Lettere al Direttore

24 Agosto 2010 | di


Disinnescare la trappola del rancore

«Gentile direttore, sono preoccupata per mio padre. Da quando, non molto tempo fa, è andato in pensione, non è più lui. Il fatto è che nell’ultimo periodo di lavoro ha subito delle prepotenze da parte di colleghi e del capo ufficio, accumulando un risentimento dal quale non riesce a prendere le distanze. Temo che il rancore possa avvelenargli in maniera irreparabile questa stagione della vita. Anche mia madre non riesce a farlo reagire. Come aiutarlo?».

Erika


Il rischio da lei ipotizzato non è da sottovalutare. Il rancore, infatti, può essere un pessimo compagno di strada, poiché getta la sua ombra su tutto ciò che ci circonda. Questo accade anche quando il motivo del risentimento non è così grave o la controparte ritenuta responsabile non ne è consapevole: un’aspettativa delusa, un complimento che pensavamo di meritare, un gesto o un silenzio mal interpretati possono scatenare la stizza di chi si percepisce nel ruolo di vittima. Nel caso di suo padre non ho modo di capire se le «prepotenze» che lamenta sono reali oppure gonfiate. Dò per scontato che si tratti di vere ingiustizie. Comunque sia, hanno causato quel macigno di livore che niente e nessuno sembra in grado di scalfire. Come venirne fuori? Consapevole di forzare un po’ la mano, voglio condividere con lei una bella e toccante testimonianza di Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi, ucciso dai terroristi nel 1972: «Ho bandito il rancore. Alzarsi al mattino con la rabbia dentro significa riuccidere tutti i giorni tuo marito. Questa sarebbe stata la tragedia più grande. L’odio non ti fa vedere le cose belle della vita. Volevo essere felice. Questo era ancora possibile». Non a caso il libro che racconta la vicenda della famiglia Calabresi, scritto dal figlio Mario, s’intitola Spingendo la notte più in là. È anche un’indicazione: io, vittima, ho il potere di spingere il buio più in là perché sono più importante del male che ho subìto, e non posso permettere che ingigantisca a motivo della considerazione che gli concedo. Questa possibilità non si chiama «oblio», anzi, è la tappa di un percorso di perdono vissuto come scelta di rinascita personale, a partire dall’alleggerimento del dolore causato da eventi passati. Il dolore rancoroso è sempre zavorra, prigione, trappola degli affetti che impedisce la libertà interiore. Cerchi una persona, con competenze educative o psicologiche, che aiuti suo padre a uscire dall’angolo oscuro. Rancore deriva da «rancido», cioè putrefatto. Bisogna quanto prima spalancare le finestre.


Se Mattia gioca sempre con i mostri

«Ho un nipotino, Mattia, di appena 8 anni, che tra i suoi giocattoli ha ogni sorta di mostro. I videogiochi, violentissimi, gli permettono di costruire nemici virtuali deformi e di farli fuori allegramente in una pioggia di brandelli. Ieri, quando dal tabaccaio mi ha chiesto di comprargli una specie di ectoplasma gelatinoso contenente un bulbo oculare di plastica, mi sono chiesta se va davvero tutto bene. Mio figlio davanti alle mie perplessità si mette a ridere, dice che l’ importante è aiutare Mattia a distinguere tra realtà e fantasia. Sarò una donna di altri tempi, ma francamente non capisco questa attrazione per l’orrido…».

