L'ottimismo non basta

Intervista a padre Graziano Tassello, direttore del Centro Studi e Ricerche Pastorali Emigrazione di Basilea, e presidente della Commissione Scuola e Cultura del Cgie.
19 Febbraio 2009 | di

Roma
Segafreddo. Quali sono le caratteristiche peculiari della frastagliata galassia dei giovani italiani nel mondo? Possiamo parlare di molteplici identità e profili oppure ci sono tratti comuni che li legano nonostante le distanze che li separano?
Tassello
. È sotto gli occhi di tutti la variegata composizione di questi giovani. Molti di loro sono portatori di un’identità multipla. Li accomuna il desiderio di approfondire il significato dell’italianità e il peso che ciò deve avere nelle loro scelte di vita. Subiscono il fascino di una lingua e di una cultura che rimangono spesso alquanto misteriose e sconosciute. Mentre i giovani che vivono in Europa sono ancora legati in modo preponderante a un sistema partitico di cui spesso Comites e Cgie sono espressioni, e quindi sono portati a privilegiare il campo delle rivendicazioni, i giovani latino-americani stupiscono tutti quando ribadiscono che non ci si deve spaventare di fronte a crisi e difficoltà, ma che occorre rimboccarsi le maniche perché le cose si risolveranno anche con il loro contributo creativo. Hanno appreso in pieno la lezione kennediana che sollecitava tutti a chiedersi non che cosa la nazione potesse fare per loro, ma che cosa loro potessero fare per la nazione. Un messaggio che non sembra invece emergere dai giovani anglosassoni molto attenti alle formalità, ma piuttosto a disagio in ambito linguistico.
Esiste poi una frangia di giovani emigrati che dichiarano di essere fuggiti dall’Italia per condizioni di studio e di ricerca insostenibili, mentre all’estero dichiarano di essere accettati a braccia aperte, forse dimentichi delle lezioni dei loro maîtres à penser che sostenevano invece che il cambiamento del sistema avviene solo attraverso la lunga marcia della rivoluzione dentro il sistema stesso. Di fatto questo piccolo gruppo non pare molto incline al dialogo con i giovani figli di emigrati, inseriti nel mondo del lavoro, e che vivono lontano dai ghetti dorati degli accademici. Esiste, infine, il gruppo italiano, che gioca un ruolo di osservatore. Al di là della naturale camaraderie, non si è riusciti a operare un confronto di esperienze per individuare possibili sinergie.
Nell’arco di due anni, il Cgie ha programmato e seguito nei vari continenti, la partecipazione alla recente Conferenza dei Giovani italiani nel mondo, svoltasi a Roma nel dicembre scorso. Nei vari interventi, i giovani hanno rivolto critiche e istanze al Governo e alle istituzioni italiane. Ora il Cgie come potrà cooperare affinché si possa rispondere positivamente alle attese di questa generazione?
Io spero che si riescano a cogliere le novità di questa Conferenza senza chiuderci nel piccolo mondo spesso legato a interessi prettamente italiani. Il nostro rimane ancora, spesso, un mondo piuttosto italo-centrico. I giovani ci sollecitano a pensare in maniera più mondo-centrica e ad aprirci alle realtà e alle presenze delle nuove generazioni italiane residenti nei cinque continenti, dando delle concrete risposte. I giovani a Roma hanno effettivamente manifestato parecchi desideri che anche noi, come Cgie, avevamo segnalato in passato. L’aspetto più mortificante di questa ricerca e di questo desiderio di visioni nuove è il constatare come il governo italiano, che continua a ribadire di comprendere e voler valorizzare in pienezza le potenzialità di questi giovani, abbia di fatto smorzato tante speranze quando, d’accordo con l’amministrazione, ha deciso che i doverosi tagli dovessero essere rivolti alla promozione della lingua e nell’ambito solidaristico a favore degli italiani più disagiati. Ci troviamo di fronte alla realtà delle nuove generazioni italiane all’estero con i loro grandi ideali, ma con la constatazione che devono remare controcorrente perché, nonostante la splendida retorica dei politici, la realtà è un’altra.
Molti giovani rappresentano vivacemente il futuro dell’italianità nel mondo. Alcuni di questi con una concreta presenza nel mondo dell’associazionismo. Ma, forse, sono ancora troppo pochi. Questo aspetto potrà essere rivitalizzato, secondo lei, e con quali prospettive?
