Lettere al direttore

24 Settembre 2010 | di

Maternità «over» cinquanta

«Ho letto che Gianna Nannini aspetterebbe una figlia, che si chiamerà Penelope. Mi piacciono le sue canzoni, ammiro la rockstar e considero la sua maternità “attempata” in linea con la sua vita: una sfida continua sotto i riflettori. Credo che questo colpo di scena sia magistrale: una “meravigliosa creatura” in arrivo. Lei che ne pensa?».

Lettrice modenese
 
Mentre scrivo, la notizia della gravidanza della Nannini, pur supportata da molte foto, non è stata né confermata né smentita dall’interessata. Mi baso pertanto su notizie offerte dalla stampa, che hanno alimentato un ampio dibattito: è giusto o no avere un figlio a 54 anni? Sostanzialmente le tesi messe in campo sono due: c’è chi ritiene questa maternità un atto di egoismo e chi invece un atto d’amore. Come nel calcio, alla faccia delle sfumature.
Da parte mia, auguro alla cantante che la gravidanza si concluda con un parto felice e che sia una brava mamma. Mi permetto, però, di aggiungere qualche osservazione. Preoccupa il fatto che questa maternità in età piuttosto avanzata (preceduta peraltro da quella di altri personaggi dello spettacolo) possa innescare un fenomeno di emulazione. Un figlio non appartiene solo a chi lo fa e la riflessione, soprattutto in casi estremi come questo, deve essere collettiva, pur nel rispetto dei soggetti in causa.
Condivido alcune considerazioni proposte da Silvia Vegetti Finzi sulle colonne del «Corriere della Sera»: «I mass-media presentano questi casi come favole meravigliose, celando le ombre che minacciano tanta felicità: l’invasività delle tecniche fecondative, il necessario ricorso a donatori di materiale generativo, i costi economici, fisiologici e psichici dell’impresa, la scarsa probabilità di successo, l’incerta geometria di queste nuove famiglie, dove il posto del padre resta per lo più vuoto, gli inquietanti scenari del futuro». C’è da pensarci su!
Credo che dovremmo aiutare le donne a stabilire le giuste priorità nei diversi momenti della loro vita, per non rischiare di alimentare pericolose illusioni: non tutto è sempre possibile, e quando anche è possibile non necessariamente è da farsi.
Per il bene sia nostro che altrui.
 
 
Caso Polanski, perché due pesi e due misure?

«Caro direttore, la giustizia svizzera ha respinto la domanda di estradizione degli Usa per il regista Roman Polanski, reo di aver drogato e seviziato una ragazzina di 13 anni. Sorprende che a esultare per questa decisione siano quegli ambienti culturali che negli ultimi tempi hanno strumentalizzato e ingigantito i casi di abusi su minori da parte di preti cattolici, invocandone la galera a vita. Perché due pesi e due misure? È una domanda che ci facciamo in molti e la ringrazio in anticipo se potesse rispondere sulle pagine della rivista».

Lorella G.
 
Si è molto parlato del caso Roman Polanski. Dopo l’arresto, avvenuto a Zurigo nel settembre del 2009, in occasione del ritiro di un premio alla carriera, figure eminenti del cinema, della politica e della cultura internazionale hanno manifestato la propria solidarietà al cineasta franco-polacco. Polanski fu condannato nel 1978 negli Stati Uniti per aver abusato di una tredicenne. Al processo ammise le proprie responsabilità, ma fuggì all’estero il giorno prima che venisse emessa la sentenza. Le voci che recentemente si sono levate in sua difesa hanno accampato più ragioni: non è giusto, si è detto, condannare un uomo ormai anziano per un fatto così lontano nel tempo e mai più ripetutosi; inoltre Polanski, nella sua vita, oltre ad aver prodotto veri e propri capolavori, avrebbe già sofferto tanto: da bambino, infatti, è stato internato nei campi di sterminio perché ebreo, e lì ha perso la madre; molti anni dopo, la moglie Sharon, all’ottavo mese di gravidanza, è stata uccisa dai satanisti di Charles Manson.
Nell’autunno del 2009, quindi in parallelo a questa vicenda, lo scandalo pedofilia si abbatteva come un terremoto sulla Chiesa, scuotendone le fondamenta. Senza alcun dubbio la pedofilia è un reato gravissimo, intollerabile, da cui la Chiesa ha preso le distanze anche assumendosi le proprie responsabilità. Il coro dei media, in quel caso, non solo condannò senza appello i responsabili, ma estese la condanna alla Chiesa tutta, ritenuta colpevole di aver coperto fatti riprovevoli. A poco valsero le voci che ricordarono a tutti l’impegno e la dedizione della stragrande maggioranza dei preti. D’improvviso, tante cose belle e buone non contarono più nulla.
Lei mi chiede perché due pesi e due misure. Forse perché lo smascheramento del male è spesso accompagnato dalla facile autoassoluzione, accettando che esistano zone franche sia dentro che fuori di noi, magari dando per scontato che personaggi ricchi e famosi possano permettersi, impunemente, ogni tipo di trasgressione. Di fatto, un povero prete e un grande regista hanno la medesima responsabilità di fronte al male compiuto.
 
