L'intervista. Alessandro Castegnaro

Un’indagine, voluta dalla diocesi di Vicenza, realizzata dall’Osservatorio socio-religioso Triveneto e che sarà pubblicata in volume dalla Marcianum Press, mostra i giovani sensibili ai valori morali e religiosi più di quanto ci si potesse aspettare.
26 Aprile 2010 | di

Una di queste ricerche, commissionata dalla diocesi di Vicenza e che riguarda in particolare i giovani, ha messo in luce interessanti novità e presto sarà pubblicata in un volume, dal titolo C’è campo? Giovani, spiritualità e religione, da Marcianum Press. Ce ne parla il professor Alessandro Castegnaro, docente di politica sociale alla Facoltà di scienze statistiche dell’Università di Padova e di sociologia e religioni alla Facoltà teologica del Triveneto, nonché presidente dell’Osservatorio in questione.

Msa. Professor Castegnaro cosa evidenzia di nuovo lo studio da voi condotto sulla religiosità dei giovani?


Quali sono state le modalità con cui avete condotto la ricerca?

Abbiamo dapprima organizzato degli incontri di giovani, attraverso i quali si è cercato di capire che cosa sia per loro la religione, scoprendo che questa parola apre a dimensioni completamente diverse. Nei giovani cattolici impegnati le domande sulla religione richiamano la voglia di parlare dell’esperienza intima della fede; in coloro che hanno preso le distanze dalla fede queste stesse domande aprono una discussione, in genere critica, sulla Chiesa cattolica. Affinché non si sentissero a disagio, siamo andati in casa loro e abbiamo affidato le 72 interviste a giovani intervistatori. Questi ultimi iniziavano il colloquio con i loro coetanei chiedendo: «Che cosa ti interessa nella vita?», «Che cosa è importante per te?», «Che cosa ti prende realmente?». I ragazzi ci hanno fornito delle risposte facendo riferimento alle esperienze della loro vita. Solamente dopo abbiamo introdotto le domande sulla religione. Dare delle immagini sintetiche, elaborare dei «tipi» di giovani, ci è sembrato troppo schematico. Abbiamo visto che queste 72 interviste corrispondono grosso modo a 72 forme di spiritualità che si rivendicano come tali. Ognuno, in un certo senso, ha il proprio modo di credere. Abbiamo trovato, cioè, una spiritualità molto individualizzata.

Questo «fa saltare» il senso di appartenenza alla Chiesa?

Può anche avere come approdo l’adesione alla Chiesa, ma si tratta comunque di una decisione individuale. In altre parole, è finito il cristianesimo sociologico, quello per cui si nasce in un certo contesto sociale e si continua «una fede per tradizione». Oggi chi permane in un gruppo religioso è una minoranza. E lo fa comunque dopo aver vissuto un percorso di distacco, riscoperta e scelta.

Magari poi recupererà la fede nella fase della maturità avanzata?

Qualcuno di loro teo­rizza proprio questo.

Quali altre novità sono emerse a proposito della religione dei giovani?

Non è una situazione di chiusura, ma potremmo definirla di «pendolarismo»: ora mi interessa, ora non mi riguarda; ora sento qualcosa dentro di me, ora non lo sento. In sintesi: ora c’è campo, ora non c’è campo. Quello che oggi manca completamente ai ragazzi sono le occasioni in cui riflettere su questi temi.

Che fine faranno i dati raccolti nelle interviste?

Tutte queste informazioni saranno pubblicate nel volume che uscirà il giugno prossimo per i tipi dell’editrice Marcianum Press. Il volume farà il punto sulle ricerche che abbiamo fatto e raccoglierà tutte queste interviste in cui i giovani si sono raccontati, con serietà e profondità. La ricerca è stata inoltre discussa con i responsabili della pastorale giovanile della diocesi di Vicenza, che ovviamente intende farne tesoro. Ma il senso di questo studio va ben al di là di una realtà specifica.

Quali sono i principali canali di trasmissione della fede?

La famiglia resta il principale canale di trasmissione della fede. E, poiché finora la linea di trasmissione è sempre stata prevalentemente femminile, se cala la fede delle donne gli effetti si ripercuoteranno sulle generazioni future.

Che cosa è emerso da un punto di vista morale?

Non è emerso il vuoto, come si sente dire quasi sempre, bensì un principio fondamentale, riconosciuto da tutti, che può venir sintetizzato nella parola «rispetto». A fondamento di questo principio c’è l’idea che ogni persona ha una dignità che, in quanto tale, va sempre rispettata. L’agire morale è quindi orientato al fondamentale criterio di non procurare sofferenza agli altri. Tale principio implica che ciascuno debba trovare da sé la propria strada e che tutti debbano rispettare questa ricerca. È questo l’unico modo per poter condurre una vita autentica.Noi non possiamo fare a meno di essere liberi e quindi dobbiamo decidere cosa vogliamo fare di noi stessi, rischiando. La scelta individuale diventa qualcosa di sacro. Per questo, da un punto di vista religioso, siamo passati da un «cristianesimo sociologico» a un «cristianesimo elettivo», un «cristianesimo scelto».

