L'intervista. Giovanni Impastato
Ci sono luoghi, e persone, a cui il tempo, qualche volta, restituisce giustizia. Cinisi, in provincia di Palermo, è uno di questi.
Corso Umberto 220. Davanti a una palazzina, solo in apparenza uguale a tutte le altre, un gruppo di giovani discute, pone domande, parla di bellezza. La casa è quella di Peppino Impastato, il giornalista, politicamente impegnato, che sfidò il boss Gaetano Badalamenti dai microfoni della sua «Radio Aut». Per questo suo impegno a favore della legalità, Cosa Nostra decise di eliminarlo. Peppino fu fatto saltare in aria il 9 maggio 1978, lo stesso giorno in cui fu ritrovato il corpo di Aldo Moro. All’inizio, grazie a complicità eccellenti, come emerse più tardi dalle indagini, venne inscenato un suicidio. In seguito, si parlò pure di un tentativo di atto terroristico finito male. Com’era accaduto a Giangiacomo Feltrinelli, nel 1972. Ma non era la verità. Erano tutti depistaggi. Lo si sarebbe accertato dopo, molto dopo.
L’abitazione della famiglia Impastato, in corso Umberto 220, appunto, oggi è la sede della «Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato». È il luogo in cui mafia e legalità, vigliaccheria e coraggio, silenzio e aperto confronto hanno fatto a pugni per anni. Il luogo in cui Peppino è cresciuto e ha maturato la consapevolezza di che cosa volesse dire appartenere a una famiglia di mafia. Ed è il luogo nel quale, ancora oggi, giovani e ragazzi si fermano in silenzio. Appena usciti, parlano di sogni, di impegno, e di grandi ideali. Pieni di stupore e di curiosità. Delle attività di Casa Memoria, ma anche dell’attualità di una figura come quella di Impastato, parliamo col fratello Giovanni. È lui che oggi continua quel progetto di legalità iniziato con Peppino e proseguito da mamma Felicia, scomparsa nel 2004.
Msa. Peppino non è una figura di questo tempo. Eppure riesce a parlare ai giovani di oggi con un’immediatezza tipica dell’attualità. Perché?
Impastato. Quando racconto la sua storia ai tanti giovani, dai bambini agli universitari che passano a Casa Memoria, ogni volta è come se fosse una storia diversa per le tante, inaspettate domande che fanno sulla sua vita. Parlo del suo impegno politico, della militanza, dell’attività di denuncia. E parlo del suo primo «no» alla mafia. Un rifiuto secco, deciso, sofferto, perché era un «no» a nostro padre. Noi eravamo figli di mafiosi. Lo «strappo» per lui fu di quelli che segnano, che rivoluzionano un periodo come quello dell’adolescenza. I giovani sono attratti da quel gesto di rottura, di assunzione di responsabilità, di testimonianza, di coraggio. Sono queste, tra l’altro, le parole che li affascinano, insieme a «sogno» e «bellezza», quel valore al centro del suo famoso discorso – «Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà…» – che continua ad affascinare.
Che cosa rimane della testimonianza di Peppino? Quale eredità una persona, in fondo normale, lascia a noi, persone normali?
Dal punto di vista concreto molte delle sue registrazioni, almeno tre quarti, dopo il sequestro da parte delle forze dell’ordine, sono sparite. Così come la famosa cartelletta con la scritta in matita in cui aveva raccolto materiale sulla strage di Alcamo, nella quale furono uccisi due carabinieri che, come lui, avevano visto troppo e avevano capito. Di lui rimangono le poesie, tante riflessioni, i discorsi. Tra i più amati da giovani e adulti, il discorso sulla bellezza. Ma le persone amavano anche quel suo sguardo che sapeva andare oltre, nonostante tutto. Peppino ci ha lasciato una grande testimonianza di coraggio. Non è tutto perduto. Ancora oggi ci sono tante persone che dicono «no». Ci sono, ad esempio, imprenditori che smascherano i propri estortori, giornalisti che hanno il coraggio di denunciare e vengono minacciati, e ci sono pure tanti magistrati finiti nel mirino della mafia perché stanno cercando di far prevalere la verità. Tutti questi, a cominciare dal singolo cittadino che vede qualcosa che non va e non se ne sta in silenzio, non sono eroi, ma persone normali.
Peppino era candidato alle elezioni politiche che si sarebbero svolte poco dopo la sua morte. Che politico sarebbe oggi?
Avrebbe un rifiuto totale per l’attuale forma di politica. Era legato alla sua idea, ma aveva una visione a 360 gradi su ciò che accadeva fuori. C’è un episodio che lo descrive forse meglio di altri. Un giorno si reca con un compagno sul promontorio che sta sopra Cinisi. Mentre stanno sulla sommità gli dice: «Ma quale lotta di classe? Qui bisogna insegnare alla gente che cos’è un paesaggio prima che venga distrutto». Oggi sarebbe vicino alle persone che, dal basso, promuovono battaglie di civiltà e democrazia.
Giovanni Falcone diceva che «La mafia non è invincibile, è un fatto umano e, come tutti i fatti umani, ha avuto un inizio e avrà anche una fine». È d’accordo?