 
A proposito di insegnanti di religione

«Reverendo padre Ugo, vorrei tornare sulla sua risposta di gennaio riguardante la vicenda di suor Annalisa Falasco, maestra presso la scuola “Jean Piaget” di Roma, contestata da alcuni genitori proprio perché religiosa. Nulla da eccepire sulla sua risposta, solo che non bisognerebbe usare un metro diverso, secondo la convenienza del momento. Mi riferisco a un episodio avvenuto qualche anno fa: una professoressa di religione di un istituto religioso non era stata reintegrata in quanto risultante divorziata e convivente. In pratica, era stata ritenuta indegna di educare ai valori del cristianesimo i giovani studenti. Alla faccia del rispetto della persona! Sono molto interessato al suo giudizio in proposito».

Lettera firmata
 
Gentile lettore, non conosco gli estremi del caso da lei esposto ma, da quel che dice, credo che le due vicende vadano pesate in modo diverso, non essendo in alcun modo sovrapponibili. Suor Annalisa aveva i titoli di idoneità per ricoprire la carica di docente di italiano, mentre diversa è la situazione per la cattedra di religione. Infatti tale insegnamento dipende da accordi concordatari tra Stato e Chiesa, e ha di conseguenza una legislazione sua propria. È l’autorità ecclesiastica locale – il vescovo – ad avere il diritto di nomina e di verifica dell’idoneità dei docenti, come previsto dal Codice di diritto canonico ai numeri 804-805: «L’Ordinario del luogo si dia premura che coloro, i quali sono deputati come insegnanti della religione nelle scuole, anche non cattoliche, siano eccellenti per retta dottrina, per testimonianza di vita cristiana e per abilità pedagogica. È diritto dell’Ordinario, se lo richiedano motivi di religione o di costumi, di rimuoverli oppure di esigere che siano rimossi». Nel caso specifico, il problema potrebbe essere non tanto il divorzio quanto la successiva convivenza, probabilmente esibita come legittima in via di principio. Le regole per l’idoneità all’insegnamento della religione cattolica sono chiare, ma va precisato che le diocesi hanno poi grande discrezionalità nel valutare le singole situazioni: il loro impegno non è certo profuso nella ricerca di motivi di condanna, ma piuttosto nell’intessere con i docenti di religione un rapporto ispirato a grande rispetto e reciproca stima.
 
 
E se adottassimo gli embrioni?

«Sono rimasta molto colpita dalla vicenda della signora che, pur essendo in menopausa, desidera un figlio, pubblicata sul “Messaggero” di giugno, nella rubrica di bioetica “Questioni di vita”. A tale proposito vorrei lanciare una proposta “originale”. Io provo una grande pena per tutti quegli embrioni umani in sovrannumero, che hanno ricevuto il dono della vita, un corpo e un’anima, dentro una fredda provetta. Mi fanno pena perché a loro di fatto è stato negato il diritto di nascere, condannandoli a una non-vita. Perché nessuno pensa a questi embrioni congelati? Se i genitori naturali non li vogliono, perché non adottarli, perché non farli nascere? La madre adottiva porterebbe avanti la gravidanza e partorirebbe il figlio adottivo, geneticamente diverso da un figlio naturale ma amato come un figlio proprio e considerato agli effetti della legge come gli altri bambini adottati. In caso contrario, a questi embrioni toccherebbe in sorte la manipolazione a scopi scientifici o la distruzione. Penso che la legislazione attuale in Italia non consenta questa adozione, ma sono curiosa di sapere che cosa ne pensa il “Messaggero”».

