Lettere al direttore
Restare fedeli: perché e come?
Oggi la fedeltà diventa il grande incomodo, poiché è vista come impedimento all’espandersi dell’«io», alla sua gratificazione istantanea. Per sostenerla sono necessarie «pillole di Noi».
«Mia figlia Claudia è sposata da quattro anni e madre da due, e da un po’ di tempo ha cominciato a farmi strani discorsi. Per inciso: Marco, il marito, è tutto preso dal suo lavoro e dai molti viaggi, con soggiorni, anche prolungati, all’estero; Claudia è una ragazza aperta, dinamica, che ama la compagnia. Ultimamente mi butta lì frasi del tipo: “Non credo che sia possibile essere fedeli a una persona per sempre”, oppure: “Oggi, se non si sta bene insieme, ci si può rifare una vita”. Inutile dirle, padre, che queste idee – che stanno purtroppo diventando il modo comune di pensare – mi spaventano. Perché siamo arrivati a questo punto?».
Lettera firmata
Che la fedeltà matrimoniale sia un valore, non vi è alcun dubbio. Che però oggi la percezione di molti a riguardo sia cambiata, è altrettanto indubitabile. Fedeltà debole, fedeltà corta, fedeltà a tempo, fedeltà sotto condizione, fedeltà con diritto di permuta, sono espressioni che dicono lo svuotamento di un concetto che nella sua integrità sembra spaventare i più. In linea generale la fedeltà viene accettata, ma subito dopo il suo perimetro è delimitato con parecchi distinguo, fino a pensare e a dire che l’avventura della vita in verità ci riserva tante fedeltà successive, tutte assolute ma solo finché durano. Anzi, passare dall’una all’altra sarebbe segno di vera fedeltà, quella cioè esercitata nei confronti di se stessi.
Impossibile a questo punto non sollevare la questione che sta al cuore del problema, vale a dire la questione dell’identità. Realtà una volta relativamente certa, l’identità è ai nostri giorni «il» problema con il quale convivere, perché risposte chiare e convincenti sembrano mancare. Anche l’immagine del mosaico, che un tempo andava per la maggiore, indicando come ogni uomo avesse il compito di mettere insieme nel modo più armonioso le tessere della propria esistenza portandola a un disegno compiuto, non è più sostenibile: significherebbe ammettere che esiste da qualche parte un disegno pensato da qualcuno e al quale il soggetto dovrebbe conformarsi. L’identità è insomma diventata autocostruzione, affare privato dell’io, per cui ognuno è unico e solo responsabile della propria biografia. Fenomeno tanto vistoso che il sociologo Ulrich Beck si domanda: «Sta forse dilagando un’epidemia di egoismo, una “febbre dell’Io” che è immune da farmaci di natura etica, come per esempio “pillole di Noi” e quotidiani appelli alla difesa del bene comune?». Ci sarebbe, dunque, un io che si progetta in solitaria, orientato fino allo spasimo verso la propria autorealizzazione, che egli solo conosce e della quale decide senza ammettere interferenze.
Proviamo ora a posizionare la vita a due in questa prospettiva, caratterizzata per principio da un deficit del «noi» e dalla megalomania dell’«io», dove quindi sempre meno ci si pensa in relazione, dentro una storia collettiva, in scelte che si lasciano misurare dal «per sempre». La fedeltà diventa il grande incomodo, poiché è vista come impedimento all’espandersi dell’io, alla sua gratificazione istantanea. Che fare, perché e come restare fedeli? Il perché è presto detto: non è forse una qualificazione dell’io continuare a crescere in coppia e in famiglia, restando uniti oltre le difficoltà e i momenti di crisi? Si pensi solo alle risonanze uniche di un amore forgiato da passaggi anche dolorosi: merce rara e preziosa! Il come rimanda, oggi soprattutto, a una creatività ricercata dai coniugi con impegno e dedizione, con fantasia direi, per il fatto che – in un quadro sociale di mobilità dell’io e di scelte mutevoli – si è fedeli nella misura in cui si cambia, ci si risintonizza sempre e di nuovo, nella fatica e nella gioia di ritrovarsi. L’impressione che la dottrina cristiana sia una serie interminabile di «no» detti all’amore deve quindi misurarsi con evidenze che depongono a favore di valori che anche dal punto di vista umano hanno grande rilevanza nella costruzione del sé: uno di questi è la fedeltà.
