Lo depose in una mangiatoia
È stato certamente il gesto più affettuoso e protettivo che Maria potesse fare in quel frangente. Mettere il bimbo Gesù, così minuscolo, al sicuro, nel luogo dove gli animali vanno quotidianamente a nutrirsi, una specie di culla fatta di assi intrecciate, morbida quanto lo sono abbondanti ciuffi di fieno. Quando ero piccolo, noi ragazzi si andava spesso a giocare nelle stalle delle mucche e mi piaceva seguire le operazioni che portavano a riempire la greppia con cibo fresco, a forconi pieni; mentre per avere l’acqua gli animali dovevano schiacciare il muso dentro un recipiente fornito di una leva, che subito si riempiva. Allora non mi ha mai sfiorato l’idea che la mangiatoia fosse un luogo così strategico in ordine alla salvezza, e solo quando ho cominciato a studiare la Scrittura mi sono reso conto che l’evangelista Luca in poche righe ripete per ben tre volte questo termine, così come del fatto che in latino la parola praesepium (il nostro «presepio») significa alla lettera mangiatoia. Anche se nessuno di noi, quando in famiglia è tempo di fare il presepio, pensa alla mangiatoia, e generalmente il bambino Gesù non è lì che viene deposto. Gli abbiamo creato una comoda culla – per modo di dire – sotto i riflettori, un piccolo trono di paglia, perché il bambinello dispensi a tutti il suo sorriso e tutti renda felici.
Ma la storia non finisce qui. Leggendo le vibranti e commoventi pagine del recentissimo libro di Benedetto XVI L’infanzia di Gesù, mi sono imbattuto in un passo che fa al caso nostro. «La mangiatoia è il luogo in cui gli animali trovano il loro nutrimento. Ora, però, giace nella mangiatoia Colui che ha indicato se stesso come il vero pane disceso dal cielo, come il vero nutrimento di cui l’uomo ha bisogno per il suo essere persona umana. È il nutrimento che dona all’uomo la vita vera, quella eterna». Il Papa sposa un’interpretazione del testo biblico – a prima vista quasi sconveniente – data da sant’Agostino, secondo il quale nella figura di Gesù deposto da Maria nella mangiatoia si prefigura il dono del pane di vita per la salvezza del mondo. Con l’incarnazione il cibo divino che nutre e sostiene l’uomo si offre a tutti e a ognuno nella persona del Salvatore. Incontrando Lui anche la fame più profonda può essere placata, la sete che brucia i troppi deserti del mondo trova ristoro, l’inquietudine che indurisce i cuori viene sanata. Vi è una curiosa etimologia della parola Betlemme, il paese dove Gesù nasce, che suona così: casa del pane. Non c’è bisogno di aspettare la lavanda dei piedi, il gesto umile con cui Dio stesso si pone a servizio degli uomini, perché fin da subito, da quando Maria «lo depose in una mangiatoia», il Dio bambino è lì per noi.
Molti secoli dopo, in pieno Medioevo, c’è un’altra mangiatoia su cui puntare l’attenzione, quella sulla quale Francesco d’Assisi, nel paesello di Greccio – correva l’anno 1223 – volle fosse celebrata l’eucaristia della notte di Natale. Proprio così! Nessun neonato a interpretare Gesù bambino, come nessuno recitò la parte di Maria e Giuseppe, perché gli ingredienti della scena si ridussero all’essenziale: una mangiatoia (che fece da altare, qui la novità!) contornata da un asino e un bue. Quello che i posteri chiamarono impropriamente il primo presepio – prospettiva che ha ottenuto ampia audience – era un modo singolare attraverso il quale il santo di Assisi unì in un’unica e inscindibile immagine l’incarnazione, cioè il farsi piccolo, umile e povero di Dio, all’eucaristia, il mettersi di Dio nelle mani, a disposizione, dell’uomo. «Lui che era ricco sopra ogni altra cosa – scrive Francesco – volle scegliere la povertà». Cari amici, chi non sperimenta l’umiltà di Dio non può comprendere il Natale. Colui che abita nell’alto dei cieli si fa incontrare, da tutti, dentro una mangiatoia, per nutrire la vita e dispensare gioia.