Lettere al direttore

26 Marzo 2010 | di


LETTERA DEL MESE


Offrire la sofferenza


Che cosa diciamo quando affermiamo di offrire la nostra sofferenza al Signore? Che la sofferenza subìta non ha spezzato il legame d’amore con Dio e i fratelli.


«Il mio confessore mi dice spesso: “Offri le tue sofferenze per la redenzione del mondo e per la conversione dei peccatori”. Ho una malattia cronica che si è accentuata con la vecchiaia e anche per questo non mi manca materia prima da “offrire” al Signore. Da qualche tempo, però, mi chiedo: “Com’è possibile che il Signore gradisca una cosa così brutta e sgradevole come i miei patimenti?”».

Lorenza – Milano


Quando maneggiamo il grande tema del male il nostro linguaggio è generalmente inadeguato, fatto per lo più di semplificazioni che in buona fede cercano di tradurre per approssimazione dei concetti assai complessi. L’espressione «offrire le proprie sofferenze per la redenzione del mondo e per la conversione dei peccatori», ad esempio, è l’altra faccia di una realtà ben presente nelle Scritture e assolutamente centrale nella dottrina cristiana, vale a dire il fatto che gli uomini sono redenti dalle sofferenze di Cristo, dalla sua morte in croce. Se questo può aver condotto, soprattutto in alcuni periodi storici, all’individuazione della croce come evento in sé e per sé – preso isolatamente, intendo – salvifico, bisogna dire che di semplificazioni linguistiche si tratta, perché la croce ci salva solo se è la croce di Cristo nella quale il Figlio di Dio suggella la sua fedeltà a oltranza al Padre. Non una croce qualunque, il puro dolore fisico o morale, seppur straziante, ci redime, ma la croce con la quale Gesù conclude la sua vicenda terrena in coerenza con la missione che il Padre gli ha affidato. Tutt’altra cosa dal dolorismo con cui non solo si giustifica il male, ma in qualche modo si induce ad accettarne la proliferazione. Cosa significa allora il consiglio che le è stato dato dal suo confessore? Dicendole di «offrire le sue sofferenze», in primo luogo non le è stato richiesto di procacciarsi sofferenze supplementari rispetto a quelle che la vita normale già le procura. In secondo luogo, non significa che quanto lei soffre sia automaticamente legittimato per il fatto che diventerebbe carburante per la realizzazione di un bene superiore (la conversione dei peccatori, ad esempio). Non si può offrire il dolore, il male che ci percuote, per il semplice motivo che non ha alcun senso offrire a Dio qualcosa di brutto e negativo che deforma e disumanizza l’esistenza. «Offrire la sofferenza» è espressione che può aiutare a capire come nel nostro dolore non siamo isolati, imprigionati in una bolla fatta di assenza di relazioni con i fratelli e soprattutto verso l’Alto. A essere offerto, dunque, (e questo è forse l’aspetto più importante) non è il dolore, quanto il lavoro misterioso della grazia in noi nonostante ci si trovi oppressi e quasi schiacciati dalle avversità: una malattia, la morte di una persona cara, il decadimento fisico con tutto ciò che comporta, una debolezza che ci umilia… Nonostante il dolore rimaniamo saldi nella fede, speranza e carità, non rinneghiamo l’amore presente in noi e il nostro essere e sentirci figli amati: questa forza nella contrarietà e nella contraddizione è gradita a Dio e a lui può essere offerta. Quando troppo frettolosamente si collega sofferenza e redenzione ci si dimentica che tra i due termini va posta l’obbedienza al Padre e l’amore ai fratelli. È restando nell’orizzonte di questi due amori (vale a dire: «Nonostante la mia condizione amo ancora i fratelli e rimango aperto all’amore di Dio») che la «sofferenza», o meglio quello spazio di libertà e gratuità che nella sofferenza ancora custodisco, può essere offerta.









LETTERE AL DIRETTORE

Operazione commerciale? Sicuramente no!

«Sono abbonato da anni al “Messaggero di sant’Antonio”, giornale che trovo sempre ricco di spunti interessanti. Dal numero di febbraio ho appreso della recente Ostensione del corpo di sant’Antonio, che poi avete presentato in lungo e in largo a marzo. Le devo confessare che ho trovato la cosa di dubbio gusto. Che senso ha esporre ossa vecchie di ottocento anni, per quanto siano quelle di un grande santo? La cosa non aggiunge nulla alla nostra fede. Per chi crede, il santo è già vicino e in grado di intercedere. Mi spiace molto, ma viene da pensare che si sia trattato di una “operazione commerciale” destinata a rimpolpare un’economia che anche a Padova immagino in ribasso».