Il dramma dell’abbandono subìto
«In questo periodo cerco di essere vicina a Chiara, una cara amica che è stata abbandonata dal marito per una donna più giovane... Ci sono di mezzo anche due figli, che purtroppo Chiara “usa” come ponte per restare in contatto con l’ex marito di cui è ancora innamoratissima. Mi spiace per lei, ma anche per i figli adoperati impropriamente come merce di scambio».
Teresa
Se c’è una sofferenza particolarmente intensa e faticosa da rielaborare, è quella che deriva dall’essere abbandonati dal coniuge. Alcuni studi paragonano questa esperienza alla perdita di una persona cara: genitore, marito/moglie o figlio; come dire che gli equilibri della vita sono tutti da rifare, partendo per lo più – anche quando si disponga di una personalità forte – dal ruolo di «vittima». Chi se ne va compie una violenza di enorme portata, devastante e superabile solo nei tempi lunghi. In ogni caso, i passaggi che aspettano un coniuge abbandonato (là dove altra via non è percorribile) perché possa di nuovo riemergere dall’apnea e recuperare una propria autonomia, sono generalmente questi: la separazione emotiva, quello strappo viscerale per cui si prende atto di non essere più riconosciuti dall’altro come partner, come «tu» affettivo; segue poi la fase del divorzio legale e di quello economico, che, mettendo in primo piano le ragioni e gli interessi dell’uno e dell’altro, contribuisce a spegnere o ridimensionare gli affetti e lascia sul campo strascichi di rancore, di aggressività; c’è anche, a un certo punto, il divorzio dalla dimensione pubblica del noi, cioè dai tanti amici, conoscenti e parenti che formavano lo sfondo sociale della vita di coppia. Per chi ha figli arriva anche il tempo del divorzio genitoriale: mentre una coppia sposata vive come un tutt’uno il fatto di condividere la vita e di prendersi cura della prole, ora le due realtà vanno distinte, e non è per niente facile o automatico. È forse il momento più delicato, quasi un’operazione fatta con il bisturi in carne viva sia per i genitori (se non mancano tentativi di recuperare la relazione da parte di chi ha subìto l’abbandono, dall’altra abbondano i sensi di colpa) che per i figli (spaesati di fronte alla confusione dei ruoli). Mi pare che la tua amica Chiara sia in questa fase, nel passaggio delicato dall’essere coppia coniugale a essere invece coppia genitoriale, un passaggio che va comunque portato a termine – benché doloroso – per il bene dei figli. Solo con gli anni – sette-otto di media, secondo gli esperti – arriva anche il divorzio psichico, quando la persona molla la presa, elabora il lutto per l’evento traumatico che ha subìto ed è affettivamente in grado di camminare con le proprie gambe.
Cara Teresa, voglio solo dirti che è molto bello quello che stai facendo; la tua è una vicinanza umana e cristiana certamente preziosa. Spero che insieme a te ci sia anche una parte della comunità cristiana nella quale siete entrambe inserite.
Chiesa e opinione pubblica
«Viviamo in un tempo in cui la Chiesa non è più ascoltata, almeno come lo era una volta. Anzi, sta crescendo un atteggiamento a volte aspro contro alcune sue posizioni pubbliche: penso ai casi Welby ed Eluana… Ho l’impressione che si veda troppo la Chiesa che dice “no” a questo e a quello, e troppo poco la Chiesa che dice “sì” alla vita, alla persona concreta, alla felicità degli uomini e delle donne».
