L’Onu affronta le sfide del millennio
In questo inizio di settembre i capi di stato e di governo di tutto il mondo stanno raggiungendo a Manhattan, New York, la sede dell' Onu per quello che si preannuncia come «il vertice del millennio». Se non il più importante per la storia, sarà certo il più rappresentativo. I punti all' ordine del giorno sono stati indicati, sin da aprile, nel rapporto del segretario generale Kofi Annan. E sono «punti» che delineano tutte le principali sfide di questo inizio di secolo e di millennio, per il nostro mondo. Come imparare a governare la «globalizzazione». Come lottare più proficuamente contro la povertà estrema. Come prevenire e affrontare i conflitti, ridurre le armi. Come coniugare lo sviluppo sostenibile con la difesa dell' ambiente. Come porre le nuove tecniche informatiche al servizio del dialogo e della democrazia.
Il progetto è molto ambizioso: ridisegnare le Nazioni Unite per renderle capaci di affrontare queste sfide con maggiore efficacia. L' Onu non è, né vuole diventare (almeno per il momento) un governo mondiale, però è pur sempre il luogo dove tutti i maggiori problemi internazionali si riflettono e possono trovare un momento di equilibrio, di conforto, anche di soluzione.
Nel suo rapporto, Kofi Annan ha indicato proposte concrete e obiettivi. Dimezzare, prima del 2015, la povertà estrema: oggi 1 miliardo 200 milioni di persone vivono, o cercano di sopravvivere, con meno di un dollaro al giorno, duemila lire. Ricordo l' indignazione di alcuni leader del Terzo mondo, durante il vertice mondiale sull' alimentazione del novembre 1996, perché lì si parlava di «dimezzare» anziché abolire i malnutriti, i «dannati della Terra»: indignazione moralmente comprensibile, come però è anche comprensibile che disparità tanto tragiche e profonde non siano casuali e quindi richiedano realisticamente tempo e impegno per essere affrontate e risolte.
Un altro dossier aperto, sul quale si sono già cimentati gli esperti, è come affrontare le missioni armate di pace e rendere più efficaci le sanzioni contro regimi colpevoli di aggressioni. Sinora le sanzioni e gli embarghi internazionali - vedi il caso dell' Iraq di Saddam Hussein e della Yugoslavia di Milosevic - hanno colpito solo i popoli, lasciando indenni o addirittura rafforzati (e arricchiti col «mercato nero») i capi. Verranno quindi presentate misure alternative definite «più intelligenti» e, si spera, anche più efficaci.
Ma, per diventare più operativa, l' Onu deve riformarsi al suo interno. Da troppo tempo è all' ordine del giorno la riforma del Consiglio di Sicurezza, il principale organo deliberante che diventa determinante quando si tratta di decidere - e di intervenire - di fronte a crisi internazionali. Eredità della seconda guerra mondiale, perché accoglie come membri permanenti (dotati dell' anacronistico «diritto di veto») i «Cinque Grandi» del tempo. Gli statunitensi vorrebbero continuare a farne un «club delle super potenze», cooptando altri cinque «grandi» dai vari continenti (tipo Germania, Giappone, India, Brasile, Nigeria) mentre l- Italia si è fatta coraggiosamente interprete dei tanti soci «medi» delle Nazioni Unite, proponendo una serie più ampia di membri permanenti a rotazione, scelti sulla base della rappresentanza regionale, ma anche dell' impegno a favore dell' Onu. In più c' è la proposta di far diventare membro permanente l' Unione europea come tale, non un singolo paese.
L' Africa sta morendo. L' attuale segretario generale Kofi Annan è un africano nato in Ghana, con lauree e specializzazioni ottenute in paesi occidentali e negli Usa. Scherzando, dice: «Parlo inglese con accento francese». È quindi più che comprensibile che dedichi al suo continente d' origine una speciale attenzione, anche perché è lì che si concentrano tensioni, guerre, fame e malattie.
Ormai è sicuro che il più terribile flagello del XX secolo, quello che più turba l' immaginazione, l' Aids, è partito dall' Africa negli anni Settanta. E l' Africa rimane la più colpita. Nell' ospedale di Bangui, capitale della Repubblica centro africana, il 65 per cento dei letti è occupato da ammalati di Aids. In Sud Africa ogni giorno si aggiungono altri 1500 contagiati. In Zimbabwe, causa l' Aids, la speranza di vita è crollata da 61 a 49 anni. Ma nel «continente nero» si muore, a migliaia e a decine di migliaia, per malattie che altrove sono curabilissime, come la tisi o la dissenteria o per malattie specifiche, come la tripanosomiasi o «malattia del sonno», che in alcune regioni rivaleggia con l' Aids nelle statistiche.
