Lettere al direttore

27 Ottobre 2009 | di

La verità? Meglio dirla prima

«Caro direttore, qualche giorno fa mi sono trovata a discutere con alcune amiche, tutte sposate da almeno una decina d’anni, come me. Oggetto del contendere era la sincerità nella coppia. Io sostenevo che tra marito e moglie è indispensabile dirsi sempre la verità, tutta intera e su ogni aspetto del vivere; secondo le mie amiche, invece, bisogna distinguere: pur mantenendo un atteggiamento sincero di fondo, è necessario valutare di volta in volta. La verità, dicevano, in alcuni casi, può essere controproducente o, addirittura, mettere a rischio la relazione di coppia».

Lettera firmata


La verità è una gran bella cosa. Magari ce ne fosse di più tra coniugi, nelle famiglie, ma anche tra colleghi di lavoro e nei gruppi sociali. Per non parlare della politica, che per antonomasia è il luogo della menzogna, dell’interesse nudo e crudo. Però la verità da sola non dà sempre i risultati sperati, e, restando al discorso di coppia, vanno fatti dei distinguo. Bisogna infatti stare molto attenti a coltivare una relazione fatta di dialogo, verbale e non, di attenzioni nei confronti dell’altro: quando esiste un buon livello di comunicazione, il problema della verità tra i coniugi non si pone. D’altra parte ci sono anche molte coppie che comunicano in modo superficiale, oppure non comunicano affatto. E, si sa, meno si parla meno si parlerebbe, fino a vivere vite parallele, tendenzialmente divergenti. Poi può capitare il fatto spiacevole, la scivolata, la scottatura, e le cose tornano a funzionare solo se la verità è stata detta sempre, prima intendo, cioè se il rapporto può contare su basi solide. Quella detta dopo può servire o meno (è, ad esempio, una verità ben misera se serve solo a scaricare sensi di colpa) a seconda della situazione, ma la cosa importante è tornare di gran carriera alla verità di prima (per chi, fino al fatidico sbaglio, ha vissuto nella rettitudine), e decidere di rimanerci aggrappati fermamente. Oppure, cogliere l’occasione per rifondare il rapporto su nuovi presupposti, facendosi magari aiutare da qualcuno.


Dialetto a scuola: pro o contro?

«Caro direttore, si parla tanto, anche a livello di dibattito politico, di introdurre l’insegnamento del dialetto a scuola. Sono convinto dell’importanza di tramandare le tradizioni, ma non credo che questa sia la soluzione più adatta per dare una mano a una scuola già piena di problemi».

Un genitore


Il dialetto rappresenta una profonda espressione delle nostre tradizioni. Un patrimonio importante che dobbiamo cercare di coltivare e mantenere vivo. Ma sarei davvero cauto nel sostenerne l’insegnamento a scuola, come se si trattasse di una «lingua» a tutti gli effetti. Soprattutto se pensiamo che ci sono voluti secoli per avere un linguaggio comune, l’italiano, che ha fatto da collante all’unità del Paese. L’Italia è un caleidoscopio di culture simili ma non uguali, di peculiarità regionali e locali che si sono mantenute, a mio avviso, proprio perché una lingua ufficiale, uguale per tutti, ha fatto da minimo comune denominatore. «I dialetti si parlano, non si insegnano» afferma il professor Gian Luigi Beccaria, noto italianista, che aggiunge: «Un dialetto è un sistema linguistico che, delle nostre esigenze espressive, soddisfa egregiamente soltanto alcuni aspetti (l’usuale, il pratico, l’affettivo, il familiare), ma non altri (il tecnico, il filosofico, lo scientifico)». Credo che la scuola debba insegnare meglio alcune materie già presenti come l’inglese e altre lingue, l’informatica, la matematica e, prima di tutto, proprio l’italiano che, come hanno dimostrato alcuni sondaggi, è una lingua spesso sconosciuta ai nostri stessi studenti universitari. Del resto, in dialetto «si può parlare con Dio, ma non di Dio». A dirlo non è il sottoscritto, bensì Raffaello Baldini che, di mestiere, faceva lo scrittore e il poeta dialettale.


Oltre la tentazione fiscale

«Cerco di essere, nel mio piccolo, una buona cristiana e una buona cittadina. Vorrei raccontarle però di una tentazione… fiscale nella quale incorro sempre più spesso. L’ultima volta è capitato dal dentista: al momento del conto mi viene chiesto se voglio la ricevuta (fanno 300 euro) o se preferisco pagare in nero (250 euro). Ora, non è che proprio io navighi nell’oro, e cinquanta euro mi fanno comodo. In quell’occasione, però, mi sono impuntata e ho scelto ciò che ritenevo più giusto. Non le dico il disappunto del mio interlocutore, che mi ha fatto sentire una marziana».

Una lettrice


Anche a me sono capitati episodi simili. Purtroppo, spesso, chi in Italia paga le tasse è trattato come fesso. Il problema non sembra essere la legge, che è chiara, come pure l’insegnamento della Chiesa in merito. San Paolo nella lettera ai Romani (13,7) non si presta a facili distinguo, quando intima: «Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo il tributo; a chi le tasse le tasse». La soluzione non può essere solo una maggiore incisività dei controlli, pur indispensabili. Il problema è la vistosa carenza di senso civico, ma anche e soprattutto strutturale, cioè politico: ci sono attività della piccola imprenditoria per le quali l’evasione fiscale e il lavoro in nero costituiscono requisiti indispensabili per stare sul mercato. Ma dubito sia il caso del suo dentista...

