L'Onu: sessant'anni e la riforma mancata
La sessantesima Assemblea generale dell'Onu dello scorso settembre, che avrebbe dovuto approvare una sostanziosa quanto necessaria riforma dell'Organizzazione in occasione dei suoi sessant'anni di vita (giugno 1945), si è conclusa in modo per molti versi deludente. Ne abbiamo parlato con monsignor Celestino Migliore, Nunzio apostolico e Osservatore permanente della Santa Sede all'Organizzazione delle nazioni unite.
Msa. Come valuta l'esito della sessantesima Assemblea generale dell'Onu? Molti hanno parlato di una riforma mancata, di un'occasione perduta. Chi ha vinto e chi ha perso?
Migliore. Lo stesso Kofi Annan vi ha visto, a ragione, la bottiglia mezza piena. La posta in gioco era ambiziosa. Iniziato il dibattito sulla riforma dei modelli di sicurezza, di sviluppo, di democrazia, di rispetto dei diritti umani, ci si è presto accorti che le parole e le proposte traducevano modelli culturali assai diversi, talora troppo distanti, per consentire un accordo nei dettagli. La globalizzazione ci ha accomunati e ravvicinati a tanti livelli, ma sembra anche aver riportato in superficie una grande e irrequieta frammentazione culturale. Nell'esercizio condotto sin qui dall'Onu, direi che ha vinto la volontà di non rassegnarsi alla deriva di tanti aspetti della coesistenza umana e di impostare un dibattito che dobbiamo tener vivo e rendere produttivo.
Kofi Annan ha invitato tutte le parti a guardare ai temi della riforma dell'Onu, alla pace e allo sviluppo in termini più vasti dell'interesse nazionale. Un appello caduto nel vuoto?
È nella natura delle istituzioni intergovernative rappresentare interessi nazionali, per lo più di tipo economico, riguardanti il settore privato. È qui soprattutto che l'Onu deve essere riformata, affinando gli strumenti e le modalità del negoziato per individuare in ogni questione il bene comune da porre al centro del dibattito.
Pace, sviluppo e diritti umani. Che cosa resta ancora da fare secondo lei, e come possono operare l'Onu e le sue agenzie?
Molto rimane da fare. È sotto i nostri occhi quanto siano precari la pace, lo sviluppo e i diritti umani. L'Onu, che non ha potere coercitivo, a volte mostra la sua impotenza costituzionale nel prevenire o risolvere con tempestività guerre o situazioni endemiche di povertà . Ma lavora silenziosamente su tanti fronti. E produce molto. Pensiamo all'opera di armonizzazione giuridica e di sicurezza della Commissione antiterrorismo, ai risultati delle diciotto operazioni di mantenimento della pace in altrettanti Paesi, all'attività dei Tribunali penali internazionali, che, pur non lavorando al massimo delle aspettative, stanno diffondendo un senso di fiducia nella giustizia e di deterrenza dell'impunità .
Si pensi, inoltre, alla Convenzione sui diritti del fanciullo e quella dei disabili attualmente in cantiere e altro ancora poco conosciuto e presto dimenticato.
Tra le novità uscite da questa sessantesima Assemblea generale, c'è l'istituzione del Consiglio per i diritti umani, e della Commissione per il peace-building: una pagina nuova nei rapporti internazionali oppure un cammino irto di ostacoli?
A livello istituzionale la novità è relativa. Il Consiglio per i diritti umani, se adottato, rimpiazzerà con qualche miglioria l'omonima Commissione. La Commissione per la pace riunirà in sé funzioni già assegnate ad altri organismi. Dalla Seconda guerra mondiale la devastazione morale e materiale delle guerre ci ha posto una nuova urgenza: accanto allo jus ad bellum, cioè criteri che pongono paletti precisi all'uso della forza da parte di un'autorità costituita, e allo jus in bello, le norme da rispettare in guerra, occorre sviluppare e potenziare lo jus post bellum, ovverosia l'effettiva costruzione di una pace giusta e duratura, che rappresenta la sola ragione per l'uso della forza.
Come agirà questa nuova Commissione di pace?
Cercherà principalmente di ricomporre la pace nei Paesi investiti da conflitti. Il rapporto del segretario generale, Kofi Annan, prevedeva invece l'adozione di precisi criteri per legittimare il ricorso alla forza, già individuati da sant'Agostino e san Tommaso. Il documento finale del Vertice non ha recepito la proposta in modo esplicito, ma si limita a sottolineare l'importanza che, in questo campo, si agisca in accordo con le finalità e i principi della Carta dell'Onu.