Lettera firmata


Normali le perplessità, soprattutto sapendo che nei primi anni di vita i bambini assorbono come spugne insegnamenti, conoscenze, comportamenti. Non fa piacere, quindi, saperli per lunghe ore in compagnia di mostri d’ogni tipo o di giochi che tendono all’eccesso. Tuttavia credo che questa attrazione per l’orrido non sia un fenomeno nuovo benché oggi assuma forme diverse, magari amplificate dalle nuove tecnologie o dal martellamento della pubblicità televisiva. Mostri paurosi e streghe cattive riempiono le fiabe di tutti i tempi e quanti di noi da piccoli hanno fatto strage di soldatini di plastica senza poi sparare un colpo vero per tutta la vita? Non sono uno psicologo, ma penso che l’attrazione per il brutto e il cattivo rientri nel succedersi delle fasi della vita: serve a esorcizzare le paure oggettivandole. Per noi adulti è molto più semplice distinguere tra bene e male, amico e nemico, realtà e immaginazione; abbiamo insomma chiari punti di riferimento e proprio per questo rischiamo di dimenticare che i piccoli navigano invece nel mondo come in un universo da scoprire, che li seduce e insieme li spaventa. L’attrazione per il mostruoso ha probabilmente questa matrice, per cui va capita e in qualche modo guidata, magari aiutando il bambino a esprimere le proprie emozioni e paure in modo diverso e possibilmente meno influenzato dal gusto al ribasso della pubblicità omologante. Quindi stroncare o impedire non è probabilmente la strada giusta, come non lo è abbandonare i bambini in balìa di mostruosità e schifezze. L’importante, in ogni caso, è la relazione educativa, la capacità di accompagnare con pazienza i ragazzi, dialogando e motivando sempre la propria eventuale contrarietà. Per loro è fondamentale essere presi sul serio: è la cosa che più li fa sentire al sicuro.


Animali: migliori degli esseri umani?

«Sono un’anziana signora che, godendo di buona salute, può vivere, per fortuna, in casa sua. Non mi sono sposata e non ho figli; ho dei nipoti che però non si ricordano mai di me. Il risultato è che trascorro le mie giornate quasi sempre da sola. Le sembrerà impossibile, ma chi mi fa compagnia è il mio cane! Davvero a questi animali domestici “manca solo la parola” e spesso si comportano meglio di certi esseri umani. Del resto, mi pare che anche sant’Antonio a Rimini abbia predicato ai pesci…».

Rita


Cara signora, su sant’Antonio lei ricorda bene. Si narra infatti che il nostro Santo, trovandosi a Rimini, di fronte ad alcuni eretici che disprezzavano la sua predicazione, abbia detto più o meno così: «Dal momento che dimostrate di essere indegni della parola di Dio, ecco, mi rivolgo ai pesci per confondere più apertamente la vostra incredulità». A motivo di questo gesto di sfida, con esito positivo, gli eretici si convertirono.

Per quanto riguarda lei, va sottolineato che, per quanto possa essere rassicurante e gratificante la presenza di un cane o di un gatto o altre bestiole, questa non potrà mai sostituire la relazione di scambio con altri esseri umani. È nella gioia e nella fatica della relazione coi nostri simili, infatti, che scopriamo davvero chi siamo; è nel rapporto aperto, sincero e costruttivo con gli altri che avviene quello scambio che nutre la nostra e l’altrui vita. È nel dialogo che riusciamo a cogliere il volto e la «grammatica» di Dio.

Verrebbe da dire, quindi, che i suoi nipoti farebbero bene a ricordarsi di lei, almeno qualche volta. Dal momento, però, che sulle intenzioni e «attenzioni» altrui non possiamo intervenire più di tanto, è bene prendere semplicemente atto di alcune situazioni che non possiamo cambiare e cercare di porvi rimedio guardando oltre. Nel suo caso, per esempio, questo oltre potrebbe essere rappresentato da persone con la sua stessa passione per gli animali, oppure da gruppi di volontariato che si occupano di portare sollievo a tanta umanità sofferente. Ciò non toglie che il rapporto con il suo cagnolino possa continuare ad arricchire la sua vita. Un animale in casa è «presenza», riempie molte solitudini, può contribuire a migliorare l’umore. Scrive a riguardo lo psichiatra Vittorino Andreoli (Istruzioni per essere normali, BUR Saggi, 2004): «Domina oggi un atteggiamento di grande considerazione verso gli animali, soprattutto domestici; un atteggiamento che attribuisce all’animale valenze persino terapeutiche». Valenze comprovate da schiere di pazienti i cui disturbi vengono parzialmente attenuati dalla vicinanza (se non addirittura dalla «cura» per la quale è stato coniato un nome specifico: pet-therapy) con gli animali.

In definitiva, se è vero che dobbiamo molto rispetto e gratitudine a questi «piccoli amici», che sono una parte importante della creazione (san Francesco d’Assisi cantava: Laudato sii mi’ Signore, cum tutte le tue creature…), è anche vero che il faccia a faccia dell’uomo con i suoi simili, il reciproco riconoscersi come figli amati da Dio è il vertice della creazione. Senza di questo ci priveremmo di una parte preziosa dell’esistenza.


