Lingua, solco di una civiltà

Alla mancanza di attenzione degli stranieri verso la nostra lingua corrisponde spesso una tendenza italica ai «forestierismi».
02 Ottobre 2001 | di

Lo scorso luglio, ho viaggiato in aereo con una compagnia francese, da Venezia a Nizza. In un volo dove buona parte dei passeggeri era italiana e dove venivano offerti in lettura ai viaggiatori anche quotidiani italiani, gli annunci dell'equipaggio ai passeggeri erano invece solo in francese e in inglese. Eppure le hostess conoscevano la nostra lingua e lo hanno dimostrato rispondendo correttamente alle domande loro rivolte; come pure non ne era digiuno un membro dell'equipaggio. Ma di annunci in italiano, manco a parlarne. Così pure nel ritorno quando ho volato con la stessa compagnia.

Questo non è che uno dei tanti episodi che dimostrano come la nostra lingua sia considerata «minoritaria» o di secondaria importanza da molti stranieri: non solo singoli, ma anche industrie, compagnie pubbliche e private, addirittura agenti turistici. Una situazione non sempre piacevole ma che non è detto debba rimanere tale all'infinito. Spremiamoci allora le meningi e vediamo di cavarne, oltre a qualche puntura di spillo, anche alcune idee.

Innanzitutto, quali sono le parole italiane conosciute all'estero? A che settore appartengono e come sono usate? Ahinoi, il repertorio si limita a pochi campi: alla cucina - anche se nella maggior parte dei menu s'incontrano patetici errori (o divertenti orrori) di ortografia! -, alla musica classica e lirica; in parte, alla storia dell'arte. Qualche altra rara parola d'italiano condisce la vita di tutti i giorni degli stranieri, ma è più l'eccezione che la regola. Da noi avviene il contrario, in particolare verso la lingua politicamente dominante: l'inglese.

Moltissimi italiani hanno la mania, assolutamente provinciale, di prostrarsi ad ogni stranierismo. Tralasciamo una seriosa indagine sui perché e percome storici del fenomeno e guardiamoci - meglio: ascoltiamoci - attorno: la zietta sessantenne è andata a fare shopping. Il nonno sta facendo zapping davanti alla TV; il papà  è impiegato con il trading on line (vuoi mettere con l'equivalente «compra e vendi informatico» che sa di campagnolo?). Per finire, mamma fa stretching in palestra; il primogenito (magari di nome Kevin o Sylvester) sta chattando su Internet mentre la bimba (Samantha, Jennifer o Britney: oggi Maria fa perdere punti) sogna un bel piercing. Che dire? Che in tutto questo quadretto neo-grezzo familiare è assente un ospite che avrebbe potuto riequilibrare il tutto: l'autoironia.

L'arricchito di fresco, quello che in un recente spettacolo teatrale di Marco Paolini, Bestiario Veneto, riflette dicendo: «Se non sei mai stato a Londra oggi, sei uno stupido!», cerca di darsi un tono con parole «forestiere», mentre perde progressivamente la coscienza della sua lingua e della sua cultura di provenienza. Forse perché ha lavorato troppo, non ha ancora trovato il tempo per riflettere sull'importanza di conservare le tracce delle sue origini che formano una parte fondamentale della sua identit. Ciò non significa, certo, che si debbano rimpiangere i tempi della miseria e delle difficoltà  economiche; ma dimenticare ciò che si è stati è il modo migliore per perdere anche il proprio futuro. Memoria e identità , finalità  di vita e realizzazione del sé sono elementi legati in profondità  tra loro: e la lingua ne é uno dei testimoni-chiave.

Con questo non intendo dire, sia chiaro, che l'inglese va condannato: è stata la lingua di Shakespeare. Ed è quella di Woody Allen. Ciò da cui bisogna stare in guardia è quella forma non necessaria di inglese, spesso americanizzato, che tende ad infiltrarsi in una lingua straniera e a depauperarla. Ne notiamo la presenza in vari campi: sportivo, informatico, scientifico, politico, ma anche nella lingua di tutti i giorni: e di questo vanno ringraziati anche quei telegiornalisti che devono, chissà  perché, usare sempre più spesso vocaboli stranieri al posto di una normale traduzione italiana.

L'importanza di tutelare una lingua è dunque anche relativa alla salvaguardia della sua qualità  e al suo buon uso. Quindi all'immagine di una cultura e di un popolo che la lingua vuole comunicare: che deve essere sempre viva e in crescita, lontana dagli immancabili stereotipi (il Paese del sole, dell'amore, del carnevale, ecc.). Ci auguriamo, dunque, che l'italiano sia sempre meno, nell'inconscio dei non italofoni, solo la lingua di una tradizione culturale grande ma antica e degli stimoli del buon appetito; ma che diventi quella di una civiltà  finalmente raggiunta da un buon livello di benessere socio-economico, attenta al gusto e alle sue tradizioni, ma anche ricca di contraddizioni e di problemi di crescita. Quella dei vecchi film del neorealismo ma anche delle pellicole di Nanni Moretti e di Gianni Amelio; delle canzoni di Carosone e di De André e dei gruppi rap; dei romanzi di Moravia e Silone, di Pontiggia e Affinati; delle opere teatrali di Pirandello e di quei giovani autori che oggi non trovano ancora il modo, purtroppo, di essere rappresentati, ma che non intendono per questo rinunciare a scrivere.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017