L’oratorio per tutti
A tutti gli effetti è una seconda casa; anche se per abitarla non serve pagare Tasi o Imu, né staccare un assegno a cinque zeri. Sono trascorsi oltre 460 anni da quando san Filippo Neri fondò a Roma il primo oratorio con l’intento di affiancare le nuove generazioni nel percorso di crescita. Oggi la felice intuizione rappresenta un riferimento per molti giovani, ma anche per le loro famiglie. In un’epoca dominata dalla frammentazione e dal declino delle relazioni autentiche, «l’oratorio offre ai ragazzi la possibilità concreta di trovarsi, stare vicini e sperimentarsi in un’appartenenza» spiega don Marco Mori, presidente del Forum oratori italiani.
Lo sanno bene in Piemonte e Lombardia, dove la tradizione degli oratori ha radici profonde, ne sono consapevoli anche al Centro e Sud Italia, dove negli ultimi tempi le «palestre» di comunità stanno spuntando come funghi. «Ogni anno in Italia le attività estive degli oratori movimentano le giornate di quasi due milioni di giovani e circa 250 mila animatori. Solo in Lombardia sono 90 mila i ragazzi iscritti ai grest (gruppi estivi parrocchiali). Anche se non esiste un censimento ufficiale, si calcola che nel nostro Paese siano attivi almeno 8 mila oratori».
Tra le regioni più ricettive, oltre a quelle del Nord, svettano Campania e Sicilia. Senza scordare l’Umbria che, dai dieci oratori di sei anni fa, oggi ne conta una novantina. «Il bello dell’oratorio è che non ha una formula unica, ma si basa su pilastri (partecipazione, concretezza, senso di comunità in vista del bene comune) che, a seconda del contesto, danno vita a infinite variazioni sul tema». Cambiano modi e forme, ma l’idea di fondo resta sempre la stessa. «L’oratorio è il luogo dell’accoglienza e dell’incontro per definizione. In esso non esistono barriere, perché si tratta di una realtà continua e rivolta a tutti, specie a chi ha più bisogno, a prescindere dal colore della pelle o dal credo religioso». Come qualsiasi altra costruzione che si rispetti, però, questo «ponte tra la Chiesa e la strada» – per dirla con le parole di Giovanni Paolo II (Discorso ai giovani di Roma, 5 aprile 2001) – richiede di tanto in tanto qualche lavoretto di «restauro» che lo tenga al passo coi tempi. «Col termine “oratorio” – continua don Marco Mori – intendiamo un’idea educativa, ma anche un luogo fisico fatto di spazi e modalità concrete. Proprio questa concretezza, per mantenersi tale, necessita di sperimentazioni sempre nuove».
L’evoluzione dunque è inevitabile: se nel XVI secolo la tradizione filippina mirava a coinvolgere nella celebrazione liturgica i ragazzi – attraverso giochi e canti – per toglierli dalla strada, oggi la priorità è svegliare le nuove generazioni dal torpore e dall’isolamento a cui la globalizzazione, nonché l’abuso di tecnologia, le hanno abituate. Riavviarle, insomma, a un «alfabeto della relazione». Ma per fare ciò è necessario coinvolgere i primi responsabili della loro educazione: i genitori. Non a caso, l’oratorio del futuro va proprio in questa direzione: «Se è vero che non può diventare un “familiatorio”, perché i ragazzi hanno bisogno di uno spazio tutto loro – conclude don Marco Mori –, la sfida è di trasformarlo in un luogo capace di accogliere e accompagnare tutta la famiglia, ma su binari distinti e consapevolmente dosati».
La tradizione a Nord
Cosa avranno mai in comune con l’oratorio dodici ragazzini di etnie diverse, un gallo segnavento e una profezia funesta? Apparentemente nulla, se non fosse che stiamo parlando degli elementi chiave di un cortometraggio che proprio in un oratorio ha visto la luce. L’opera in questione – trenta minuti di avventura e suspence girati dai giovani della parrocchia di San Faustino a Brescia – è frutto di due anni di laboratorio cinematografico e, nel 2011, ha vinto l’International migration art festival. Ma Il gallo di Ramperto, questo il titolo del video diretto da Silvia Cascio e Vittorio Bedogna, è solo uno dei molti successi che il «sistema oratorio» negli ultimi anni ha messo a segno nel Nord Italia.