Giovani troppo fragili di fronte alla vita?

«Caro direttore, l’altra sera ho sentito al telegiornale che un giovane studente si è tolto la vita dopo aver saputo di essere stato bocciato. Poco fa ho letto sul giornale che un altro ragazzo ha deciso di farla finita per una delusione amorosa. Le confesso che questi drammi mi fanno rabbrividire. Sono figlio della guerra che condannerò sempre, ma alla quale devo riconoscere di avermi reso, nonostante tutto, forte. Perché i nostri giovani sono così fragili? Perché non riescono a fare i conti con gli insuccessi e le sconfitte?».

Giuseppe


Non è facile essere giovani. E quanto poco noi adulti sappiamo di loro! Li crediamo già cresciuti solo perché hanno alcune capacità a noi in tutto o in parte sconosciute (per esempio, sanno usare con straordinaria abilità le nuove tecnologie) o perché hanno cominciato a uscire di casa da soli quando ancora frequentava­no le scuole medie. Pensiamo siano invincibili, capaci di cavarsela sempre e comunque in ogni circostanza della vita. Niente di più sbagliato. I nostri ragazzi hanno paura del domani, temono la competizione, sono angosciati per il fatto di non apparire sufficientemente belli, intelligenti, brillanti, vivono con apprensione il confronto con i genitori, i fratelli, gli insegnanti. Scherzano, fanno i gradassi, hanno atteggiamenti di sfida solo per coprire le paure che covano dentro. Pensano, si interrogano, pur dichiarando di «non avere un progetto su cui riversare il loro interesse». Sono un «esercito immobile» – come li definisce Alessandro Rosina, docente di demografia, nel suo Non è un Paese per giovani (Marsilio 2009) – lontanissimo da quell’esercito di coetanei che, un tempo, avrebbe invaso le piazze per fare la rivoluzione. Quello che sconcerta nel leggere le storie di giovani che gettano la spugna, è il senso di sconfitta e la solitudine che accompagnano la loro esistenza. Molti decidono di uccidersi senza lasciare una spiegazione a chi rimane; altri scelgono invece di affidare a poche righe quanto non sono mai riusciti a dire in una vita. L’adolescenza è una seconda nascita. Se nella prima nessuno ha potuto scegliere chi essere, in questa ri-nascita ciascuno ha la possibilità di diven­tare in qualche modo autore della propria storia. Che significa misurarsi con se stessi e, quindi, anche con il rischio del fallimento. Facciamo in modo che i nostri ragazzi non considerino drammatico un insuccesso: parliamo loro, senza vergogna, delle nostre piccole e grandi sconfitte di gioventù, dei momenti di sconforto, delle paure. Raccontiamo di come siamo riusciti a superare queste difficoltà senza fuggire. Mostriamo loro, con la nostra vita prima ancora che con le parole, che il senso di inadeguatezza è spesso un passaggio obbliga­to nella crescita verso l’autonomia e la responsabilità, e che un po’ ci accompagnerà sempre. Infine, insegniamo ai giovani, sin da piccoli, la differenza tra sentimenti – che presuppongono la relazione con l’altro – ed emozioni, sensazioni passeggere che possono essere trasmesse anche dalla tecnologia o indotte dai media e da falsi miti. In definitiva, non rinunciamo al nostro ruolo educativo di adulti nei confronti delle giovani generazioni.

Lucrezio diceva che gli uomini si trasmettono la vita come i tedofori olimpionici si passano la fiaccola. Non temiamo, dunque, di passare la fiamma della fiducia nelle mani dei nostri giovani: meglio una famiglia nella quale si litiga, ci si confronta, ci si contrappone a volte, piuttosto di una fa­miglia in cui regna quel silenzio che è sinonimo di indifferenza.


Lettera del mese


Il Vangelo della Vita


Può essere difficile tener fede all’impegno cristiano della testimonianza, soprattutto in un contesto culturale che tende a emarginare chi non è efficiente, o chi è segnato dalla malattia e dalla disabilità.


