L’Italia unita dalla salsa di pomodoro
Dopo Outlet Italia, libro di successo presentato in ben 68 città dello Stivale e che parla di una nazione sfilacciata, dalle relazioni sociali allentate, con enormi potenzialità sottostimate e una classe politica latitante, ecco ora un libro che intercetta la «pancia» degli italiani mettendoli davanti allo specchio. Non per fare del moralismo, ma per aprire futuro offrendo sprazzi di speranza.
Msa. Il tuo viaggio parte da casa, cioè da Alba. Perché cominci da lì a formulare il concetto di noantri?
Cazzullo. La provincia piemontese degli anni ’70 era quanto di più lontano si possa immaginare dall’Italia di oggi. La gente si dava del lei. I maschi non si baciavano sulle guance. Non si mangiava per strada, ma a casa propria, e comunque al chiuso. I miei nonni non avrebbero mai mangiato una pizza: cibo esotico, straniero. In compenso, il sabato sera mangiavano le lasagne al sangue di vitello, che oggi chiunque rifiuterebbe. Ovviamente il cibo è una metafora. La vita nel Piemonte di allora era forse grigia, forse ipocrita, ma sobria e seria. Oggi la stessa Alba pare Taormina: si vive di turismo, si mangia sui marciapiedi, si aprono wine-bar ed enoteche. Il tartufo è una truffa: se fossero davvero «di Alba» tutti i tartufi venduti come tali, ad Alba i tartufi dovrebbero crescere sugli alberi come le ciliegie, anziché nascondersi nella terra. Da quando poi, nel nome «sacro» di Grinzane – uno dei più bei castelli di Langa – e di Cavour – padre della patria piemontese e italiana – è stata perpetrata una gigantesca truffa, noi piemontesi non possiamo davvero più avere la pretesa di insegnare qualcosa al resto d’Italia, e neanche di sentirci così diversi.
Da giovane lasci Alba per studiare a Torino, dove sei assunto a «La Stampa». In che cosa la grande città differiva dalla provincia? Come l’hanno cambiata i meridionali? E com’è la Torino di oggi?
La Langa è terra di irregolari: vignaioli, scrittori, suicidi, giocatori d’azzardo. Torino è città inquadrata, non solo nell’urbanistica: generali, soldati, operai, comunisti, santi sociali. Torino però ha perduto la sua fortissima identità, e quindi la sua diversità. Oggi è una città non dico come tutte le altre, ma di sicuro meno dura e chiusa di un tempo. Viverci è più bello. Ma certo il suo peso politico e culturale non è più quello di una volta. Voglio però essere chiaro su un punto: il mio non è un libro contro il Sud. Non penso affatto che i meridionali abbiano portato al Nord i vizi della loro terra. Penso semplicemente che non esistano due Italie, quella dell’efficienza e quella del malaffare. Perché vedo ovunque gli stessi comportamenti: al Nord come al Sud si evade il fisco, si vede nello Stato un estraneo se non un nemico, si suona il clacson, si urla per strada, si accolgono gli investimenti delle mafie, ci si fa condizionare dalla stessa pessima televisione.
Naturalmente la capitale di noantri è Roma, dove attualmente lavori. In che percentuale ti senti romano?
Amo Roma, non amo la romanità moderna. Questa idea per cui si è tutti amici, o meglio tutti complici. L’idea per cui una persona non si giudica per come è, ma per come si comporta nei tuoi confronti. Questo degrado dei rapporti umani, a Roma è molto evidente: la cortesia è vista come una forma di debolezza, il rispetto degli altri come l’attitudine dei fessi. Detto questo, i romani hanno grandi pregi, come il senso dell’umorismo e un sostrato di profonda umanità.
Una domanda campanilistica: definisci padre Pio «patrono ombra dell’Italia», quindi patrono de noantri. E sant’Antonio?
Conosci i miei sentimenti di devozione e commozione verso sant’Antonio. So bene quanto questa devozione sia diffusa e radicata nel popolo italiano, non solo tra i cattolici praticanti. Ho un legame profondo pure con il sacro convento di Assisi, che custodisce non solo le spoglie ma anche la giusta memoria e la corretta interpretazione della figura di san Francesco, spesso banalizzata da superficialità new age. Ma converrai che il culto popolare ha messo oggi al centro padre Pio. Ho visto l’immagine di padre Pio nella cornice d’argento della foto di famiglia a casa Berlusconi, ad Arcore; la stessa immagine che campeggia sulle fiancate dei tir o nelle corsie d’ospedale. Non c’è nulla di male, per carità: l’interclassismo è da sempre un tratto del cristianesimo; e da sempre la fede incrocia la superstizione. Diciamo che mi consola pensare che sia sant’Antonio sia san Pio sono francescani. Mi chiedo, però, quanti lo sappiano.
Nel libro ti diletti in comparazioni culinarie, facendo fruttare il tuo vagabondare di giornalista. Alla fine, salta fuori che il pomodoro è il vero simbolo nazionale. Possibile?
Se un italiano ha una macchia sulla camicia, è una macchia di pomodoro. Al Nord il pomodoro un tempo si usava poco, così come la pasta non erano gli spaghetti o i maccheroni ma le tagliatelle o i ravioli: non grano duro ma pasta all’uovo. Pure la cucina è un segno dell’egemonia culturale del Sud. Anche se poi sulle strade di tutta Italia si mangiano gli stessi panini precotti degli autogrill.
In che senso la Lega è il modello del partito de noantri?