Lettera firmata
Rispondo solo in parte alla sua analisi circa il rapporto tra Chiesa e società. Limitando il campo a casa nostra, si può dire che in genere la gente ha ancora fiducia nella Chiesa: precisamente, da recenti sondaggi, il 46 per cento degli italiani contro il 34 per cento che invece di fiducia ne nutre poca o nessuna. Bisogna aggiungere che in genere la Chiesa viene osannata quando si esprime in materia di giustizia sociale, di pace, di fraternità universale (tutti ricordano l’apprezzamento corale, condiviso anche da molti non credenti, alla posizione ferma di Giovanni Paolo II contro la guerra in Iraq), mentre quando interviene su temi di morale sessuale incontra maggiori diffidenze e ostilità. Di fatto solo il 16 per cento dei cattolici italiani (la metà dei praticanti) condivide totalmente le indicazioni del magistero della Chiesa su temi etici, sociali e politici, mentre quasi il 40 per cento (e non è poco!) è attento a queste indicazioni pur senza ritenerle vincolanti. Per completare il quadro, resta un 40 per cento che si dichiara «distante» e una netta minoranza (il 9 per cento) «apertamente critica». Se si considera la situazione di pluralismo spinto (inteso come molteplicità di opzioni possibili) che oggi caratterizza le società occidentali, in Italia le cose non vanno poi così male. C’è da dire, in ogni caso, che i pronunciamenti della Chiesa non sono in funzione di un consenso da ottenere a tutti i costi. D’altra parte è anche vero che, senza venir meno alla verità da annunciare, è oggi indispensabile curare maggiormente lo stile comunicativo, almeno per evitare i soliti fraintendimenti e le banali semplificazioni che penalizzano pesantemente la voce della Chiesa nell’ambito pubblico.
Professore in cerca di senso
«Caro padre, da venticinque anni insegno lettere alle superiori. Le difficoltà non sono mai mancate, ma è inutile farsi il sangue amaro per qualche episodio di bullismo, per quegli studenti che non fanno il proprio dovere o per difficoltà di relazione con alcuni genitori. Ciò che invece proprio non sopporto è il continuo cambio delle regole del gioco: modalità di valutazione, programmi, a breve la struttura stessa del liceo. E poi c’è sempre meno spazio per l’insegnamento curriculare, visto che il tempo è occupato da una miriade di iniziative extra-scolastiche. Se avessi voluto fare l’animatrice turistica mi sarei orientata verso altre scelte, le pare?».
Una docente
La difficoltà da lei testimoniata è solo un tassello di quel fenomeno complesso che va sotto il nome di emergenza educativa. Credo che scoprire un nuovo, sano protagonismo della «figura docente» sia un passaggio obbligato nell’ambito della riqualificazione della nostra scuola. In altri termini: per uscire dall’emergenza educativa non si può prescindere dal «semplice» insegnamento delle materie. Sono d’accordo con lei quando rivendica la sua professionalità, ovvero la conoscenza di ciò che insegna, come fondamento del proprio mestiere. Anche se poi questa capacità va contestualizzata in relazione agli studenti, alle famiglie e agli altri insegnanti. Infine, in merito alle riforme che stanno trasformando la scuola: le scelte pedagogiche e organizzative fatte a livello politico (tagli alla spesa, maestro unico, riordino dei licei, ecc.) stanno aiutando la nostra istruzione a essere all’altezza del suo compito? Nel dossier di questo mese cerchiamo di capirlo insieme, ma ho l’impressione che solo fino a un certo punto si vada verso questo risultato.
Scacco matto mai vizia tutto campo
«Caro padre Ugo, ho avuto tra le mani il libro da lei curato: “Scacco matto ai vizi”. Complimenti per aver raccolto in un unico volume vari interventi apparsi sul “Messaggero”… Mi chiedo però che senso abbia oggi parlare dei vizi, anche perché nel linguaggio, e soprattutto nella mentalità corrente, non se ne tiene conto. Penso alla gola: quanti ritengono che sia per davvero un vizio da evitare? Per non parlare d’altro…».