Senza andare tanto lontano, spostiamoci nel quartiere bresciano di Chiesanuova, dove da qualche anno l’omonima parrocchia, in collaborazione con il Comune, organizza lo Spacebook. Accattivante di nome, ma anche di fatto, questo servizio – attivo tutti i pomeriggi da settembre a maggio – coinvolge una quarantina di ragazzi tra i 12 e i 16 anni, d’origine italiana e non, in attività ludiche e teatrali, di studio e formazione. L’obiettivo, in linea con la tradizione oratoriana, è quello di educare e offrire punti di riferimento in un contesto sociale che cambia di continuo. Non a caso, l’iniziativa parte proprio da un ambiente multiculturale come Brescia: di recente la presenza straniera nella città lombarda ha sfiorato il 35 per cento, con una varietà di etnie che va da quella africana alla cinese.
«Papa Francesco lo dice di continuo: il confronto con le altre realtà ci arricchisce – spiega don Luca Danesi, curato alla parrocchia di Chiesanuova Noce –. Così come la Chiesa, dunque, anche l’oratorio dev’essere aperto al suo territorio. Incontrando il prossimo esso veicola il messaggio di accoglienza che Gesù ci ha portato». Se i giovani – «meno legati ai preconcetti» – l’hanno capito bene e lo dimostrano partecipando con entusiasmo alle attività di Spacebook, «sul diffidente mondo degli adulti c’è ancora molto da lavorare».
A Chiesanuova, però, l’impresa è già a buon punto: intorno al progetto Spacebook ruotano 110 laici tra educatori, addetti ai servizi e catechisti. Alessandra Zani è una di questi ultimi. Da circa nove anni collabora con la sua parrocchia, prima part-time, ora che ha perso il lavoro, a tempo pieno: «Il servizio in oratorio mi ha dato tutto: soddisfazione, senso di appartenenza, amicizia. Per questo non intendo lasciarlo. Qualora riuscissi a trovare un nuovo impiego, si dovrebbe trattare di un ruolo conciliabile con quello che svolgo per la Chiesa». Quarantotto anni, un marito e una figlia, Alessandra Zani è testimone di come la figura del laico all’interno dell’oratorio sia passata da marginale a protagonista, guadagnando man mano un ruolo educativo essenziale per la formazione delle nuove generazioni. «Rispetto al passato i ragazzi oggi sono molto più esigenti – conclude la catechista –. Spesso, infatti, soffrono circostanze familiari complicate e sono privi di punti di riferimento». L’oratorio può offrirgliene uno, «l’importante è investire buona volontà, passione e tempo per realizzare una struttura improntata sul dialogo, nel rispetto delle varie culture e delle scelte religiose. Una struttura al cui centro sta sempre e comunque Cristo».
La scommessa del Centro e del Sud
Un anfiteatro romano immerso nel verde di un grande parco. Una settantina di ragazzini scatenati e venti animatori che ne scandiscono la giornata con giochi ed esercizi ginnici, preghiere, laboratori musicali, teatrali e di giardinaggio. Giugno 2014: il centro estivo dell’oratorio di Santa Croce in Gerusalemme, a Roma, è appena partito, ma promette già bene. Vuoi per la location a ridosso delle mura aureliane e della Basilica che conserva le reliquie della passione di Gesù, vuoi per la formula «esperienziale» che – in linea col metodo del Centro oratori romani – mira a far vivere in prima persona il messaggio evangelico. Una bella scommessa per Ilaria Sorrentino che due anni fa ha accettato l’incarico di creare dal nulla l’oratorio di Santa Croce in Gerusalemme in una zona a forte presenza di ortodossi e a scarsa partecipazione cattolica.
