L’odissea di Mohammed dall’Afghanistan all’Italia

Un bambino afghano perde la sua famiglia in un bombardamento, ma promette alla madre di raccontare al mondo che cosa sta avvenendo nel suo Paese. Comincia così un viaggio disperato che dura due anni. Il ragazzo oggi è approdato a Roma.
23 Maggio 2007 | di

Puoi avere vent’anni e sentire sulle spalle il peso di tante vite. Quella di un’infanzia interrotta all’improvviso. Quella di un nomade in fuga, tra le montagne ai confini dell’Europa. Quella di un esule in Grecia e infine, oggi, quella di un mediatore culturale in Italia.
Questa è la storia di Mohammed Jan Azad, afghano di etnia hazarà. Ma è anche quella di centinaia di ragazzi che, come lui, in questi anni, stanno continuando ad abbandonare l’Afghanistan.
«Avevo sei anni. Sono andato a scuola. Al ritorno ho trovato la mia casa distrutta: era stata colpita da una bomba. Mia madre e i miei fratelli erano sepolti sotto le macerie. Presi il braccio di mia madre, le sollevai la testa. “Sei mio figlio – mi disse –. Hai bevuto il mio latte. Ora devi andare e raccontare che ci sono persone al mondo che vivono come noi”. Per questo, appena ho potuto, a undici anni, ho lasciato l’Afgha-nistan».
Mohammed Jan Azad ha capelli lisci, lunghi e neri. Oggi può raccontare la sua storia ai volontari e agli operatori che lavorano nei servizi dedicati all’immigrazione.
Mohammed vive a Roma e si occupa di mediazione culturale per l’associazione di volontariato «Casa dei diritti sociali». Il suo primo impatto con la città avviene alla stazione Ostiense, come per tutti gli afghani che arrivano nella capitale con mezzi di fortuna. Trova la prima sistemazione sotto i porticati o nei giardinetti poco lontani, poi nelle tende offerte dall’associazione «Medici del mondo». È un accampamento abusivo, costantemente a rischio di sgombero, in una piccola area recintata di proprietà delle Ferrovie. Uno spazio di accoglienza nato dalla necessità di dare risposta a un esodo silenzioso e continuo che dura da mesi, come testimoniano tutte le associazioni che operano nel settore.
All’inizio di quest’anno gli afghani rappresentavano il 70 per cento degli ospiti della mensa del «Centro Astalli», uno dei servizi che i gesuiti offrono ai rifugiati. Su 525 ragazzi stranieri contattati in dieci mesi dall’unità di strada di «Save the Children», la metà proveniva dall’Afghanistan. Anche i dati dell’ultimo rapporto dell’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani, segnalano che il numero dei minorenni stranieri non accompagnati sta crescendo ogni anno e accanto ai «tradizionali» Paesi di provenienza – Romania, Marocco e Albania – aumenta proprio il numero dei minori afghani.