Aldo, lettore «pensante»


«Ho visto con le lacrime agli occhi le belle immagini pubblicate sul “Messaggero” di marzo, che documentano la recente Ostensione delle reliquie del Santo. Lacrime dettate dall’emozione ma anche dal dispiacere di non essere potuta venire a Padova in quei giorni. Ma perché l’Ostensione è durata così poco? Non avete pensato a chi, come me, abita lontano (io sono di Lecce) e avrebbe avuto bisogno di un po’ di tempo in più per organizzarsi e venire in Basilica?».

Lucia


Ho collocato di seguito queste due lettere di tonalità diversa perché di fronte ai grandi eventi (soprattutto quando toccano l’intimità delle persone) non è così facile mettere tutti d’accordo. Come ho scritto nell’editoriale, in queste settimane stiamo ricevendo segnali positivi e incoraggianti da parte di molti nostri lettori: da chi è venuto in Basilica e ha vissuto un’esperienza di fede profonda e toccante; da chi ci ha seguiti da casa come se fosse stato presente, quasi facendo il tifo. Mentre non pochi si sono dispiaciuti per l’esiguità della durata dell’Ostensione. Il popolo di sant’Antonio è davvero vario, desideroso di non perdere mai l’occasione di incontrare il suo Santo. Anche se – ci scrive Aldo – forse non c’era bisogno di tutto questo chiasso, di esporre ossa in pubblico, di favorire anche indirettamente operazioni di tipo più commerciale che religioso. Insomma, c’è chi dice che si è esagerato e chi invece sostiene che l’evento è durato troppo poco, e sia l’uno che l’altro sono sicuramente fervorosi devoti di sant’Antonio.

Caro Aldo, rispondo soprattutto a te perché interpreti un pensiero che è quasi assente tra i devoti del Santo, ma va alla grande tra un certo pubblico di persone fuori o ai bordi della vita della Chiesa. E coltiva l’eterno sospetto che ogni operazione religiosa, anche la più «santa», nasconda inconfessabili interessi economici. Rispondo: non è così, non è andata così in questa Ostensione, anche perché tutto ciò che dai frati è stato dato alla gente (200 mila persone!) era del tutto gratuito: la Guida del pellegrino, un opuscolo illustrato di 48 pagine, con parte storico-artistica e sezione liturgica, e una cartolina – occasione per tutti di lasciare una preghiera davanti al Santo –; il numero di febbraio e quello straordinario del «Messaggero». Se poi operazione commerciale è mangiare un panino portato da casa sulle panchine dei chiostri della Basilica, oppure farsi una pastasciutta in una trattoria o, ancora, portare come ricordo (spesso su ordinazione o per esaudire un desiderio) alla nonna o alla zia un rosario benedetto o una statuina di sant’Antonio, dobbiamo capirci. La parola commercio è fuori luogo. Tranne che in qualche punto strategico di passaggio obbligatorio, di soldi ne sono girati pochi, soprattutto per gli esercenti padovani che con un flusso così massiccio e prevalentemente giornaliero non hanno ricevuto grandi benefici. Un evento di dimensioni imponenti ha portato in città truppe ordinate e in genere auto-equipaggiate tutte tese all’incontro spirituale col proprio Santo. La città di Padova si è dimostrata come al solito generosa, mettendo a disposizione le forze disponibili, i gruppi di volontariato non hanno lesinato tempo e impegno, i frati hanno confessato da mattina a sera e anche il «Messaggero» ha profuso energie per la buona riuscita dell’evento. Ogni giorno circa 500 persone si sono rese disponibili in Basilica, dall’alba al tramonto, e la gran parte gratuitamente. Sono convinto che per comprendere certi eventi si debba guardarli almeno un po’ dalla parte di chi li vive. Diversamente il nostro giudizio diventa pre-giudizio, vale a dire un giudizio che muove da presupposti estranei, in genere luoghi comuni che vengono ripetuti senza mai essere verificati sul campo. 200 mila persone hanno ritenuto rilevante per la loro vita passare davanti al corpo di sant’Antonio, a volte dopo un’attesa di quattro, cinque ore. Che senso ha banalizzare o sminuire un fatto così grande?


L’accidia è altra cosa dalla depressione

«Sono abbonata al “Messaggero” e le scrivo questa lettera in merito alla sua partecipazione alla trasmissione “A sua immagine” di domenica 28 febbraio 2010, dove si trattava di due vizi capitali: avarizia e accidia. Seguo sempre questo programma, e soprattutto la santa Messa tra la prima e la seconda parte: purtroppo, non vado in chiesa da tempo perché da più di un anno e mezzo soffro di depressione con attacchi di panico. Lei, nel programma, ha parlato dell’accidia dicendo che in questo vizio capitale rientrano anche le persone depresse. Vorrei capire bene il perché. Per ciò che mi riguarda, le posso assicurare che ogni volta che cerco di reagire faccio peggio e, come dice il mio medico, potrò tornare a una vita normale solo col tempo, a piccoli passi. Sentire che quanto vivo rientra in uno dei sette vizi capitali è stato come ricevere un pugno nello stomaco, sono rimasta in pensiero e preoccupata tutto il giorno. Per questo ho deciso di scriverle, per farle sapere quanto dolore si prova a essere depressi, inutili, di peso per tutti».