«Proprio l’altro giorno abbiamo dovuto spiegare il segno della croce a bambini battezzati. Su una settantina di piccoli solo trenta sanno recitare il Padre Nostro» racconta la coordinatrice. «È spaventoso», ma questo è anche il bello della nuova evangelizzazione: partire da zero, mettendo tutti sullo stesso piano. Più facile a dirsi che a farsi, specie quando entrano in gioco le dinamiche familiari: «Spesso il messaggio educativo che veicoliamo all’oratorio non trova corrispondenza con quello trasmesso dai genitori. Col risultato che, mentre noi animatori dobbiamo farci carico dei problemi che i ragazzi hanno a casa, le mamme e i papà tendono a considerare questi nostri spazi come un parcheggio per i figli». Serve dunque correre al riparo con l’aiuto del dialogo e della condivisione. «Lo scorso inverno abbiamo organizzato una gita genitori-figli a Chiesa Nuova (la chiesa romana di Santa Maria in Vallicella). Insieme abbiamo giocato, pranzato e visto un film su san Filippo Neri. E questo è solo l’inizio – conclude Ilaria Sorrentino –. Il prossimo anno coinvolgeremo ancor più i genitori, aumenteremo gli spazi e i tempi, nella certezza che, se c’è buona volontà, in gruppo si può costruire qualcosa di positivo».
A quasi settecento chilometri da Roma un’altra realtà testimonia il crescente bisogno di dare spazio ai giovani in una terra che, fino a una decina d’anni fa, dell’oratorio conosceva a mala pena il nome. Un teatro da duecentodieci posti, stanze, saloni e un campo da calcetto: non ha nulla da invidiare al modello lombardo il centro giovanile allestito da padre Dario Mostaccio assieme ai fedeli della parrocchia di Santa Maria Immacolata Olivarella, a San Filippo del Mela, in provincia di Messina. Nato dalle ceneri di un asilo dismesso, per diventare operativo l’oratorio ha richiesto l’accensione di un mutuo. I lavori di ristrutturazione sono proseguiti «a spizzichi» per nove anni.
Oggi il centro raccoglie circa duecento tesserati: non solo giovani dai 6 ai 22 anni, ma anche adulti e anziani che tra le mura di via Nazionale «si sentono – precisa padre Dario – a casa loro». «In questo luogo si cresce umanamente, attraverso il gioco e la condivisione, ma anche cristianamente, con i cammini di formazione che la parrocchia promuove – prosegue il religioso –. Questa nostra realtà va a contrastare inoltre gli equilibri negativi del territorio: i ragazzi hanno finalmente un punto di riferimento e non stanno più sulla strada», gli anziani combattono la solitudine giocando a carte e le famiglie si ritrovano durante le feste. Precoce esempio di sinergia tra società, territorio e Chiesa al Sud, l’oratorio di Santa Maria Immacolata Olivarella oggi non è più un caso isolato. «Dal 2007 solo nella diocesi di Messina venticinque parrocchie hanno imbastito un oratorio partendo da zero – conclude padre Dario –. E ogni anno se ne fanno avanti altre due o tre, chiedendo corsi di formazione per avviare l’attività. Siamo all’inizio di un cammino». Un cammino tanto bello quanto ripido. Ma dopo la salita viene sempre la discesa. E allora non resta che stringere i denti e sorridere, perché il meglio deve ancora venire.
H₂O, forum ad Assisi
Si chiama H₂O e la sua presenza per i giovani cattolici è essenziale quasi quanto quella dell’acqua per la sopravvivenza umana. Stiamo parlando del Secondo Forum degli oratori, in programma ad Assisi dal 4 al 7 settembre. A due anni dalla prima edizione (H₁O nelle Diocesi di Brescia e Bergamo), l’evento organizzato dal Forum degli oratori italiani in collaborazione con la Pastorale giovanile della Cei si rivolge a tutti gli animatori e ai responsabili di oratorio intenzionati a vivere un momento di scambio, formazione e programmazione. Tema di questa edizione: il rapporto tra l’oratorio e la sua comunità. Inoltre, data la location, è prevista una digressione sullo spirito francescano. Quali sono i punti in comune tra quest’ultimo e lo spirito dell’oratorio? Può san Francesco essere considerato un «ragazzo da oratorio»? Lo scopriremo a settembre…
IN BUONA COMPAGNIA!
di fra Fabio Scarsato
L’incontro con l’altro, il diverso da noi, è per forza di cose sempre impossibile? Ecco il racconto di un campo scuola davvero speciale, la storia di quaranta ragazzi e di dieci animatori, per metà cristiani e per metà musulmani, uniti sotto il segno di una Chiesa che non ha paura.