In definitiva, l’invito è a non subire il sottile ricatto che ci rende complici. E se siamo dei professionisti, evitiamo anche di creare l’occasione, perché il problema non è solo del consumatore finale, ma anche di chi offre sottobanco questa alternativa. Che è falsa, perché lede tutti: se ciascuno pagasse i propri balzelli, le tasse sarebbero più eque e i servizi migliori.



Lettera del mese. Religioni senza Aldilà


Dubbi sulla risurrezione


La risurrezione è un messaggio inaudito e perciò difficile da intendere fino in fondo. Parla di un uomo pensato in unità, dentro un progetto, in una relazione che non può corrompersi e finire, perché garantita da Dio stesso.


«Risorgeremo? Un cristiano dovrebbe rispondere sì, senza titubanze, perché ne va dei fondamenti della propria fede. Non solo perché un giorno risorgeremo con Cristo, nostra speranza, ma anche perché ogni giorno possiamo vivere da risorti, da persone cioè che, pur temendo la morte (un sentimento umano incancellabile), non ritengono che si tratti di un muro impossibile da superare. Sono una catechista che lavora con gruppi di adulti e mi sbalordisce il fatto che molti, nonostante si dicano cristiani, relativizzano la risurrezione: risorgeremo forse, e anche se così non fosse c’è pur sempre la reincarnazione. Vorrei che intervenisse su questo tema».

Laura


Per non usare la parola relativismo – troppo generica e forse imprecisa – che molti impiegano di fronte a situazioni come quella che lei descrive, utilizzerei espressioni più circostanziate come religione fai-da-te, religione à la carte (scegliendo cioè dal menù o dalla carta dei vini), cocktail o supermarket religioso, nelle quali il denominatore comune non cambia: non l’uomo si innalza alla misura richiesta dalla proposta religiosa, ma piuttosto piega la religione alla sua misura. Bisogni, desideri, conflitti non vengono specchiati nell’oggettività del dato religioso, e perciò a partire da lì purificati e riorientati, bensì il mondo religioso viene soggettivamente manipolato procedendo alla costruzione di un «dio da consumare», commisurato alle proprie personali necessità, in genere quelle del momento. Che detta mentalità intacchi il cuore stesso della fede, è del tutto consequenziale. Riporto in proposito alcuni dati recentemente pubblicati da «La civiltà cattolica», che hanno come fonte un’inchiesta del settimanale francese «Le Pèlerin», realizzata nel marzo di quest’anno e dal titolo «I francesi e la risurrezione»: «Soltanto il 13 per cento dei cattolici crede nella risurrezione e solamente il 19 per cento spera di risuscitare con Gesù. Sul totale degli interrogati, crede nella risurrezione soltanto il 10 per cento. Il 7 per cento pensa a una reincarnazione sulla Terra; il 33 per cento (il 40 per cento dei cattolici) spera che ci sia qualcosa dopo la morte, ma non sa di che cosa possa trattarsi. Il 43 per cento del totale (e il 33 per cento dei cattolici) è persuaso che non ci sia nulla dopo la morte, mentre il 19 per cento dei cattolici (che sale al 61 per cento dei praticanti regolari) spera nella risurrezione, il 21 per cento nella reincarnazione sulla Terra e il 24 per cento non è interessato al problema della vita dopo la morte». Anche considerando la particolare situazione del cattolicesimo francese, che più duramente ha patito il fenomeno della scristianizzazione, si rimane impressionati da indicazioni così nette e drastiche offerte da alcune percentuali. Massicce quote di cristiani, o almeno di persone che si credono e si proclamano tali, fanno della risurrezione un optional, senza alcun imbarazzo; per arrivare a sovrapporre fino a confonderle risurrezione e reincarnazione; fino al configurarsi di un cristianesimo senza alcun riferimento all’aldilà, alla vita eterna con Cristo presso Dio. Se così è, la religione cristiana, svuotata del suo slancio verso il futuro, più precisamente verso un Dio in grado di garantire futuro per l’uomo oltre ogni contraddizione terrena, si affloscia e si disintegra, perdendo di mordente. La credibilità del cristianesimo risiede nella sua capacità di tenere insieme i tempi della vita, armonicamente e sensatamente, per ogni uomo: il passato come traccia del passaggio di Dio e mai solo come zavorra o involucro vuoto da abbandonare; il presente come «grazia», dono sorgivo, come «adesso» dove si disvela la trama del nostro esistere sempre più modellati a Cristo; il futuro come dimensione fuori dal nostro possesso e dalla quale Dio ci viene incontro per mostrarci in modo pieno e definitivo il suo volto di assoluta misericordia. La risurrezione è quindi messaggio inaudito (e perciò difficile da intendere fino in fondo) di un uomo pensato in unità, dentro un progetto, in una relazione che non può corrompersi e finire, perché garantita da Dio stesso.


 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017