Alle malattie si aggiunge il flagello dell' uomo: dei cinquantasei paesi dell' immenso continente, meno di cinque non sono stati funestati da colpi di stato o da guerre nell' ultimo ventennio. C' è chi ha scritto che «il vero guaio dell' Africa sono le sue ricchezze»: i diamanti (la metà della produzione mondiale), i cosiddetti «metalli nobili» (concentrati in Sud Africa), l' oro e l' oro nero, il petrolio che dalla Nigeria scende lungo la costa sino alla Namibia.
Dopo la fine della «guerra fredda», sul controllo e lo sfruttamento di queste ricchezze naturali si sono concentrate molte strategie economiche e politiche dell' Occidente sviluppato. Quanto agli africani, già negli anni Sessanta l' agronomo francese René Dumont, che aveva combattuto contro il colonialismo del suo e degli altri paesi europei, esclamava: «l' Africa è partita male» per significare che le élites africane andate al governo stavano ripetendo i vecchi errori o, addirittura, li amplificavano a favore degli interessi di casta e di potere. Un veterano africano delle lotte di liberazione, recentemente ha espresso un desolante commento: «La gioventù africana si trova davanti a un passato muto, a un presente cieco e un futuro sordo».
Dove si combatte. In Sierra Leone una guerriglia crudele si alimenta appunto col commercio dei diamanti (e con complicità sia africane sia extra). Fra Eritrea ed Etiopia la guerra dei confini (per il predominio regionale) si riaccende periodicamente. Nel Congo democratico di Kabila si vive il seguito di quella che è stata definita la «prima guerra mondiale fra africani».
In Zimbabwe il padre (invecchiato) dell' indipendenza, Mugabe, ha preteso di prorogare il suo vacillante potere cavalcando la tigre dell' occupazione delle terre dei farmers bianchi, che contribuiscono in maniera determinante all' esportazione di cotone del paese. E in tante altre parti focolai bruciano ancora, dall' Angola al Sudan, dalla Somalia al Burundi.
Gli interventi armati di interposizione o per riportare la pace da parte dell' Onu talvolta sono stati un mezzo successo (come in Guinea e Liberia), più spesso un fallimento, come in Somalia (1992-94) o in Ruanda, dove non hanno prevenuto il genocidio dei tutsi (nel 1994). E come hanno rischiato di finire più recentemente in Sierra Leone. Dopo l' esperienza negativa della Somalia, gli occidentali e gli Usa esitano a impegnare proprie truppe sul terreno. Ma la truppe africane convocate negli interventi successivi, specie nigeriane, si sono rivelate male armate, prive di supporti logistici, sovente troppo inferiori agli «irregolari» che dovevano fronteggiare. Francesco Paolo Fulci, che fu già nostro ambasciatore all' Onu, scrive senza mezzi termini: «Se l' Onu cerca la pace, impari a fare la guerra».
Cose non molto differenti chiede anche Kofi Annan, che lamenta la lentezza con cui le misure sul campo, specie in casi di urgenza, seguono alle rivoluzioni. Nel suo rapporto l' Africa è l' unico continente a cui viene dedicato uno specifico capitolo, dal titolo «Integrare l' Africa». Si parla di come promuovere una vera «rivoluzione agricola» che altrove (nell' Asia) è riuscita nei decenni passati. Altre iniziative strategiche sono già state delineate o suggerite: la remissione dei debiti (in cambio di trasparenza e democrazia), il libero accesso ai nostri mercati dei loro prodotti agricoli, lo «sconto» da parte delle multinazionali delle medicine del costo dei brevetti sui medicinali, per renderli accessibili a intere popolazioni altrimenti condannate a morire. Queste alcune delle cose che può fare l' Onu, e che possiamo fare, dando il nostro contributo, anche noi. Ma, come ci ricorda la campagna «Chiama l' Africa» che ha percorso la nostra penisola con mostre, incontri, manifestazioni, dal 1997 al 1998, spetta soprattutto agli stessi africani, quelli che già si impegnano nelle mille iniziative della società civile in formazione, quelli che resistono ai signori della guerra e agli illeciti arricchimenti, dare una svolta al futuro del loro continente.