Molte nostre chiese dedicate a santi martiri sono paradossalmente «memoriale» di incontri mancati, finiti drammaticamente nel sangue: perenne monumento all’inconciliabilità di mondi, culture, religioni, diversi tra loro. In quel momento, qualcuno ha pensato che per difendere se stesso avrebbe dovuto «negare» e cancellare l’altro che aveva di fronte, e dal quale, a quanto pare, si sentiva minacciato. E noi canonizziamo gli uni, e mandiamo all’inferno gli altri. Dopo di che, ci comportiamo esattamente nello stesso modo. Ma l’incontro con l’altro, il diverso da noi (che può essere l’immigrato, ma è già l’uomo o la donna con cui condivido la mia vita di ogni giorno, o il vicino di casa), è per forza di cose sempre impossibile? L’altro viene sempre a mettere in dubbio le mie sicurezze, o mi aiuta a essere ancora più sicuro dei miei valori, proprio perché li ho potuti mettere in discussione serenamente? Per capire meglio di che cosa stiamo parlando, ecco il racconto di un campo scuola interreligioso, vissuto in una parrocchia del Trentino mentre chi scrive la guidava. Un’esperienza bella. Senza nessuna intenzione di perdere la bussola del rispetto reciproco e di se stessi. Il che vuol dire stare lontani, il più possibile, da sincretismi, pasticci vari o buonismi.
Premesse «reali»…
Premesse reali nel senso della disponibilità e nell’ascolto attento di un «reale» che incrocia la nostra strada e ci chiede una presa di posizione. Che forse vuol dire lo sforzo di captare una parola divina che si traveste non di Sacra Scrittura ma di accadimenti, di fatti.
Un gruppo di giovani della parrocchia e della comunità islamica chiedevano che non si mollasse ma, per certi versi, si continuasse a sognare. In quel periodo i mass-media ci tenevano aggiornati quotidianamente su varie comunità cristiane perseguitate in giro per il mondo, in particolare musulmano. Sentivamo di chiese bruciate, cristiani ammazzati in odio alla loro fede, persecuzioni anche verso altre religioni. Che fare? E se una risposta, parziale, ingenua, ma pur sempre meglio di niente, fosse proprio quella suggerita dai nostri giovani? E cioè tentare un’altra strada, parlare altre parole, rischiare qualcosa, almeno per quel che ci competeva ed era alla portata di mano delle nostre limitate possibilità? Se si trattasse proprio di non cedere a un pessimismo che ci vuole tutti nemici di tutti, impauriti e anche ecclesialmente chiusi nel nostro «cenacolo» in attesa che la burrasca passi? I giovani hanno così cominciato a frequentarsi regolarmente, alternativamente in moschea e in parrocchia, in un lungo percorso di conoscenza e di stima reciproca. Dove la propria rispettiva fede era il «motivo» di quell’incontrarsi, fatto di narrazione e ascolto, provocazioni e domande, momenti di festa e di invito alle reciproche preghiere.
Senz’altro, a fare la differenza di questo percorso e della sua fattibilità, è stato il fatto di essere entrati in contatto con un interessante gruppo di musulmani, giovani della seconda generazione e quasi tutti studenti universitari, e «moderati», soprattutto dell’area del Maghreb, con un forte bisogno di essere riconosciuti, mentre nell’immaginario generale sembrano esistere solo i musulmani integralisti (che effettivamente esistono, eccome!). Desiderosi, come dire?, di qualcuno che tenda loro una mano, si permetta uno sguardo diverso e non pregiudiziale nei loro confronti. Persino desiderosi di «imparare» con noi come si potrebbe fare a essere credenti in questo mondo così ostile e qualunquista.
