta e ciò sta generando conflitto nella mia famiglia, che mal sopporta i week-end sempre passati in casa e lo stress a cui sono sottoposta. Quest’anno mio marito non ha voluto sentire ragioni e ha prenotato due settimane al mare. Ho cercato una residenza per mia madre solo per questo periodo – è troppo dipendente per affidarla a una persona sola – ma mi sento tremendamente in colpa».

Mariella

Cara Mariella non aggiunga il senso di colpa al suo fardello, non se lo merita. Lei si sta prendendo cura di sua madre con affetto e dedizione, ma è così dentro al problema da rischiare di tralasciare altri aspetti importanti. Come è giusto che sia, un gruppo familiare condivide i momenti difficili ma deve anche poter trovare lo spazio per recuperare le energie, rinsaldare i rapporti, assaporare la vita. La pausa che suo marito giustamente le chiede è fondamentale per la sua famiglia ed è vitale per lei. Stanchezza e senso di colpa rischiano di far perdere la percezione del proprio limite, la capacità di farsi aiutare, la lucidità per cogliere in ogni momento le giuste priorità. Accetti serenamente questa vacanza con i suoi, consapevole che l’armonia ritrovata sarà un bene anche per sua madre.


Essere «single» è una vocazione?

«Caro padre, mi ha colpita la sua risposta alla lettera “Rialzàti dall’amore di Dio” sul numero di maggio, quando descrive le possibili situazioni vocazionali come matrimonio, vita religiosa o sacerdotale, vita da single. Io ho scelto quest’ultima strada, da parte della Chiesa purtroppo percepita come chiamata di serie B, quasi che da parte mia non mi fossi decisa né per il matrimonio né per la consacrazione. Quella del single è una vera vocazione?».

Letizia, single vocazionalmente convinta

Né carne, né pesce, questo è quello che avverti come percezione da parte della tua parrocchia: l’essere single sarebbe una via di mezzo, una specie di limbo enigmatico da valutare. Se con tutta evidenza il matrimonio è una vocazione cristiana (quando è scelto cristianamente) e la vita consacrata e il sacerdozio sono figure di Chiesa subito riconoscibili e riconosciute, chi non si sbilancia da una parte o dall’altra è in uno stato vocazionale o piuttosto languisce in una terra di nessuno senza alcuna legittimazione da parte della Chiesa? Tutto dipende da quello che intendiamo per vocazione, poiché il ventaglio di opzioni vocazionali da una parte è tanto ampio quante sono le esperienze di vita cristiana (potenzialmente infinite), mentre dall’altra – anche per portare a sintesi una complessità altrimenti ingovernabile – vi sono alcune tipologie vocazionali codificate nel tempo: la maggior parte della gente si sposa, e altri si interrogano sulla chiamata al sacerdozio o alla consacrazione religiosa. Questo non esclude altre situazioni di vita anch’esse pienamente legittimate da un dono di grazia e da una chiamata divina, come anche da una propensione particolare del soggetto o da una specifica missione che si profila con urgenza. Dono di Dio, inclinazione della persona, esigenze della Chiesa o della comunità civile, sono tre elementi che – con un mix percentuale imprevedibile – costituiscono il cuore di ogni vocazione cristiana. Il fatto di essere single dice poco o nulla in rapporto alla vocazione cristiana: la vera domanda è perché, per quale valore umano o cristiano si sceglie la via della «singolarità» anziché la vita di coppia o una qualche forma di consacrazione? Detto altrimenti, la vita da single può essere subìta o scelta, per egoismo, per farsi i fatti propri, oppure per vivere meglio la carità, o per raggiungere scopi di alto valore umanitario. È il caso dello scienziato assorbito nella sua ricerca per il bene dell’umanità, per il quale non c’è spazio neppure per relazioni belle e positive come la vita di coppia e di famiglia. Solo rispondendo ad alcune precise domande – come quelle sopra formulate – è possibile cogliere lo spessore vocazionale di una condizione esistenziale. Essere in coppia, così come essere da soli, non è ancora una vocazione.



Cervelli in fuga già dall’università?

