L’Italia in valigia

Donata dal Club femminile per ricordare che gli emigrati hanno diffuso nel mondo usi, costumi, tradizioni, storia, cultura e made in Italy.
05 Giugno 2000 | di

Vancouver, B.C.
«Perché la valigia, simbolo perenne d'emigrazione, tenga viva la memoria della nostra storia»: così dice la dedica. La valigia non è di cartone o di tela, non di cuoio né di rigido materiale plastico. Non è nemmeno una «diplomatica»: il messaggio che contiene è prezioso ma chiaro e diretto. È una valigia di legno: un pezzo unico scavato da un tronco di cedro rosso delle foreste dell'ovest canadese. È talmente fedele all'ipotetico originale da vibrare di calore: l'illusione ottica è perfetta. È stata realizzata nel 1996 da Tony Mazzega, la cui testimonianza umana e artistica era stata illustrata su queste pagine un anno fa. Chissà  - ci chiedevamo - se nel realizzare Suitcase  , opera ricca di simbolismi, lo scultore si era ispirato alla valigia usata 42 anni prima per emigrare in Canada?* Da gennaio essa è parte integrante della biblioteca del Centro culturale italiano di Vancouver. È stata acquistata dal locale Club femminile per farne dono alla comunità . «Il tempo passa - ha dichiarato la presidente, Gemma Scotton - ma noi non dovremmo mai dimenticare la nostra origine, il passato migratorio nostro o dei nostri genitori, e l'incommensurabile e faticoso lavoro da loro svolto. D'altra parte, questo stesso Centro è stato costruito da quelli giunti qui con una semplice valigia. Il mondo intero ha una propria storia migratoria, iniziata come la nostra, ossia portando pochissime cose rinchiuse in una ridotta valigia, piena però di sogni e di delusioni».
Anche stavolta le donne italocanadesi della sponda del Pacifico richiamano alla concretezza e alla realtà : prima di tutto se stesse (com'è avvenuto da 22 anni ad oggi **) ma anche chi rincorre disegni strategici intesi ad imporre nuove formule di italianità  poco sentite da chi, nel mondo, nuovo non è. Quanti sulla propria pelle hanno vissuto drammi, fatiche e solitarie conquiste, non possono essere d'accordo sulla volontà  di ibernare la parola «emigrazione» e con essa il significato di un passato-presente la cui storia completa e vera non è ancora stata scritta. Il gesto delle donne sta a significare autocoscienza e rispetto della verità : non certo inutile nostalgia o rifiuto di evolversi coi tempi.
Perdere la memoria del passato, per rincorrere progetti estranei al proprio divenire esistenziale, può costare la perdita della propria identità  di persone in laborioso cammino nei continenti e attraverso il tempo. Non è un buon esempio per figli e nipoti, ormai integrati nelle patrie di appartenenza: nessuno di loro deve turbarsi per il fatto di discendere da emigrati.
D'altra parte, basta guardarsi intorno: nell'era della globalizzazione la mobilità  umana è in vertiginoso aumento. Le migrazioni, siano esse forzate o volontarie, portano con sé opportunità  di scambi tra popoli diversi per cultura, nazionalità , razza e religione. Emigrare significa uscire dalla propria terra per andare altrove; ma significa anche uscire da se stessi, dalle proprie certezze e dai propri egoismi, per inserirsi in mondi nuovi e sconosciuti, nei quali farsi accettare dimostrando capacità  e volontà  di partecipazione.
«Ero straniero, e mi avete accolto...», ci ricorda il Vangelo. È l'esperienza di coloro che, racchiuse in un fagotto o in una valigia le cose più care, si sono messi in cammino cercando accoglienza, pane e pace. Volenti o nolenti, hanno accettato di far parte di realtà  diverse da quelle di origine, per non sentirsi degli ibridi in eterna mutazione. Il mondo degli uomini e della speranza si espande grazie a chi condivide valori importanti di fede e umanità , prima ancora che beni materiali.

* cfr. Arte a colpi di Mazzega, Messaggero di sant'Antonio, Luglio/Agosto 1999
** cfr. Il martedì delle donne, Messaggero di sant'Antonio, Aprile 1999.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017