Noantri è la parola chiave dell’Italia di oggi, unificata dalla prevalenza di Roma e del Sud eppure mai così divisa in clan, campanili, famiglie, fazioni, gruppi. Che cos’è la Lega se non un gruppo di amici? Con questa logica si è espansa: la Lega, che ora supera il 10 per cento in Emilia, è nata attorno al gruppo di amici di Bobo Maroni, che suonano con lui al festival del soul di Porretta Terme. Nella Lega non contano le regole, conta il rapporto personale; proprio come nella secolare cultura del Sud. E cosa c’è di più «mediterraneo», nel senso oleografico del termine, di un Bossi che festeggia per tre volte una laurea mai presa?
Veniamo al Cavaliere di Napoli, alias Berlusconi, al quale dedichi un intero capitolo. Perché questa figura così carismatica e discussa ci aiuta a capire la situazione presente dell’Italia?
Berlusconi, entrato in politica come il simbolo dell’efficienza meneghina, da presidente del Milan campione d’Europa, supera il 50 per cento solo in Sicilia ed è ossessionato da Napoli: i rifiuti e Apicella, i consigli dei ministri spostati nel Palazzo Reale e le serate con le ragazze del comitato «Silvio ci manchi», l’inceneritore di Acerra e la festa di compleanno di Noemi Letizia. Il Pdl si meridionalizza, al Nord cede voti alla Lega, però conquista la Campania. Berlusconi è un elemento unificatore dell’Italia di oggi: neppure la Dc era rappresentata sul territorio in modo così uniforme come il suo partito. E neppure il duce ha lasciato nella mentalità degli italiani un’impronta così profonda.
In che senso?
Non voglio fare paragoni storici impropri: fascismo e berlusconismo sono due fenomeni lontani, non solo nel tempo. Ma è stato lo stesso Berlusconi a far notare che la sua durata politica avvicina ormai quella di Mussolini. Il duce, però, aveva l’ambizione di trasformare gli italiani, di farne un popolo guerriero, al servizio dello Stato; la fine è nota. Berlusconi non ha mai avuto la pretesa di cambiarci. Berlusconi ci somiglia. Lui ha «aderito» agli italiani; e in questo modo ha finito per cambiarli più di quanto non abbiano fatto vent’anni di retorica fascista. Anche perché Berlusconi entra in politica non spuntando quasi dal nulla, come il duce, ma avendo conquistato e cambiato profondamente i due pilastri della vita pubblica italiana: la tv e il calcio.
La Chiesa è l’unica realtà a cui non applichi il principio interpretativo di tutto il libro: non esiste allora una Chiesa de noantri?
La Chiesa è universale per definizione. Quindi è l’antitesi dell’Italia de noantri. Ed è un motivo di speranza. Avrei voluto dedicare un intero altro libro ai «pazzi di Dio», come definisco i religiosi che ho incontrato, dai cardinali ai preti di strada: tra i pochi a essere portatori di radicalità, di convinzioni profonde, di verità. Poi alla Mondadori mi hanno fatto notare che un libro sull’Italia di oggi in cui non ci fosse la Chiesa sarebbe stato incompleto. Così ho scritto questo capitolo, che è un po’ un libro nel libro (non a caso è il più lungo). Parlo di prìncipi della Chiesa come Ruini, Scola, Martini, Caffarra, e di «pretacci» come don Benzi o don Vitaliano Della Sala. Poi c’è la figura controversa di don Gelmini. La storia di don Massimo Camisasca, figura centrale di Comunione e liberazione. E poi ci siete ovviamente voi francescani.
Nel capitolo sui pazzi di Dio si dà sostanzialmente un giudizio positivo sulla presenza sociale e pubblica della Chiesa in Italia. Perché allora ha tanta fortuna il ritornello dell’ingerenza?
Perché la Chiesa è diventata un argomento polemico. Difesa strumentalmente dalla destra, che non ha un patrimonio autonomo di idee e valori, e attaccata altrettanto strumentalmente dalla sinistra, profondamente divisa e confusa al suo interno. Parafrasando un inno politico: «Meno male che in Italia la Chiesa c’è».
La scheda
Aldo Cazzullo nasce ad Alba (Cuneo) nel 1966. Ha 17 anni quando inizia a lavorare in un piccolo giornale di provincia, «Il Tanaro»; collabora poi con il settimanale diocesano «La Gazzetta d’Alba». Trasferitosi a Milano per frequentare la scuola di giornalismo, nel 1988, all’età di 22 anni, viene assunto nella redazione de «La Stampa», all’epoca diretta da Gaetano Scardocchia, dove resterà per 15 anni, occupandosi prevalentemente di politica e spettacolo. Nel 2003 passa al «Corriere della Sera», testata presso la quale tuttora lavora. Si impone all’attenzione del pubblico divenendo a breve uno dei giornalisti italiani più apprezzati.
È autore di dodici saggi scritti a partire dal 1996, che ben fotografano i cambiamenti a livello politico e sociale affrontati dal nostro Paese negli ultimi decenni. Tra i suoi libri più famosi: Testamento di un anticomunista (Mondadori, 1998) e il più recente Outlet Italia. Viaggio nel Paese in svendita (Mondadori, 2007).
Curiosità
La copertina del libro di Aldo Cazzullo, L’Italia de noantri. Come siamo diventati tutti meridionali, richiama un cartone per la pizza (nella foto, l’effetto è stato accentuato grazie a una rielaborazione grafica).