Penso che bisogna fare un passo indietro. Ci sono tantissimi giovani ai quali sembra che le associazioni tradizionali non interessino più di tanto; oppure ci sono altri che vogliono crearne di totalmente nuove. La non folta presenza di giovani provenienti dal mondo dell’associazionismo è in parte dovuta ai criteri di selezione. Alla Conferenza di Roma ho avuto l’impressione che siamo mancati rappresentanti di giovani che sono attivi nell’ambito della solidarietà, sia di matrice laica o religiosa. La parola “solidarietà” non è stato molto citata alla Conferenza, mentre quando si fa riferimento alla gioventù in Italia questo è un tema vitale. Conosco personalmente giovani che ruotano attorno alle Missioni cattoliche italiane che nel settore della solidarietà (cura agli emigrati anziani, progetto per il Terzo Mondo) sono molto attivi e fanno cose innovative. Nella Conferenza di Roma, la rappresentanza dei giovani era in gran parte legata ai partiti, ai Comites o ad altre istituzioni italiane. Emarginando la solidarietà non si è potuto stabilire un legame più profondo con i giovani italiani. Ritengo sia quanto mai urgente colmare il divario tra i giovani italiani e i giovani di origine italiana. Non c’è ancora un travaso di culture e di esperienze, ma vige ancora la realtà di due mondi autonomi, senza rapporti. Non si è posto l’accento su alcuni strumenti o spazi operativi, che avrebbero permesso ai giovani di sconfinare da una parte all’altra.
I giovani percepiscono spesso i Consolati, i Comites e gli Istituti italiani di cultura come «spazi chiusi», non partecipativi né coinvolgenti, laddove invece l’italianità dovrebbe trovare la sua espressione più vera.
C’è bisogno di uno svecchiamento. La gerontocrazia e la partitocrazia hanno giocato un ruolo determinante in passato. I giovani italiani all’estero stanno dando un segnale chiaro negli ultimi tempi. Dobbiamo cioè davvero svecchiare le istituzioni e le associazioni, e affidare ai giovani delle responsabilità. Essi hanno infatti dimostrato più volte di essere capaci di dissertare su temi diversi, di leggere gli avvenimenti e i fenomeni in una chiave del tutto nuova, con entusiasmo e prospettive per il futuro. Se questa volta non ci facciamo un po’ in disparte, e non affidiamo loro delle responsabilità, dovremo rassegnarci a ritrovarci al termine del capitolo della storia dell’altra Italia. È da tempo che il Cgie insiste sul fatto che dobbiamo ascoltare le nuove generazioni italiane nel mondo. È giunto il momento non solo di ascoltarle, ma di passare loro il testimone e dire: ora tocca a voi. Non sembra che i Comites in passato si siano sempre distinti per una attenzione particolare verso i giovani. Si sono asserragliati dentro i loro piccoli interessi, precludendo a tanti giovani la possibilità di assumersi delle responsabilità di fronte all’attuale situazione delle comunità italiane nel mondo.
In questo contesto quale può essere il ruolo di scuola, università e centri di formazione? Cultura e background professionale restano, infatti, premesse irrinunciabili della capacità di questi giovani di fare networking e di saper promuovere con competenza la loro identità, ovunque risiedano nel mondo.
Molti dei giovani presenti alla Conferenza di Roma provenivano dal mondo universitario o hanno già acquisito titoli accademici. Per loro è normale parlare di networking. Occorre vedere se essi siano capaci di andare al di là di una comunicazione virtuale, e operare in ambito operativo in quei settori dove possono sfruttare le doti tipiche degli italiani all’estero, che spesso hanno appreso da genitori e nonni.
In che modo può essere utilizzata la carta della globalizzazione per sfruttare al massimo le potenzialità e le capacità che questa generazione di giovani – ormai cittadini del mondo, super-informatizzati e talora poliglotti – ha dimostrato di saper esprimere?
Affinché la carta della globalizzazione sia sfruttata in tutte le sue potenzialità, occorre che siano messe in opera alcune premesse: un governo che creda realmente nelle potenzialità e nella validità della diaspora, anche giovanile, e smetta una volta per tutte quella sterile retorica melliflua che non accontenta più nessuno; un governo disposto quindi a investire, a mettersi in ascolto, a dialogare; una sinergia tra le necessarie azioni di governo e gli investimenti delle regioni, alcune delle quali hanno dato prova ancora una volta di aver individuato potenzialità e di aver agito favorendo creatività ed eccellenza; un dialogo più autentico e non solo emozionale tra giovani italiani e giovani residenti all’estero, tale da permettere un confronto a tutto campo, aiutando così i giovani italiani a comprendere i movimenti migratori in tutti i loro risvolti, e i giovani della diaspora a reinterpretare in chiave più creativa la loro storia e i loro desideri. Occorre che i documenti prodotti dalla Conferenza di Roma siano riletti e contestualizzati, e si dia vita a precise iniziative che vadano ben oltre il networking virtuale.
Rimane la domanda di fondo: di fronte a tanto desiderio di partecipare, come reagiranno i giovani sapendo che le elezioni dei Comites e del Cgie sono state rimandate, e che sono stati apportati tagli assai pesanti alla promozione linguistica e culturale, senza davvero aver proposto alternative originali. Non vi è il pericolo che il comprensibile entusiasmo presente tra i convegnisti a Roma e la buona volontà dimostrata nella stesura dei documenti rimangano un episodio marginale nella vita di un giovane e nella vita di una nazione?

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017