«Nostro figlio ha da poco sostenuto l’esame di maturità. Nelle prossime settimane dovrà scegliere a quale facoltà universitaria iscriversi. Alcuni compagni di liceo hanno già preso contatti con università straniere perché, come ci riferisce nostro figlio, continuano a ripetere che “in Italia, scuola e università sono ormai allo sbando”. Davvero – mi chiedo – le nostre università, luoghi di straordinaria cultura e lunghe tradizioni, non sono più in grado di preparare adeguatamente i nostri ragazzi?».

Lettera firmata

Difficile consigliare, cari genitori, la scelta giusta. Partirò, allora, da alcuni dati. Dopo tedeschi, irlandesi e francesi, siamo la quarta nazione che esporta cervelli. Sono ben quarantamila gli studenti italiani iscritti nelle università straniere. In testa alla classifica, la Germania (oltre 7500 presenze di giovani italiani), in coda, gli Stati Uniti (oltre 3300); i rimanenti sono disseminati qua e là in Europa. Le domande di frequenza (senza considerare master e dottorati) presso università oltreoceano – solo per fare un esempio – sono cresciute nell’ultimo anno del 21 per cento (1160 candidature nel 2009). Il rovescio della medaglia è duplice: le matricole universitarie di casa nostra sono diminuite del 4,4 per cento negli ultimi due anni (la fonte è la Conferenza nazionale degli assessori alla cultura e al turismo), nonostante l’incremento di studenti promossi alla maturità. Inoltre, chi ha avuto esperienza di studio all’estero, difficilmente vuole ritornare a casa. Si tenga conto che il nostro sistema universitario è stato bocciato persino dall’Ocse, ed è a serio rischio di «tagli». Ci troviamo di fronte a una serie di campanelli d’allarme che ci dovrebbero spingere a rivedere – in parte a rifondare – il nostro sistema scolastico, a cominciare proprio da quello universitario. Rifondare significa partire dalle basi, dalle fondamenta: interrogarsi sul modo migliore di trasmettere cultura e sapere. Non è un caso che i nostri giovani raccontino come, nelle università estere, siano ancora possibili «un rapporto stretto con gli insegnanti, l’incontro settimanale con il tutor (spesso uno dei massimi esperti mondiali), il pensare fuori dagli schemi (con forte responsabilizzazione), “il lavoro che viene a cercare te appe­na finisci gli studi, e non vice­versa”, i costi ragionevoli». Nel nostro Paese gli atenei di ottimo livello non sono mosche bianche. La fuga dei nostri talenti rischia, però, di penalizzare anche quanto ancora abbiamo di buono. Nessuno può negare l’opportunità di un’esperienza culturale e di studio all’estero, ma nessuna fuga, purtroppo, ha mai risol­to i problemi. Potenziamo seriamente le nostre università, tagliando pure i rami secchi, avendo il coraggio di riformulare i programmi, ricostruendo il rapporto tra docente e studente, rendendo gli atenei a misura di studente e non centrati su baronati vari. Forse solo così riusciremo a tenerci i nostri cervelli, cominciando da quelli giovani.



Lettere d’amore per esteso e con i crampi

«Poco tempo fa ho perso mio padre. Riordinando le sue cose ho rinvenuto, in un cassetto, alcune lettere. Gliele aveva scritte mia madre quando lui, poco dopo il matrimonio, si era dovuto spostare in un’altra città per lavoro (...). In queste lettere ho ritrovato le mille sfumature dell’amore che i miei genitori hanno sempre avuto l’uno per l’altro. La cosa mi ha fatto pensare anche al piacere che provavano prendendo carta e penna per scambiarsi le proprie emozioni. Un’abitudine che oggi è dimenticata e impoverita anche dai nuovi modi di comunicare...».

Lettera firmata

Lettere d’amore... abitudini antiche, cose d’altri tempi. Non solo per via dell’amore e delle sue espressioni, che sono radicalmente cambiate, ma per le forme comunicative in genere, che ora corrono su internet, via skype, con sms, mms e altro ancora: ma io sono fermo qui. Se tutto avviene rapidamente, allo stesso tempo tutto è contratto, un po’ come i sentimenti in circolazione. Sigle enigmatiche sostituiscono elaborati discorsi, e vengono piazzate lì, senza un prima e senza un poi. Ma è proprio vero che «tvusdb» corrisponde a «ti voglio un sacco di bene»?
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017