Campo scuola interreligioso
Arriviamo così al dunque. Dopo alcuni mesi di incontri, tutti tra l’altro autogestiti dai giovani stessi, si cominciava a sentire il bisogno di trovare un modo di concretizzare il percorso fin lì fatto.
L’idea è stata quella di organizzare un campo scuola, proprio come quelli delle nostre parrocchie, ma che nel suo obiettivo ultimo, educativo e spirituale, fosse interreligioso. Non semplicemente interculturale, ma proprio interreligioso, dove cioè si andasse a «toccare» ciò che ci caratterizza profondamente come cristiani o musulmani, ma che non si ha mai il coraggio di affrontare assieme, preferendo fermarci sulla rispettiva soglia: la fede in Dio.
Ed è così partita l’avventura del campo: quaranta ragazzi, metà cristiani e metà musulmani, dieci animatori, anch’essi metà e metà, una settimana tutti assieme. Attraverso innumerevoli altri incontri, anche con le famiglie dei ragazzi, si è molto lavorato sulla preghiera, sul linguaggio e su tutte quelle modalità che ci avrebbero permesso, anche attraverso il gioco, di far fare ai ragazzi un’esperienza di amicizia e di fede. Si è, per esempio, deciso che ogni giorno ognuno avrebbe pregato secondo la propria tradizione, ma, almeno una volta al giorno, avremmo tentato anche una preghiera assieme (dopo aver individuato alcuni «temi comuni»: Dio creatore, la misericordia di Dio, l’uomo a cui Dio affida il compito di rendere santo questo mondo, ecc.).
Avevamo pensato anche di permettere ai ragazzi di ognuna delle due confessioni di assistere al momento di preghiera più importante dell’altra. Così i ragazzi musulmani hanno potuto assistere alla nostra celebrazione della santa Messa, e i nostri ragazzi alla preghiera musulmana del venerdì. I ragazzi ci hanno però sorpreso, chiedendoci di aiutarsi reciprocamente: ed è stato un vero momento di grazia assistere a giovani musulmani che aiutavano quelli cristiani ad addobbare di fiori l’altare per la Messa e a preparare la croce; e giovani cristiani che aiutavano quelli musulmani a pulire il terreno e stendere i tappeti per la loro preghiera! Le cinque preghiere quotidiane dei musulmani ci hanno persino «costretti» a recuperare momenti di preghiera che in realtà appartengono anche alla nostra tradizione, insegnando, per esempio, ai nostri ragazzi la preghiera dell’Angelus a mezzogiorno o le tradizionali preghiere del mattino e della sera! Che bello: aiutarsi perché ognuno preghi ancora meglio nella propria tradizione! Alla fine del campo, abbiamo potuto con serenità e orgoglio – perché ormai ci stimavamo e ci conoscevamo un po’ di più – proclamare le nostre diversità: all’ultima preghiera assieme, prima di salutarci, noi cristiani abbiamo letto il vangelo della risurrezione di Gesù, mentre i musulmani le sure del corano relative all’unicità di Dio e del suo profeta Maometto.
Non abbiamo certo risolto minimamente i problemi del dialogo cristiano-musulmano, né alleviato di un grammo le sofferenze dei cristiani perseguitati. Ma forse abbiamo testimoniato una Chiesa che non ha paura, che sa incontrarsi con chiunque, che annuncia serenamente a tutti ciò in cui crede, e riconosce con gratitudine i semina verbi che, come direbbe il martire Giustino, lo Spirito ha seminato e semina ovunque. Come «contenitore» del campo abbiamo scelto la «compagnia dell’anello», tratta dal famoso libro di Tolkien (Il Signore degli anelli, ndr): ci piaceva l’immagine di questa scalcinata e per certi versi improbabile compagnia, fatta da persone molto diverse tra di loro (hobbit, uomini, elfi, nani), ma unita da uno stesso scopo (distruggere il male). E, alla fine, dopo momenti anche di scontro o incomprensione, diventata amicizia sincera e cordiale: «Chi l’avrebbe mai detto, un nano che muore accanto a un elfo?». «E che muore accanto a un amico?». «Questo sì, lo posso accettare…» (dal dialolo tra Legolas e Gimli, Il Signore degli anelli, ndr).