Un percorso infinito fuggendo dalla guerra

«In Afghanistan la guerra dura da trent’anni. I ragazzi vanno a combattere in montagna a dodici anni. Molti abbandonano il Paese e passano per i campi profughi del Pakistan e dell’Iran, dove si fermano per anni perché, per proseguire verso la Turchia, bisogna pagare cifre che sfiorano i tremila dollari», spiega Mohammed Jan Azad. I giovani afghani che lasciano il Paese sono di etnia hazarà, un gruppo che oggi sfiora il 19 per cento della popolazione: si tratta di musulmani sciiti discendenti dai mongoli. Sono considerati eretici e vengono perseguitati da anni dal regime fondamentalista sunnita a maggioranza pashtun, il gruppo maggioritario.
Le diverse vite di Mohammed Jan Azad sono passate per una serie di tappe quasi obbligate per chi, come lui, decide di lasciare il Paese. La prima è l’Iran. «Cercavo un posto dove poter raccontare le parole di mia madre. In Iran non conoscevo nessuno e quando guardavo gli altri negli occhi, non mi davano neanche qualcosa da mangiare. Poi ho trovato una famiglia afghana che stava peggio di me. Ero molto piccolo, ho vissuto con loro fino a quando sono cresciuto. Tutte le notti, prima di addormentarmi, pensavo alle parole di mia mamma». Dall’Iran Mohammed parte alla volta della Turchia. «Ero affamato, guardavo gli altri ragazzi che andavano a scuola con i loro genitori. Li vedevo con le famiglie, mentre io ero seduto in un parco solo come un cane. Un giorno ho trovato una persona che mi ha proposto di andare a lavorare nella sua fabbrica. Facevo le pulizie in cambio di qualche soldo».
Dopo aver raccolto un piccolo gruzzolo, Mohammed sceglie di tentare il tutto per tutto: prende un’imbarcazione e con un gruppetto di amici cerca di raggiungere la Grecia. «Tutti pensano sia un’idea folle: gonfiare un gommone e andare con esso dalla Turchia in Grecia. Ma in tanti, disperati come me, ci provano. Quella notte eravamo in quattro. Al largo le onde erano alte. Un nostro compagno è caduto in acqua e nessuno ha potuto fare niente per salvarlo: è affogato sotto i nostri occhi». In Grecia la polizia dà il benvenuto ai ragazzi sbarcati prendendo loro le impronte digitali e tenendoli chiusi in un centro di accoglienza. «Mi hanno fotosegnalato e ho avuto un documento. Appena ho potuto sono scappato verso l’Italia». Il viaggio di Mohammed ha seguito le orme di tanti giovani afghani che cercano una vita diversa in Europa. È un percorso fatto in condizioni estreme, ai limiti della sopravvivenza: questa durezza spiega perché le donne, sebbene vivano in condizioni più disagiate rispetto agli uomini, non tentino la fuga. Si viaggia dall’Iran alla Turchia, attraversando le montagne, pericolosissime e innevate durante l’inverno. Quindi si prosegue per la Grecia, a bordo di un piccolo scafo o di una carretta del mare. Alla fine si tenta lo sbarco in Italia, di nuovo con un mezzo di fortuna, trovato a caro prezzo dai «signori» della tratta umana. Si viaggia negli angoli nascosti di un traghetto di linea o nel sottofondo del rimorchio di un camion trasportato sulle navi commerciali.
«Ancona, Bari, Brindisi e Venezia sono state interessate da questo fenomeno, come dimostrano i dati che riguardano i porti collegati alle rotte delle navi passeggeri provenienti dalla Grecia», dice Margherita Gandini, autrice del volume Dentro un camion. Voci dall’Italia e dalla Grecia di minori afghani separati. In un secondo momento anche Roma ha assistito a un incremento repentino di presenza di ragazzi provenienti dall’Afghanistan, seguita da Milano, Bologna e da alcuni centri dell’Umbria e delle Marche.
«Purtroppo, spesso i ragazzi non escono neppure dal rimorchio del camion e ignorano la meta del loro viaggio, che talvolta si conclude in modo drammatico: quando i clandestini vengono scoperti sono in uno stato di disidratazione e di shock emotivo» spiega la Gandini.
L’esodo di massa dall’Afghanistan è cominciato nel 2001, ma allora la meta finale del viaggio era il Nord Europa, in particolare la Norvegia e la Finlandia, dove le politiche di accoglienza nei confronti degli afghani presentavano condizioni favorevoli. Le cose, però, sono cambiate quando questi due Paesi hanno cominciato ad applicare norme più restrittive in materia di asilo. E così l’Italia, negli ultimi anni, è entrata in questa rotta della speranza che ormai segna il pianeta da Est a Ovest.
Mohammed Jan Azad vive a Roma da due anni. Non ha più avuto notizie dei suoi familiari. La mattina studia, il pomeriggio lavora. Un giorno spera di laurearsi. «Altrimenti continuerò a fare il muratore e il mediatore culturale – racconta –. Ho affrontato montagne piene di neve, deserti e mari agitati. Paure e difficoltà. Ora ho solo voglia di ritrovare i miei e di dimenticare il passato». Ma durante la settimana, di sera, non tralascia di tornare alla stazione Ostiense, a incontrare i nuovi arrivati dal suo Paese: per dare informazioni, per indicare una strada e per dire, a chi si sente con l’acqua alla gola, che oltre il dolore c’è ancora una speranza.    


Notes

Diritti negati: i minori rifugiati

Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) il fenomeno dei minori stranieri non accompagnati riguarda la metà delle persone rifugiate nel mondo.
Sono ragazzi ai quali «è stato sottratto il diritto alla vita, alla salute, alla sopravvivenza, allo sviluppo, il diritto a crescere in una famiglia ed essere nutrito e protetto, il diritto a un’identità e a una nazionalità reale, il diritto all’istruzione e ad avere prospettive per il futuro». Il termine coniato di recente e in uso in diversi Paesi europei per descrivere la condizione di questi minori è separated children, cioè «minori separati».
Il dibattito in corso in diversi Paesi è sul tipo di accoglienza e di assistenza da riservare a questi ragazzi a maggiore rischio di sfruttamento da parte del circuito dell’illegalità. È fondamentale fornire loro informazioni all’arrivo, evitare il ricorso alla detenzione e il respingimento alle frontiere.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017