Anche in un’altra ricerca, condotta in Val d’Aosta, si mette in evidenza un’alta identificazione dei giovani con il cattolicesimo, ma una bassa partecipazione ai riti e alle associazioni religiose e una forte disaffezione nei confronti della Chiesa.

Conosco la ricerca. Qualsiasi ricerca seria sui giovani va in questa direzione.

Quasi tutti riconoscono il debito che hanno nei confronti della Chiesa e la vedono come un deposito di valori nobili e giusti, ma la traduzione di questi valori in norme non è un passaggio scontato. E qui emerge il problema più importante che i giovani hanno nei confronti della Chiesa: la rappresentazione principale che di essa si fanno è quella di una istituzione impegnata soprattutto a imporre regole e divieti. Un ulteriore problema che non ci aspettavamo di trovare, per lo meno con questa radicalità, è che la Chiesa sembra dare di sé ancora un’immagine di ricchezza e di sfarzo. In un’epoca in cui la ricchezza non incontra più una seria critica sociale e il più ricco del Paese può essere eletto presidente del Consiglio, la diffusione di questo genere di critica non era così scontata. Alla Chiesa però non si concede di essere ricca e la si critica perché la sua ricchezza appare in contraddizione col messaggio evangelico.

Avete chiesto ai giovani se hanno un messaggio da dare alla Chiesa?

Sì e il consiglio fondamentale è stato abbastanza chiaro: «Aprite le porte». Si tratta di una metafora molto evocativa, che significa molte cose. Vuol dire: uscite dalle canoniche e dalle sacrestie, venite in mezzo a noi, non state al di sopra; venite a vedere la nostra vita, condividete e quindi capite. Ma significa anche: aprite gli occhi, guardate la realtà così com’è e non come vorreste che fosse. È un cambiamento di logica quello che i giovani vorrebbero: il problema, secondo loro, è di riportare la Chiesa tra i giovani, non di riportare i giovani nella Chiesa. La preoccupazione primaria non dovrebbe essere quella di non perderli, ma che essi non «si perdano»; lo scopo essenziale non dovrebbe essere che essi ritrovino la Chiesa, ma che trovino se stessi.

Quindi è una ricerca che dà speranza.

In un certo senso, sì. Questi giovani hanno dimostrato molto buon senso, non sono dei materialisti, sono ben disposti verso una dimensione spirituale. Essi vivono molte esperienze di apertura e quindi hanno la percezione che ci sia dell’altro ma, poiché hanno perso la grammatica del religioso, definiscono tali esperienze come qualcosa di genericamente spirituale o si limitano a viverle senza attribuire loro un significato particolare.

Credono nell’aldilà?

Rispetto all’aldilà c’è molta incertezza. La maggioranza dei giovani dice che dopo la morte c’è un qualcosa che continua, mentre solo una minoranza accetta l’idea di risurrezione. Questa viene immaginata più facilmente come sopravvivenza dell’anima, dello spirito e non come risurrezione dei corpi. Di fronte alla morte i giovani avvertono che il loro modo di crearsi delle convinzioni, e cioè l’esperienza diretta, non funziona. Pensano: ciò che ci sarà dopo la morte non potrò mai sperimentarlo, devo allora fidarmi di un racconto che le generazioni precedenti hanno tramandato. Ma fidarsi oggi è difficile. La conseguenza, allora, è una situazione di impasse: la difficoltà a pensare a quello che verrà dopo.

Questa ricerca ha cambiato chi l’ha realizzata?

Questa ricerca ci ha fatto vivere insieme ai giovani e ci ha consentito di conoscere il loro spirito. In qualche maniera ha cambiato il nostro modo di vedere loro e anche noi stessi. Ha permesso anche a noi di capire meglio che cosa significa credere.
Le domande che i giovani ci hanno posto sono domande che ci facciamo tutti. In un certo senso ci hanno dato speranza, perché li abbiamo trovati più aperti di quanto non immaginassimo. Tra di essi non ci sono solo «zucche vuote», come molti credono, ma persone che pensano e che sarebbero interessate a riflettere, anche se, probabilmente, non sempre trovano risposte adeguate.
È necessario quindi un lavoro di vicinanza e accompagnamento, più che di direzione come la si intendeva una volta. E non potranno essere i preti da soli a farlo. Forse saranno i laici e comunque… non senza l’aiuto di Dio.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017