Lino Banfi, nonno d’Italia

Settant’anni pieni di sprint e di progetti, l’attore pugliese è tornato a vestire i panni dell’«allenatore nel pallone». E su fede, lavoro e famiglia risponde con la grinta di sempre.
29 Novembre 2007 | di

Instancabile, esilarante, a Natale esce nelle sale cinematografiche L’allenatore nel pallone 2, l’ultima attesa fatica di Lino Banfi. Per girare la pellicola diversi giocatori di serie A, da Totti a Buffon, hanno dato la loro disponibilità a «comparsare» gratis. Un segno di affetto e di amicizia, che lega molti di loro a Oronzo Canà, uno tra i più amati personaggi interpretati dall’attore. Semplice, tutto rivolto verso il pubblico – sua famiglia allargata – Banfi all’età di 71 anni non è diverso da come appare in tv e, sempre più spesso, on line. Di recente ha scoperto quella che chiama l’«avventura internettara», il blog, una sorta di diario dove può dare libero sfogo ai suoi personaggi e alla sua passione per la scrittura. Dove si tiene in contatto con i suoi fans, commenta le ultime novità e scrive lettere, come quella «A Gigi», dedicata all’amico Sabani.

Msa. Il suo sito è sempre aggiornato. Le piace come forma di comunicazione?

Banfi. Moltissimo. Ho scoperto questa possibilità da un anno circa: non sapevo che esistessero tanti blog. Tra l’altro il mio ha fatto una bella corsa, perché oramai è in cima alla hit parade dei più cliccati. All’interno figurano diversi personaggi tra quelli che ho interpretato, come Oronzo Canà, che piace molto ai giovani. Il sabato e il lunedì faccio i pronostici delle partite, e i ragazzi se li possono scaricare sui telefonini.

Tornando al suo personaggio Oronzo e al calcio: lei è un grande tifoso della Roma. Che cosa pensa della disgrazia accaduta all’autogrill di Arezzo?

Come tutti gli italiani di buon senso, penso che la morte di Gabriele Sandri sia una brutta disgrazia. Non bisogna confondere ciò che è accaduto con le tifoserie; quel povero ragazzo poteva anche andare a trovare la sorella a Milano quando a quel poliziotto non si sa bene cosa gli sia saltato in mente. I tifosi però non sono tutti eguali, bisogna distinguere tifosi e teppisti. Eppure in Italia c’è una fascia di persone che per ragioni ataviche odia le forze dell’ordine, le istituzioni e tutto ciò che rappresentano. Il 30-40 per cento di chi va a vedere le partite non è tifoso, vuole solo prendere a botte un carabiniere. Qualche anno fa ricordo un romano che lavorava a Cinecittà con me, faceva la comparsa, e doveva vestirsi da poliziotto. Quando ha scoperto che avrebbe dovuto indossare la divisa, ha detto: «Io a fa’ lo sbirro non ce vado. Piuttosto muoio de fame» e ha perso la giornata di lavoro. Ci sono famiglie in cui è radicata questa idea e la trasmettono ai figli…

Oronzo Canà fa la sua parte per migliorare le cose?

Il mio personaggio vuole essere gioia, divertimento, cerca di abbassare i toni, di smussare gli angoli.

Io credo che sia bene continuare a portare i bambini allo stadio. In questo senso le istituzioni devono cercare di dar prova di responsabilità e saggezza, e saper gestire le situazioni difficili.

Nonostante l’età continua a lavorare. Si sente anziano?

Mi reputo un anziano giovane, anche se ho abbracciato tre generazioni di persone, perché tengo occupato il cervello: in questi giorni sul blog esce una mia poesia in rima baciata.

È una praticaccia che ho: questo mi serve.

E sua moglie?

Siamo sposati da quarant’anni, più dieci di fidanzamento: litighiamo solo quando cucino. Mia moglie non vuole che ingrassi, ovviamente.

Oltre al cibo?

Cerco di ritagliare spazio per me stesso, ma a parte la scrittura non ho hobby. Non ho mai fatto in tempo, da quando viviamo a Roma, a crearmi passatempi, e neppure una cerchia di amici da frequentare più degli altri.

Che cosa le piacerebbe fare allora?

Viaggiare. Vorrei fare dei viaggi, costringere mia moglie a prendere un aereo. Ha paura di volare, mi si attacca al polso e me lo spezza, poi inizia a tremare, ma le farò l’anestesia. Alla fine è venuta con me anche in America, viene in Costa Azzurra, otto anni fa siamo andati a New York. La sto supplicando di portarmi in Australia, potremmo dividere il viaggio in diverse tappe, prenderci un bel periodo di tempo.

Ma li fa sul serio questi viaggi?

Vorrei. Penso sempre di partire ma poi, alla fine, quando ho appena concluso un progetto, mi chiama un produttore, uno sceneggiatore e mi dice: «Lino, ho pensato che potremmo fare questa cosa, ti piacerebbe?» e allora rinuncio al viaggio e sto a casa.

E il «Nonno Libero» di Un medico in famiglia, come è cambiato in questi anni?

Da anziani si torna bambini in un modo gioioso, lo dico sempre a mio nipote che ha 9 anni. Anche se io, alla sua età, non ero felice, perché c’era la guerra. L’infanzia e l’adolescenza non le ho praticamente vissute. Poi, dagli 11 ai 15 anni, sono entrato nel seminario di Andria, a Bari. Quindi all’età di 17 anni sono scappato di casa con una compagnia di varietà per lavorare: l’infanzia, l’adolescenza e la gioventù, le rivorrei davvero.