Lettera firmata


Cara signora, la sua lettera – qui riportata solo in parte – esprime la grande pena e sofferenza che con grande dignità sta sopportando e che – le garantisco – rispetto profondamente. Quando ho letto il suo scritto ho deciso di risponderle subito, e pubblicamente, per evitare ogni fraintendimento circa le parole pronunciate nella trasmissione televisiva da lei seguita. In quel contesto, parlando dell’accidia ho detto che non si può tradurla in modo semplicistico con pigrizia o indolenza, come molti purtroppo fanno. All’origine l’accidia era il vizio proprio dei monaci, di coloro cioè che, in solitudine o in comunità organizzate, cercavano l’unione con Dio. Il venir meno di questa tensione verso Dio prima cedendo alle distrazioni interiori ed esteriori, poi dandosi al pettegolezzo e al perseguimento di cose futili e, infine, coltivando il pensiero che cambiando situazione (soprattutto monastero e quindi confratelli, oppure ritornando nel mondo) la propria vita sarebbe migliorata, portava alcuni a girare a vuoto, in definitiva a perdere lo scopo e il gusto della propria vocazione.

Quando, nel VI secolo, Gregorio Magno si trovò a dover tradurre in modo comprensibile per i laici il vizio dell’accidia, tipico – come detto – dei monaci, semplificando parlò di pigrizia. Anche se la matrice rimase ed è ancora oggi quella originale: l’accidioso di ieri come quello dei nostri giorni è una persona svuotata, irrequieta, senza direzione, sostanzialmente scontenta, che non si impegna per nessuna causa, ma che si adagia – per sua volontà – in tale situazione e non fa nulla per venirne fuori. Da qui l’analogia (che dice somiglianza e insieme dissomiglianza) con la depressione che, essendo una malattia e non avendo certo carattere di volontarietà, non può in nessun modo essere considerata un vizio. Alcuni atteggiamenti sono gli stessi, ma ciò che fa la differenza è la decisione del soggetto: dove non c’è scelta consapevole, infatti, non può esserci alcun peccato.

Mi dispiace se, a motivo del fraintendimento che c’è stato, ho aggiunto amarezza e delusione a una situazione già di per sé pesante da portare. Segua le indicazioni di cura e soprattutto ascolti gli incoraggiamenti del suo medico. Dalla depressione si può guarire, è solo questione di tempo e la politica dei piccoli passi è quella che più paga. Se posso aggiungere qualcosa, anche in relazione a come ha reagito di fronte a parole che non erano a lei indirizzate, non si lasci colpevolizzare da niente e da nessuno e coltivi sentimenti di fiducia. Mi auguro di risentirla presto. Auguri!


Crisi, segnali discordanti

«Caro padre, l’altra sera ero a cena con amici. Cena di pesce a menù fisso. Io sono in pensione da qualche mese, non ho problemi economici, ma gli 80 euro a testa di conto mi sono sembrati tanti. Eppure il locale era pieno, anzi, volendo prenotare, la prima data disponibile era dopo due mesi. Si parla tanto di crisi, eppure mi sembra che si continui ad avere soldi da spendere anche per beni che di prima necessità proprio non sono».

Luigi – Novara


Ma questa crisi c’è o non c’è? Sembra essere questa la domanda della lettera, che mette in discussione anche un certo stile di vita. Credo però che la questione possa essere precisata così: come percepiamo ciò che succede attorno a noi? Il suo racconto parrebbe fotografare un benessere diffuso e spensierato, estraneo ai cupi scenari della recessione. Tanti altri segnali, però, dicono il contrario. Dipende anche dal nostro contesto di vita e dalle esperienze del quotidiano. Si pensi alla microcriminalità urbana: fino a che non ci tocca da vicino – uno scippo, un furto, un’aggressione subita – ci sembra sempre riguardi altri, distanti. Lo stesso dicasi della crisi. Chi ha perso il lavoro, è in cassa integrazione o non ha avuto il rinnovo del contratto a termine, d’un tratto non solo non può più fare acquisti futili, ma nemmeno, a volte, quelli necessari. Al contrario, chi può contare su un reddito garantito ha addirittura qualche opportunità in più rispetto a prima dell’inizio della crisi.

In definitiva sta a ciascuno – e a un cristiano a maggior ragione – allargare i confini della propria percezione e del proprio cuore, tanto da includere anche le situazioni di disagio che personalmente non abbiamo mai vissuto o che non stiamo vivendo nel presente.


 

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017