L'«oro nero» è in buone mani
San Paolo
Il Brasile è letteralmente seduto sopra un autentico tesoro. Lo confermano ogni settimana articoli e inchieste giornalistiche delle più autorevoli testate internazionali, economiche e non.
Il tesoro sul quale dorme il presidente Lula – e con lui tutto il popolo brasiliano – si chiama petrolio. Una parola magica che, solo a pronunciarla, evoca ricchezza e potere a livello planetario. Anche se, in qualche caso, evoca paure, guerre e disordini. Dal secondo semestre del 2006 non passa mese senza che i geologi scoprano nuove e inaspettate quantità di «oro nero» e gas naturale di ottima qualità, al largo delle coste brasiliane, da Santa Catarina all’Espirito Santo. Scoperte così incredibili (sono le più importanti del mondo, negli ultimi decenni), che hanno fatto esclamare a un presidente Lula raggiante di gioia: «Dio è brasiliano!», rispolverando un noto detto popolare.
In effetti, si tratta di un’enorme fortuna. È come se uno di noi vincesse il primo premio della lotteria nazionale. Solo che, in questo caso, è un intero Paese ad aver vinto la lotteria. Il problema, adesso, è di riuscire a riscuotere la vincita. Perché il tesoro brasiliano non solo si trova a una grande profondità, ma è «tappato» da uno spesso strato di massa salina.
Se fino a pochi anni fa questo poteva costituire un ostacolo insormontabile, le tecnologie estrattive sviluppatesi di recente consentono di tirar fuori dalle profondità oceaniche tutto quel «ben di Dio». Bisogna, però, fare i conti con i costi, che sono proporzionati rispetto alle difficoltà da superare. Si tratta di investire migliaia di miliardi di dollari, cifre che rappresentano l’intero prodotto interno lordo di molti Paesi europei. Nessun Paese si potrebbe permettere di investire così tanto da solo, nemmeno gli Stati Uniti o la Cina.
In questo scenario, bisogna aggiungere che il Brasile è già leader mondiale nella produzione di biocarburanti (principalmente di etanolo) e che, da almeno due anni, è uno dei pochi Paesi al mondo ad aver raggiunto l’autosufficienza a livello energetico.
Anche senza tener conto dei nuovi immensi giacimenti, fra una decina d’anni il Brasile sarà sicuramente fra i primi cinque protagonisti globali quanto all’energia integrata con 5,7 milioni di barili di greggio al giorno produrrà più del doppio di quanto riesca a fare oggi il Venezuela, leader sudamericano nel settore degli idrocarburi.
Per intenderci, è come se a vincere la lotteria fosse uno che è già benestante di suo.
È chiaro, allora, che il tesoro custodito nei grandi fondali dell’offshore, un tesoro così immenso che non ne è nemmeno ipotizzabile l’entità, ponga dei grossi dilemmi di carattere economico, politico ed etico. Le decisioni prese oggi incideranno in maniera determinante sul futuro del Brasile, nei prossimi decenni.
Al centro di tutto questo bailamme c’è la Petrobras, il colosso petrolifero (ma sarebbe meglio dire energetico) che per il 55,7 per cento è di proprietà dello Stato. Il timone dell’azienda è nelle mani di José Sergio Gabrielli, altro autorevolissimo esponente di quell’interminabile lista di brasiliani che hanno origini italiane e ne vanno estremamente fieri.
José Sergio Gabrielli
Nato a Salvador, nello Stato di Bahia, nel 1949, Gabrielli ha studiato all’Università federale di Bahia, per poi perfezionarsi alla Boston University e alla London School of Economics and Political Science. In gioventù è stato un convinto attivista del Partito dei Lavoratori (PT). Una militanza che gli è costata sei mesi di carcere durante il regime militare, ma che allo stesso tempo lo ha temprato caratterialmente, tanto che il suo spirito battagliero è una delle virtù che anche gli avversari gli riconoscono.
