L'icona della Natività un messaggio di luce
Le icone, oltre che splendide immagini, sono anche testimonianza della fede dell’artista il quale ha affidato a esse una serie di messaggi che cercheremo di cogliere leggendo l’icona che raffigura la Natività di Cristo. «Celebriamo, o popoli, la Natività di Cristo: saliamo con la mente a Betlemme e contempliamo nella grotta il grande mistero: si è aperto, infatti, l’Eden... Preparati Betlemme, preparati Efrata, perché dalla Vergine è fiorito l’albero della vita nella grotta: nasce Cristo per far risorgere la sua immagine un tempo caduta». Così canta la liturgia bizantina nei giorni precedenti il Natale. Questi «tropari» (canti liturgici) ci aiutano a capire meglio il messaggio dell’icona propria della festa: in essa siamo invitati a scorgere non solo un evento compiutosi nel passato (la nascita di Gesù Cristo), ma anche la realtà escatologica (ciò che avverrà alla fine dei tempi) inaugurata da quell’evento. L’invito «saliamo a Betlemme» riecheggia l’appello dei profeti Isaia e Michea: «Venite, saliamo al monte del Signore» (Is 2,3; Mi 4,2), destinato agli ultimi giorni, quando sarà stabilita la pace sulla terra, sarà compiuta la riunificazione delle genti e la luce del Signore risplenderà. La nascita di Gesù a Betlemme è garanzia del compimento di questa speranza.
L’icona della Natività mostra normalmente una montagna «rocciosa, ma di aspetto gradevole e dai colori chiari» – come dicono i manuali di iconografia –, inondata di luce che, innalzandosi, stabilisce quasi un legame tra la terra e il cielo. Un dialogo si instaura tra le due realtà, perché gli angeli del cielo chiamano i pastori che sono sulla terra e questi uniscono la loro musica e la loro voce a quella delle schiere celesti: «Nasce a Betlemme il Creatore dell’universo e apre l’Eden; la spada di fuoco si volge indietro; il muro di separazione che era frammezzo è abbattuto; le potenze celesti si mescolano con gli abitanti della terra; gli angeli insieme agli uomini compongono una grande assemblea festiva» (vespri del 23 dicembre). «Danza, terra tutta, glorifica con gli angeli e i pastori il Dio che è prima dei secoli, che ha voluto mostrarsi come bimbo appena nato» (liturgia delle grandi Ore del 24 dicembre).
I pastori (Israele) e i magi (le genti) salgono verso il centro dell’immagine dominato dalla grotta buia nella quale entra la luce celeste che si posa sul bimbo in fasce deposto nella mangiatoia. Un grande iconografo del nostro tempo, Gregorij Krug, così commenta: «I pastori rappresentano il popolo eletto; per essi il cielo si è aperto e l’assemblea degli angeli che inneggiano a Dio si è fatta visibile. Sono stati chiamati ad adorare Cristo a nome di tutto Israele e hanno ricevuto la buona novella direttamente dagli angeli. I magi rappresentano il punto più alto del mondo pagano. Per comprendere la natività di Cristo, percorrono un cammino non semplice, anzi molto difficile e complesso, e vengono da un Paese lontano. La via per i magi, guidati da una stella e non istruiti dalla conversazione con gli angeli, è incerta e piena di insidie. La buona novella si fa strada diversamente, così come diversa è la via dei pastori e dei re orientali. Ciò che unisce tutti e li lega insieme è il Cristo Emmanuele, che sono venuti ad adorare».
Il Bambino Gesù cuore dell’icona
Cristo è il centro dell’icona. È un bimbo piccolissimo. Giace sulla mangiatoia posta in una grotta nera, simbolo delle profondità della terra e delle tenebre del peccato. La stessa grotta compare nelle icone del Battesimo, della Crocifissione e della Risurrezione e ci ricorda che, incarnandosi, Cristo ha assunto tutte le realtà della nostra vita umana, anche le più tenebrose, fino a scendere nella morte e negli inferi. «Santissima è la mangiatoia e le fasce racchiudono la divinità: la vita in esse avvolta spezzerà le catene della morte» (mattutino del 24 dicembre). L’asino e il bue, non menzionati nel racconto evangelico ma elemento costante nell’iconografia, testimoniano che quel piccolo bambino è il Signore, a partire da un’interpretazione molto antica di due testi profetici di Isaia e Abacuc: «Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone» (Is 1,2) e «In mezzo a due animali ti manifesterai; quando gli anni saranno vicini sarai conosciuto; quando sarà venuto il tempo apparirai» (Ab 3,2 versione greca).
Anche Maria e Giuseppe hanno il ruolo di testimoni. Giuseppe siede in atteggiamento pensoso e poggia il capo sulla mano. Nelle raffigurazioni più antiche sta sempre di fronte o accanto a Maria e guarda in alto o verso il bambino. La liturgia canta: «Giuseppe, considerando la grandezza delle meraviglie di Dio, pensava di vedere un semplice uomo in questo bambino avvolto in fasce, ma dai fatti comprendeva che egli era il vero Dio, colui che elargisce alle nostre vite la grande misericordia» (vespri del 20 dicembre).
Maria siede o giace allungata accanto alla grotta, al centro dell’icona: guarda il bambino, parla con lui (come dice la tradizione siriaca), lo abbraccia e lo bacia oppure, in alternativa, quale madre dei credenti, sembra volgersi verso lo spettatore. «Tenendo tra le braccia il Figlio di Dio e baciandolo con baci materni, la Vergine diceva: “Adoro o figlio la grande tenerezza”» (mattutino del 21 dicembre). Nelle icone Maria è sempre la testimone dell’umanità di Cristo. A essa sono associati tutti i colori della terra: i manuali le assegnano una carnagione dal colore del frumento, capelli e occhi scuri, abiti belli, ma semplici e di colore naturale. «Nella festa della ricreazione, Maria è “il rinnovamento di ogni nato sulla terra”, la nuova Eva. È il ringraziamento più grande che l’uomo, tra tutti gli esseri creati, offre al Creatore. Attraverso questa offerta, nella persona della Madre di Dio, l’umanità caduta dà il suo assenso ad essere salvata dall’Incarnazione di Dio» (Léonide Ouspensky).
E la liturgia canta: «Che cosa ti offriremo, o Cristo? Tu per noi sei apparso, uomo, sulla terra! Ciascuna delle creature da te fatte ti offre il rendimento di grazie: gli angeli l’inno, i cieli la stella, i magi i doni, i pastori lo stupore, la terra la grotta, il deserto la mangiatoia; ma noi ti offriamo una madre vergine» (vespri di Natale).
Le icone
Arte e fede
La parola «icona» significa immagine, ma in senso tecnico viene usata per indicare le immagini di contenuto religioso della tradizione orientale, dipinte secondo schemi stabiliti e riconosciute conformi alla fede della Chiesa (con una benedizione). Le icone sono generalmente dipinte su tavole di legno con tempera all’uovo. La tavola viene ricoperta con una tela, vari strati di gesso e colla animale. I pigmenti (terre o minerali naturali macinati) sono mescolati con tuorlo d’uovo, diluito con vino o aceto, e stesi sulla superficie bianca. Il processo pittorico ripercorre le tappe della creazione (dalle tenebre alla luce): si procede da fondi scuri a colori sempre più luminosi, fino ai tratti di luce fatti con bianco puro. Anche il significato e lo scopo della pittura segue le medesime tappe. Il pittore deve saper scorgere e far emergere l’immagine vera posta nell’uomo: la sua immagine trasfigurata, quella in cui la grazia ha potuto disegnare in pienezza la luce e la gloria dei figli di Dio.