Maria
 
Apprezzo la sua sensibilità di donna e la ringrazio molto per la passione umana con cui ci ha scritto questa lettera. L’ho passata al nostro esperto di bioetica, Gian Antonio Dei Tos, per una risposta precisa e competente.
«Cara signora, lei ha sottolineato un tema importante che a volte, nel dibattito bioetico sulla procreazione assistita, non emerge con l’evidenza dovuta. È vero che, a causa delle modalità con cui si applicano le tecniche di procreazione assistita, in molti Paesi del mondo si è determinata la creazio­ne di un numero rilevante di embrioni umani che ora sono crioconservati. Ricordo comunque che in Italia la Legge 40/2004 consente il congelamento degli embrioni solo quando l’impianto in utero si riveli impossibile nell’immediato, garantendo così la possibilità di un impianto in tempi successivi. La stessa legge inoltre impedisce la soppressione degli embrioni e consente di interrompere la crio­conservazione solo nell’ipotesi di impianto o quando sia possibile accertarne scientificamente la morte naturale, anche se allo stato attuale delle conoscenze questa seconda possibilità oggi appare molto difficile. In genere, a seconda della normativa dei vari Paesi, gli embrioni crioconservati sono destinati alla distruzione dopo alcuni anni dalla loro creazione, oppure vengono destinati alla ricerca scientifica. È evidente che queste scelte non corrispondono al rispetto e alla tutela richiesta da una vita umana, e infatti qui è in gioco proprio l’identità stessa e lo statuto morale dell’embrione umano. Il Comitato nazionale di bioeti­ca, il 18 Novembre 2005, ha pubblicato un documento dal titolo: L’adozione per la nascita degli embrioni crioconservati e residuali derivanti da procreazione medicalmente assistita. In tale documento si sottolinea il diritto alla nascita dell’embrione e si auspica quindi la sua adozione e il conseguente impianto sottolineando i valori di solidarietà, generosità, responsabilità e irrevocabilità sottesi a tale gesto adottivo. Come lei ci ha segnalato, è vero che questa possibilità, non prevista attualmente dalla legge vigente in Italia, potrebbe risolvere molti problemi bioetici che nascono dalla crioconservazione degli embrioni abbandonati». (G.A.D.T.)
 
 
«Cronache materne»: che bella lettura!

«Sono una vostra vecchia abbonata. Mi complimento per gli argomenti interessanti che il vostro giornale tratta. Tra tutti gli articoli che vengono pubblicati ogni mese, però, ce n’è uno molto divertente, particolarmente ben scritto, proprio bello. È “Cronache materne” di Marina Corradi. Io e mia figlia lo leggiamo sempre con interesse: la vita di noi mamme con figli piccoli è proprio così. Complimenti alla giornalista!».

Nonna Bruna
 
Cara nonna Bruna, grazie per i suoi apprezzamenti al «Messaggero». E grazie anche per i complimenti alla brava Marina Corradi, che mi sento di condividere pienamente. Le confido un segreto: anche le giornaliste che lavorano in redazione appena arriva l’articolo di Marina corrono subito a leggerlo e mi dicono, divertite, la stessa cosa che ha scritto lei: «La vita di noi mamme è proprio così!».
 
 
 
Lettera del mese
 
Quando la parrocchia sta stretta
 
In chiesa si va per Gesù Cristo, e non per il prete: su questo siamo tutti d’accordo. Ma come si fa a frequentare la comunità parrocchiale quando il parroco risulta proprio «indigesto»?
 