Lettera firmata
Sono pienamente d’accordo con il fatto che oggi parlare di vizi sia piuttosto difficile, non però fuori luogo. L’importante è guadagnare una prospettiva contemporanea, misurata sull’animo e sul sentire degli uomini del nostro tempo. Si può ad esempio ricollocare il vizio della gola nel contesto della situazione conflittuale che molti vivono in rapporto al cibo: da una parte si esagera in modo autodistruttivo e morboso (come accade negli eccessi alimentari) e dall’altra si trasforma il rapporto con il cibo in un campo di battaglia fatto di ricatti affettivi o di perfezionistica e irreale ridefinizione della propria immagine (spericolate diete fai-da-te). Allo stesso modo, può essere interessante parlare di invidia nel nuovo contesto di una società mediatica e quindi legata all’immagine, all’apparire, dentro quel processo che è stato chiamato di «vetrinizzazione»: prima in vetrina c’erano le merci, ora in tanti fanno a gara per esibirsi davanti alle telecamere e piazzarsi il più a lungo possibile nella scatola magica della tv. Così anche il tema dell’avarizia può assumere orizzonti più ampi e non meno esigenti: pensiamo al rapporto malato tra Nord e Sud del mondo, ai molti Lazzaro che giacciono accanto alla mensa opulenta dei Paesi ricchi dovendosi accontentare delle briciole. E che dire della lussuria, in un tempo di calo del desiderio sessuale e di banalizzazione estrema della corporeità: è proprio vero che la sfera sessuale sia una fucina di automatica e democratica felicità per tutti? Interessante può risultare anche il discorso sulla superbia in una società nella quale tutti si credono super anche quando non lo sono: quante sopravvalutazioni, quante qualità millantate, quanta alterigia in circolazione. Dell’ira non mancano attualizzazioni calzanti: basta che ci vediamo al volante in un ingorgo stradale al ritorno dal week-end oppure impastoiati con la burocrazia delle carte e dei timbri o anche delle esasperanti attese. L’accidia poi, che non è soltanto pigrizia, richiama un dato di fondo del nostro vivere quotidiano: quella sottile tristezza che ci impedisce spesso di gioire appieno della vita. Insomma, i vizi fanno ancora oggi dei grossi danni. Meglio per tutti che si continui a parlarne.
Discorsi e documenti: forse troppi
«Sono un prete di 73 anni ancora in pieno servizio. Con grande solennità, da alcune settimane è stato inaugurato dal Papa l’anno sacerdotale, che segue all’anno dedicato a san Paolo. Mi auguro che non si tratti, come spesso accade, di un’occasione per moltiplicare le parole e i documenti, che a mio parere sono già in eccesso. C’è bisogno, nella Chiesa, di tornare al silenzio, alla riflessione, all’interiorità...».
don Renato
Quello che lei dice è condiviso da molti preti e laici, che sono un po’ stralunati dall’alluvione di documenti (diocesani, delle Chiese nazionali, dei dicasteri romani...) che vengono messi in circolazione. Come per la carta moneta, il rischio è quello dell’inflazione e quindi della scarsa incidenza. Capisco che scatti, a un certo punto, una legittima difesa, anche se va aggiunto che non si tratta solo di un problema quantitativo. In questione è lo stile e il modo di essere Chiesa, e qui alcune parole pronunciate dal cardinale Ratzinger nel 1994 possono essere di grande utilità: «Ciò che manca oggi non sono prima di tutto le nuove formule, ma si è piuttosto obbligati a constatare un’inflazione di parole che non hanno copertura di risorse auree (...). Mi sembra tuttora innegabile una produzione eccessiva di documenti. Se la situazione della Chiesa dipendesse dalla quantità di parole, avremmo oggi una fioritura ecclesiale mai vista. Sarebbe invece necessario darsi più tempo di silenzio, di meditazione e di incontro con il reale, per maturare un linguaggio più fresco, nato da un’esperienza profonda e viva, più capace dunque di toccare il cuore degli altri». Come vede, il Papa aveva e ha idee molto chiare: sottolinea il pericolo di una Chiesa «di carta», parolaia, poco attenta a Dio e quindi all’uomo.