Rientrato in Brasile dopo gli studi all’estero, Gabrielli si è dedicato all’insegnamento di Macroeconomia nella stessa Università che lo aveva visto studente, ricoprendo l’incarico di direttore della facoltà di Scienze Economiche e di prorettore. Poi, nel 2003, la chiamata – di quelle alle quali è difficile dire di no – da parte del presidente Lula, che gli propone la carica di direttore finanziario e dei rapporti con gli investitori del colosso Petrobras, la più grande impresa brasiliana. A metà del 2005, infine, arriva l’ambitissima ma non facile poltrona di presidente.
Pur avendo un curriculum privo di qualsiasi esperienza alla guida di grandi gruppi industriali, Gabrielli ha sorprendentemente dimostrato di avere le idee molto chiare, a partire da un punto chiave: «le Aziende hanno l’obbligo di guidare il progresso sociale». E partendo da questo presupposto, la Petrobras, che usciva da un periodo difficile ed era notoriamente considerata poco rispettosa dell’ambiente, è riuscita a diventare leader globale nel campo della sostenibilità.
Sotto la guida di Gabrielli, la società ha affrontato con decisione i temi della performance ambientale, migliorando la propria cultura e le proprie attività operative, influenzando i propri fornitori e diventando pioniera nelle energie rinnovabili. Determinante, secondo Gabrielli, è il ruolo del management aziendale, al quale viene chiesto di dirigere dando il buon esempio. Così, non è affatto raro trovare i topmanager della Petrobras «sul campo» in mezzo alle maestranze, per tenere sotto controllo i fattori ambientali, sanitari e di sicurezza. Un altro requisito importante, sempre secondo Gabrielli, è la promozione di comportamenti ambientalmente compatibili anche al di fuori dell’azienda. E per fare questo la Petrobras mette in competizione le sue migliaia di fornitori, affinché dimostrino la loro eccellenza ambientale, che viene valutata con un punteggio. I contratti se li aggiudica solo chi ottiene i punteggi più alti.
Stima, fiducia, ammirazione e rispetto: questi sono i valori fondamentali con i quali il mercato internazionale identifica, oggi, la Petrobras. Secondo una recente ricerca effettuata in 32 Paesi dal «Reputation Institute» di New York, è arrivata ad essere la quarta industria al mondo con la più alta reputazione. Solo qualche anno fa era relegata intorno al centesimo posto.
Una reputazione costruita non solo con il rispetto per l’ambiente, ma anche con un’attenta politica etica e sociale nei confronti dei dipendenti e più in generale della popolazione brasiliana. Sono più di 100 mila i dipendenti diretti, ma molti di più gli indiretti e coloro che lavorano nelle 240 società controllate dalla capogruppo in 30 diversi Paesi. Da qualche anno Petrobras aderisce al progetto «Global Compact» dell’Onu, un protocollo sul rispetto dei diritti e delle condizioni di lavoro del personale dipendente; investe enormi quantità di danaro in progetti sociali come «Fome Zero»; attua campagne di sensibilizzazione sulla sicurezza nei luoghi di lavoro; sponsorizza migliaia di progetti culturali in tutto il territorio brasiliano.
In pochi anni di gestione, il manager di origini lucchesi è, dunque, riuscito nell’impresa di far cambiare faccia a una storica azienda di Stato che, fondata nel 1953, ha agito in regime di monopolio fino al 1997. Oggi, per le sue dimensioni e l’importanza strategica delle attività nelle quali è coinvolta, è senza dubbio il miglior biglietto da visita del Brasile nel mondo.
Di questo, e delle enormi responsabilità connesse, José Sergio Gabrielli ne è consapevole. «Dirigere la Petrobras – sono le sue parole – è per me un grande onore, come lo sarebbe per qualsiasi cittadino brasiliano. Ma rappresenta anche una delle più alte responsabilità alle quali possa essere chiamato un manager, in Brasile e nel mondo. La Petrobras è una grande compagnia petrolifera. Ma il Brasile è ancora più grande».