E poi che cosa?

Vorrei essere più magro, con tutti i capelli, vorrei tornare indietro per riacquistare tutte queste cose e vorrei avere più tempo per conoscere posti che non ho visto.

Una tappa?

Andrei a Las Vegas, non per giocare ovviamente, ma per vedere tutti gli spettacoli lì allestiti, uno dopo l’altro, senza tregua.

Lino Banfi è credente?

Molto. Ma vado poco in chiesa, perché ho paura di distrarre le persone che pregano. Per pregare come si deve ci vuole concentrazione. Quando entro in una chiesa, invece, le persone mi riconoscono, mi chiamano «Oronzo», «Lino», allora esco immediatamente. Entro in orari desueti, di sera, quando non c’è nessuno. Qualche giorno fa, appena uscito dalla Rai, sono passato per la chiesa di viale Mazzini e sono entrato. Penso che ognuno abbia un modo personale per esprimere il suo essere cattolico praticante, magari anche solo salutando i bambini malati di un ospedale.

Il buon esempio, secondo lei, quanto conta?

Se avessi combinato scandali, credo che le persone attorno a me non mi avrebbero più creduto. Sono un pantofolaio convinto, non frequento quelli del «mio» ambiente. Non ho comperato la casa a Cortina, preferisco l’Abruzzo, e neppure ho la villa in Sardegna. La mondanità non mi interessa, non mi porta la felicità, probabilmente serve a chi è solo e ha una vita sgangherata.

Che cosa pensa dei reality e delle persone che fanno di tutto per parteciparvi e poi vengono spalmate sui palinsesti?

Ai miei tempi dovevi dimostrare la bravura lavorando sodo nei piccoli spettacoli, che erano una palestra; bisognava faticare, forgiarsi. Adesso ti affacci in tv, diventi improvvisamente famoso e appena esci di casa ti chiedono l’autografo. Ma non è una fama duratura: le serate in discoteca durano una stagione, quella dopo sei già out e poi vengono i guai. I reality sono come le rose: sono belle, ma vivono poco. Comunque ci sono persone che studiano e si impegnano, anche se su cinquanta sono appena due-tre, e non è facile nemmeno per loro.

Qual è il personaggio che ama di più?

Ho girato moltissimi film e interpretato tanti personaggi: ho iniziato come bidello, passato tutti i gradi scolastici e finito da preside, e poi ci sono Nonno Libero e Oronzo. Per strada mi sento chiamare con uno di questi nomi, a volte neppure mi rendo conto che stanno chiamando me e mi urlano: «Ciao mitico!». Quando sono in auto mi riconosce qualcuno e mi grida: «Vieni fuori Canà!» allora abbasso il finestrino e dico «Ciao raghezzi».

Tanti gesti di affetto, che la fanno sentire amato dal pubblico. Anche i calciatori la adorano.

Del Piero una volta mi ha detto: «Il tuo film L’allenatore nel pallone non è un cult, è di più». I giocatori se lo guardano negli spogliatoi quando sono sotto stress, e si fanno due risate. Mi hanno dimostrato stima e amicizia anche in occasione del mio ultimo film: calciatori come Buffon e Del Piero hanno recitato gratis.

E il suo preferito?

Conosco più degli altri il capitano della Roma, mi vuole bene. In queste settimane c’è una gigantografia mia e di Totti esposta a Roma, per sponsorizzare l’uscita del nuovo film.

Quanto è importante la famiglia?

È basilare, viene prima del lavoro. Anzi, alla pari. Quando devo prendere una decisione, riunisco tutta la famiglia e chiedo che cosa ne pensano moglie, figli e nipoti.

Un sogno nel cassetto?

Recitare in un film forte per il cinema, magari sul genere del Borghese piccolo piccolo, una storia che diventa via via più drammatica. Vorrei andare a Cannes o al Festival di Venezia, e come dico sempre ai «miei», se non a Venezia, arrivare almeno a Mestre. Scherzi a parte, sarei molto felice di vincere dei premi e di partecipare a un festival. E chissà che prima o poi…


La scheda. Una vita da comico

Pasquale Zagaria, questo il vero nome del Lino nazionale, nasce ad Andria,
in provincia di Bari, l’11 luglio del 1936. Tra gli attori comici più amati del
Bel Paese, fugge di casa a soli 17 anni, per sfondare nel mondo del teatro prima e dello spettacolo poi. E così si arruola nella compagnia di Arturo Vetrani, che lo scrittura con il nome di Lino Zeda. La notorietà aumenta quando inizia a lavorare a Roma nel locale Puff di Lando Fiorini, dove si esibisce con attori del calibro di
Ciccio Ingrassia, Enrico Montesano, Franco Franchi. Debutta in televisione in Senza Rete con Alberto Lupo e, in seguito, conduce Domenica In, Un Inviato molto speciale, Aspettando Sanremo. Negli ultimi anni, grazie al suo carattere versatile, si cimenta in diversi personaggi, da Nonno Libero a Oronzo Canà, che bucano lo schermo delle famiglie italiane. Grande il suo impegno nel campo del volontariato e in genere del sociale, anche come ambasciatore Unicef.

(M. A.)

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017