«Ho 56 anni, e sono quello che si può definire un cattolico praticante. Qualche mese fa mi sono trovato davanti a un caso di coscienza che mi ha portato a interrogarmi sul mio modo di vivere il cristianesimo. Una mia parente, alla prima gravidanza, dagli accertamenti ai quali si sottoponeva regolarmente, nonché dall’amniocentesi effettuata su consiglio del ginecologo, ha appreso che il figlio che aveva in grembo era portatore di una gravissima malattia (cromosoma 18) che lo condannava a morte certa, pur se lei avesse portato a termine la gravidanza. Le lascio immaginare il turbamento di questa giovane coppia e di tutti i familiari. Dopo varie consultazioni, marito e moglie hanno deciso di abortire. Al di là del grande dolore che ho provato per questa mia parente, ciò che però tuttora mi turba e mi interroga è che in questa vicenda io non sono stato capace né di suggerire loro di rivolgersi a un sacerdote, né ho saputo testimoniare il mio essere cristiano, così come sarebbe stato doveroso per uno che si considera tale. Faccio presente che da sempre sono contrario all’aborto. Mi sono confessato di questa mia incapacità, ho trovato un sacerdote che mi ha assolto, ma ancora mi chiedo: se si presentasse un caso analogo, come mi comporterei? Questo pensiero mi fa soffrire e, come dicevo, mi induce a pensare che spesso mi dichiaro cristiano, ma quando poi mi capita di dover testimoniare il mio credo, la debolezza umana è superiore a tutto».

F. P.


San Paolo afferma che «abbiamo un tesoro in vasi di creta» (2Cor 4,7): così mi sembra di poter riassumere la sproporzione che spesso percepiamo tra il dono della fede che anima le nostre convinzioni e la nostra instabile capacità di testimoniarla con coerenza nella vita di ogni giorno. E questo vale anche per il Vangelo della Vita così luminoso, ma anche così fragile, difficile da annunciare in un contesto culturale che tende a emarginare chi non è efficiente e produttivo, chi è segnato dalla malattia e dalla disabilità. E quando entrano in gioco i legami familiari sembra ancora più arduo tenere fede all’impegno cristiano della testimonianza.

Certamente l’aborto – senza eccezioni – è sempre un grave disordine morale in quanto uccisione di un essere umano innocente (Evangelium Vitae, 62), eppure non ci possono sfuggire i particolari caratteri di drammaticità della situazione descritta. Siamo in presenza di un «feto terminale», una gravidanza che esiterà quasi certamente in un neonato con una limitatissima speranza di vita e con uno strascico di gravi patologie correlate. Possiamo solo lontanamente immaginarci lo strazio che accompagna i genitori dopo una così tragica scoperta, la loro difficoltà a intravvedere soluzioni alternative a quella prospettata. Tutto ciò non giustifica l’aborto, ma invita a meditare e ad agire: è proprio quello che hanno fatto alcune famiglie con l’aiuto di medici, psicologi, religiosi e altre coppie. Hanno scelto di far nascere e di prendersi cura fino alla fine del loro piccolo bambino gravemente malato: «un cammino terribile e bellissimo… una lotta contro la paura e il dolore… un lutto molto più dolce da sopportare»! Si tratta di una rete di solidarietà che punta a sostenere, senza giudicare, perché nessuno si senta solo di fronte a scelte di vita e di morte, una rete che si va organizzando in associazioni che collaborano con centri di alta specializzazione pediatrica come La Quercia Millenaria con il Gemelli di Roma o l’ABC Bambini Chirurgici del Burlo Garofolo di Trieste. Piccoli semi di Vangelo e di vita che intendono mettere radici e portare frutto per chi si confronta con situazioni che sembrano senza via d’uscita. Un’ultima considerazione: che la consapevolezza a posteriori generi sofferenza mi sembra un salutare indizio di una coscienza in buona fede che non deve stancarsi di crescere verso una sempre maggiore coerenza. È questo il cammino di ogni cristiano. «Non è bene affliggersi per il passato né angosciarsi per ciò che non si può rimediare. Guarda sempre al futuro! Perché solo il futuro è il regno della libertà… Non sia il tuo soppesare ciò che hai fatto altro che proposito di un futuro miglioramento, ogni altro pentimento è morte, nient’altro che morte!» (Miguel de Unamuno).


Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017