Casa Badalamenti è stata confiscata tre anni fa, in virtù della legge 109/1996. Mai avremmo immaginato che sarebbe potuto accadere. Così com’era inimmaginabile la condanna di Badalamenti all’ergastolo nel processo Impastato. O ancora che la commissione antimafia avrebbe scritto quella importante relazione poi approvata da entrambi i rami del Parlamento. Il mese scorso anche il casolare in cui mio fratello fu pestato prima di essere ucciso è stato dichiarato «bene culturale». Sarà inserito all’interno del percorso della memoria. Quando parlo ai giovani mi piace affidare loro parole di fiducia e non di rassegnazione, di speranza e non di rinuncia. Do ragione a Falcone, in particolare quando affermava che: «La mafia ha ucciso i migliori servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito e non ha voluto proteggere». La mafia non è stata sconfitta semplicemente perché è mancata la volontà di farlo.
Qual è il ricordo di Peppino a cui è più legato?
Peppino impegnato, Peppino della protesta. Ma a me, suo fratello, piaceva tanto Peppino scanzonato. Uno dei ricordi più belli è legato a quando intratteneva i bambini e si improvvisava «sputafuoco» e cantastorie. I piccoli si staccavano dalla mano della mamma e gli correvano dietro felici, incantati. E lui raccontava loro storie, favole, aneddoti.
Mamma Felicia, donna forte e coraggiosa. Quale momento della sua vita conserva in cuore?
Quando ha avuto la forza sovrumana, l’incredibile coraggio, durante la veglia funebre, di buttar fuori da casa nostra tutti i parenti mafiosi, pronunciando quelle parole che erano un grido di legalità: «Lui non è mio figlio, me lo hanno fatto a pezzettini». Da lì, da quel grido, comincia la sua rivoluzione, e non solo la sua. Comincia tutto.
È da poco diventato nonno. Come racconterà la storia di Peppino a suo nipote?
Sarà un problema. Ma farò il possibile per raccontare questa vicenda a mio nipote Niccolò. Sa chi ha raccontato la storia ai miei figli? È stata mia madre. Io non me la son sentita. Mi ha detto: «Giovanni, non ti preoccupare. Ci penso io». Ha parlato loro di suo figlio in maniera bella e semplice. Allora ci aveva pensato lei, la nonna. Ora, con Niccolò, toccherà a me, il nonno.
NOTES
Cento Passi
La visita si articola nel percorso dei Cento Passi: ha inizio da Casa Memoria e termina all’ex Casa Badalamenti (bene confiscato). All’interno si spiega il significato di Casa Memoria e della battaglia di mamma Felicia per ottenere giustizia in nome di e per il figlio. Si prosegue narrando la vita di Peppino, si mostrano le immagini, i documenti originali, la sua camera da letto. Si stanno arricchendo i Cento Passi con «pietre d’inciampo», o della memoria, che recano frasi di Peppino e di altri eroi antimafia. Il percorso termina all’ex Casa Badalamenti: qui si svolgono mostre, convegni e incontri.
In questo luogo si dice che cos’ è un bene confiscato, quali sono state le attività svolte da Badalamenti, cosa rappresenta l’organizzazione mafiosa e quali sono le sue ripercussioni sulla società civile.
Un film contro il silenzio
Ivan è studente del liceo classico quando si imbatte, per caso, in Peppino. È amore a prima vista. «Era il primo maggio 1997 – racconta –. Avevo 16 anni. Il professore di greco ci portò a teatro a vedere un dialogo su Aldo Moro e Peppino Impastato, uccisi entrambi il 9 maggio 1978. Impastato mi conquistò, anche se ci volle un altro episodio, anni dopo, per convincermi a realizzare qualcosa di concreto». Nel 2006 Ivan – studente di ingegneria – si reca per la prima volta in Sicilia. Ci va come capo scout per un campo estivo. Quando è lì va alla ricerca di quelle radici della legalità, che sente appartenergli. «Mi sono recato sulle tombe di Falcone, Borsellino e Impastato. Ho faticato a trovarle, non tutti sanno dove sono. Quando finalmente sono giunto dinanzi al luogo in cui riposa Falcone, è successo qualcosa che mi ha fatto comprendere che non potevo restare in silenzio. Un padre mi è passato davanti col suo bambino e ho sentito che il piccolo gli chiedeva: “Papà, perché quell’uomo ha tanti fiori, più fiori degli altri?”. Il padre ha tagliato corto: “Era una persona importante”. Non ha aggiunto altro, ed è scappato via. Raccontare chi sono stati Falcone, Borsellino, Peppino, don Puglisi, e non solo loro, in Sicilia è ancora un “reato”».
Da quel momento, tutto cambia. Lo stesso anno lascia gli studi intrapresi per fare il giornalista. Quattro anni dopo si riscrive all’università. Nel 2011 si laurea con una tesi sul giornalismo di Impastato che poi, nel 2013, diventerà un film. Utilizza il crowdfunding (forma di microfinanziamento dal basso) dal momento che un tema così scottante non trova sostenitori. Ivan raccoglie molte testimonianze: i compagni di Peppino, il fratello Giovanni, lo scrittore Carlo Lucarelli, il giudice Giancarlo Caselli, il magistrato Franca Imbergamo e ancora altri. Dopo le proiezioni i ragazzi vogliono sapere, sono curiosi e stupiti. «Aveva 15 anni, Peppino, quando decise di ribellarsi. Più o meno la stessa età in cui io ho conosciuto la sua storia. I ragazzi hanno bisogno di punti di riferimento, uomini e donne normali che, nella vita, abbiano fatto qualcosa di importante».