«Caro padre, l’argomento della mia lettera è la vita parrocchiale. Abito in un quartiere dove, ovviamente, c’è una parrocchia. Il problema è che io non la frequento, ossia vado a Messa in un’altra chiesa, cioè un’altra parrocchia… perché non riesco a “digerire” il prete-parroco. Lei che ne pensa? Io credo che sarebbe opportuno “sciogliere” i legami che vincolano i residenti alla loro parrocchia, e questo per qualsiasi necessità: matrimoni, prima comunione, ecc. Credo che le “pecorelle smarrite” vadano accolte ovunque e senza paletti. Grazie padre se mi vorrà rispondere privatamente».

Lettera firmata
 
Gentile lettore, anche se la sua richiesta è di risponderle in privato, preferisco – naturalmente senza fare nomi e indicare luoghi – parlare della questione sulle pagine della rivista. Molto semplicemente perché la sua situazione è condivisa da molti. Si va da chi ragiona in termini di simpatia-antipatia nei confronti del proprio parroco, a chi utilizza lo schema conservatore-progressista, a chi invece fa riferimento a richiami sgraditi e sgradevoli, a poca sensibilità nell’accoglienza, fino a motivi personali di vero e proprio contrasto. Difficile, ma anche ingiusto, fare di ogni erba un fascio, per cui mi limito ad alcune riflessioni di carattere generale. Se in passato ha prevalso una visione fin troppo sacrale del prete – e le prerogative sacrali hanno rivestito il suo ruolo di una forma quasi indiscutibile di autorità, forse anche di potere sulle coscienze –   oggi si è passati all’estremo opposto. Un prete deve farsi valere per le qualità umane e spirituali di animatore, pastore, celebrante, intrattenitore, predicatore, consolatore, amico, consigliere, socievole con adulti e anziani ma anche gioviale con i giovani, insomma capace di relazione in tutte le direzioni, in ogni momento, praticamente con perenne sorriso stampato sulle labbra. Gran parte degli screzi che producono l’allontanamento di un fedele dalla propria parrocchia generalmente hanno origine da un singolo incontro andato male, o perché una propria richiesta – ritenuta legittima – non è stata subito esaudita, o da sintonie soggettivamente giudicate impossibili (come nel caso del nostro lettore). Mentre una volta il tutto si esauriva nella «santa mormorazione» che teneva occupati a ragionare su come andrebbe gestita una parrocchia, oggi si passa repentinamente all’estraneità, all’autoespulsione dalla comunità cristiana nella quale territorialmente ci si trova inseriti, diventando in un certo senso credenti «nomadi». Sicuramente il criterio della territorialità è oggi più labile, per molti motivi: mobilità sul territorio, fenomeni migratori, cultura del week-end, dislocazione del nucleo familiare. Perché aggiungere a questi dati di fatto ulteriori vie di fuga, incrementando l’instabilità? Questo non significa incatenarsi alla sola comunità parrocchiale (che rimane comunque il centro di unità della vita cristiana, unità che il prete simbolizza e alla cui causa è tenuto a dedicare i propri sforzi) ma riconoscere che il cristianesimo, nella concretezza che gli deriva dal principio dell’incarnazione, ha bisogno di luoghi e di volti, di un perimetro dentro il quale l’amore verso tutti si confronta con il fratello diverso da me che professa la mia stessa fede, con «una» faccia di prete. Ritorna, in tutta la sua inaggirabilità, il principio comunitario, espresso senza equivoci dalla saggezza di un tempo: «In chiesa si va per Gesù Cristo e non per il prete». Solo se Gesù Cristo è il vertice, il sacerdote viene rimesso al suo posto: guida ma anche compagno di strada nelle gioie e fatiche del credere. Uomo che in certi frangenti, magari solo perché stanco e sovraccarico di impegni, può apparirci poco disponibile, un po’ orso o troppo sbrigativo, anche lui «pecorella a rischio di smarrimento». Insomma, a nome della categoria chiedo pazienza e comprensione, quegli atteggiamenti che tanti preti, la maggior parte, vivono quotidianamente con convinzione amando vicini, lontani e allontanatisi. Anche lei, firmatario di questa lettera.
 
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017