Molti osservatori hanno sottolineato che ci sono ancora profonde lacune sul versante dei diritti umani e della tutela ambientale. Qual è la posizione della Santa Sede?
Per la tutela ambientale, nell'intervento della Santa Sede si è invocata un'inversione di tendenza: occorre considerare l'economia nella prospettiva dell'ambiente e non viceversa. Se distruggiamo l'ambiente, verrà a mancare la base dell'economia, in gran parte ancora legata all'agricoltura, all'acqua, alle risorse naturali in genere. Dei diritti umani, la Santa Sede ha ribadito la dimensione universale e la loro stretta connessione con i doveri per disinnescare il cosiddetto scontro di civiltà e di culture. La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo è così flessibile da prevedere diversità di sottolineature ma non al punto da consentire che diritti umani fondamentali vengano ignorati o vanificati nella subordinazione ad altri diritti o pretesi diritti.
Dal documento approvato dalla sessantesima Assemblea dell'Onu è scomparso il punto sulla non proliferazione nucleare e sul disarmo: l'inizio di una seconda «guerra fredda»?
Ci sono elementi che rendono purtroppo possibile anche questa lettura. Tuttavia, pur riconoscendo il fallimento della Conferenza di revisione del Trattato sulla non proliferazione nucleare, nel maggio scorso, e il silenzio sull'argomento nel Vertice di settembre, occorre dire che non tutto è così catastrofico. Negli ultimi due anni, si sono aggiunte ventiquattro ratifiche al Trattato che mette al bando gli esperimenti nucleari, riducendo così i tempi per l'entrata in vigore dell'accordo. Nel frattempo, aumentano gli appelli e le pressioni in favore di prolungate moratorie.Cresce il numero delle aree territoriali che vengono dichiarate libere dalla presenza di armi nucleari. L'attività multilaterale non si è fermata: basti pensare ad alcuni progetti di risoluzione introdotti nella presente sessione dell'Assemblea generale e intesi ad avviare una nuova impostazione del discorso.
Terrorismo internazionale, guerra in Afghanistan e in Iraq hanno insanguinato il mondo. Sperimentato il fallimento della logica delle armi, con quali strumenti affrontare le sfide della convivenza tra culture diverse, soprattutto tra islam e Occidente?
I fatti ci dicono che nella lotta al terrorismo promettono risultati soprattutto la cooperazione internazionale dei servizi di sicurezza, la gestione a livello mondiale della finanza e dell'economia, delle politiche dello sviluppo e della democrazia, lo smantellamento di false ideologie. Nell'anno in corso si è parlato molto, qui a New York - e in termini anche operativi - del contributo che le religioni possono, e sono pronte a dare, per favorire un clima di comprensione e cooperazione tra le culture e le civiltà .
Dalla tribuna dell'Onu, soprattutto l'Unione europea ha invitato a realizzare gli impegni sottoscritti nel 2000 per sconfiggere, entro il 2015, fame, povertà , malattie; per ridurre la mortalità infantile e per assicurare ai bambini l'educazione primaria. Resteranno solo belle parole?
Che non si tratti solo di belle parole, lo dimostrano alcuni dati confortanti. Nei Paesi sviluppati la situazione è sotto controllo, e anche in quelli in via di sviluppo non si registrano solo insuccessi e ritardi. La diagnosi condotta in questi mesi alle Nazioni Unite e le soluzioni prospettate, invitano a non contare solo sui grandi progetti, sugli investimenti astronomici e sulle grandi organizzazioni, ma ad avvalersi del microcredito e dell'opera di coloro che, forti della presenza sul territorio, della conoscenza delle situazioni locali e della solidarietà con le popolazioni, possono fornire aiuti dal basso, assicurare che l'assistenza internazionale giunga alle comunità locali, aiutare le popolazioni a diventare esse stesse protagoniste del proprio sviluppo, mirando alle loro esigenze reali, e potenziandone le legittime aspirazioni. Tutto questo presuppone, ovviamente, che i Paesi beneficiari assicurino buon governo e lotta alla corruzione. Questa linea di pensiero e d'azione è una costante dell'insegnamento sociale della Chiesa. La si ritrova già espressa nell'Enciclica Populorum Progressio del 1967 e continua a ispirare efficacemente la cooperazione allo sviluppo integrale condotta da migliaia di associazioni cattoliche nel mondo.