L'Iraq si dà le regole per costruirsi un futuro
Come un macigno, il problema Iraq continua a gravare sulle relazioni internazionali. E soprattutto sulla pelle del popolo iracheno che, dopo una più che trentennale feroce dittatura, aspira soltanto a costruire in pace e libertà il proprio destino. Ma, favorita dagli errori clamorosi della spedizione militare statunitense - fortemente voluta dal presidente Bush - si è instaurata nel Paese una miscela esplosiva di nazionalismo autoctono e di «jihadismo» (guerra santa fondamentalista) di importazione, che richiederà molti anni per essere disinnescata e spenta. Mentre scrivo questo articolo, non conosco ancora i risultati del referendum del 15 ottobre: se la nuova costituzione è stata approvata dal voto popolare o rigettata (basta, infatti, che i due terzi degli elettori di tre province votino o no per respingerla, e i sunniti, che hanno sollevato forti riserve nei suoi confronti, sono maggioranza assoluta appunto in tre province centrali del Paese, nel famoso - alle cronache quotidiane del terrorismo e della guerriglia - «triangolo sunnita»). Quindi non sappiamo ancora se le elezioni previste il prossimo 15 dicembre saranno per una nuova Assemblea costituente, nel caso di rigetto o, come augurabile, per un regolare Parlamento. La prima Costituzione veramente democratica che conosce l'Iraq presenta molte contraddizioni. L'islam viene dichiarato «fonte principale del diritto» e nessuna legge può contraddire le «indiscusse regole dell'islam» ma, contemporaneamente, si afferma anche che le leggi non possono entrare in contrasto con i principi e le libertà democratiche.
I culti non islamici sono «ammessi» e là dove i cristiani (una minoranza del 3 per cento, circa 1 milione di persone) formano una comunità compatta, come nella pianura di Ninive, hanno il diritto di usare la propria lingua, che è anche l'antichissimo aramaico, la lingua di Gesù.
Potere dello Stato e federalismo
Un nodo non completamente risolto riguarda il rapporto tra poteri dello Stato e federalismo. Nella Costituzione, l'Iraq viene definito uno «Stato democratico fondato su un sistema parlamentare e federale» e le attuali province possono riunirsi a formare un'entità dotata di autonomia. Le risorse petrolifere già scoperte rimangono di competenza dell'autorità centrale, quelle future passano invece alle «federazioni». Da qui il timore dei sunniti, che nel passato hanno fornito la classe dominante ma sono una minoranza numerica, dell'indebolimento o addirittura del dissolvimento del principio di unità e indivisibilità del Paese, che non viene esplicitamente ribadito nella nuova Costituzione, anche se appare sottinteso.
La Costituzione irachena non è certo la «migliore possibile» ma, tenendo conto delle condizioni storico-politiche difficilissime, appare più che accettabile. Le sue contraddizioni sono il riflesso delle contraddizioni tra le diverse etnie e confessioni che dividono la società irachena, quindi risulta un tentativo, più che in sintesi, di equilibrio per la convivenza civile. È da augurarsi l'approvazione nel referendum, anche perché in tal modo proseguirà il processo verso la democrazia, con le previste elezioni legislative del 15 dicembre.
È un curdo il presidente dell'Iraq
Nel nuovo governo emerge la figura del curdo Jalal Talabani: il presidente dell'Iraq è meno importante politicamente del premier, che è uno sciita, ma rimane una carica altamente simbolica. A 71 anni, «mam Jalal», zio Jalal, come viene affettuosamente chiamato dai curdi è uno dei personaggi più moderni del nuovo Iraq. Ex-marxista, ex-peshmerga (partigiano), come gli altri curdi segue un islam sunnita aperto e non dogmatico. Dice, senza timore di ricevere una fatwa (decreto religioso) di morte: «Nel mio frigorifero tengo sempre pronta una bottiglia di champagne per i miei amici stranieri». Se fosse per i curdi, il problema iracheno sarebbe già avviato a soluzione; infatti, nel loro territorio già regna l'ordine e una pacifica democrazia, cessate le lotte fratricide che hanno lacerato anche loro in passato.
Gli sciiti, maggioranza
Gli sciiti, che risultano la comunità maggioritaria, sono percorsi da tentazioni fondamentaliste ma, per fortuna, hanno come guida spirituale il «grande ayatollah» Alì Sistani che, pur essendo di origine iraniana, a differenza di tanti ayatollah iraniani, chiede moderazione e proclama che i religiosi non devono intervenire direttamente in politica.
Restano gli arabi sunniti, che patiscono la loro retrocessione, da classe dirigente che erano tradizionalmente, a minoranza. È nel loro «triangolo» che infuriano terrorismo e guerriglia, alimentati parimenti da nazionalismo e fondamentalismo. Il capo di al-Qaeda in Iraq, il terrorista palestino-giordano Abu Musab al Zarqawi ha definito gli sciiti, che sono come i «protestanti» dell'islam, «i più diabolici fra gli esseri umani» e ha firmato attacchi micidiali ai loro raduni religiosi.
Che pensare, che fare, per aiutare il popolo, o meglio i popoli dell'Iraq? I curdi, che sono entrati in massa nel nuovo esercito iracheno - tra polizia ed esercito il governo democratico può contare su 130 mila uomini, però non ben addestrati e demotivati, a causa dei continui attentati di cui sono bersaglio - affermano di avere necessità di una presenza militare internazionale per altri due anni, al fine di consolidare il potere democratico.
Le forze alleate di stabilizzazione
È, però, ugualmente necessaria una profonda inversione di rotta, se vogliamo che le attuali «forze di occupazione» così definite dall'Onu, che contano su circa 150 mila uomini, tra cui 3 mila italiani) si trasformino in «forze alleate di stabilizzazione» sotto comando internazionale, creando un segno di reale discontinuità con l'attuale comando statunitense, che venga avvertito dai sunniti e da tutta l'opinione pubblica araba. Non dobbiamo illuderci: la lotta contro il fondamentalismo sarà ancora molto lunga - in Algeria ci sono voluti quasi dieci anni all'esercito algerino per venirne a capo - e richiederà il nostro costante impegno e anche una strategia politica più illuminata, che rompa con ogni rischio o tentazione di neo-colonialismo. Lo dobbiamo alle donne e agli uomini del martoriato Iraq.
Simona Torretta, la volontaria di «Un ponte per... » sequestrata e poi liberata, ricorda quanto le ha detto un suo amico arabo: «Sotto Saddam non avevo la parola, ma sogni. Oggi ho la parola ma si sono spenti i sogni». Aggiunge uno dei massimi esperti arabi che vive e insegna in Italia, Khaled Fuad Allam: «Se si darà a questa gente qualcosa per cui vivere, invece che qualcosa per cui morire, allora sarà vinta questa guerra».