Luca, Mariana e gli altri: rinascere è possibile
Una casa grande, quasi in bilico sulla collina. Accanto, un uomo grosso che tiene per mano una ragazzina. Sullo sfondo, le nuvole. C’è anche una stalla, al cui interno si intravedono mucche e maiali. È il disegno di Luca, sei anni, e rappresenta la sua casa. Una casa davvero particolare. Ha persino un nome: «Cascina Abele» ed è la sede di una delle comunità dell’omonimo Gruppo, creata per accogliere famiglie che chiedono di essere accompagnate in un percorso terapeutico per uscire dalla droga.
Qui, circa un anno fa, sono giunti Luca, sua mamma e suo papà. Luca si ricorda ancora l’effetto che gli fece l’enorme spazio della campagna, l’odore dei campi e della stalla. Non era facile per lui abituarsi al nuovo ambiente, dopo aver vissuto per anni nell’appartamento della piccola cittadina di provincia dalla quale provenivano i suoi genitori.
Anche il suo modo di vivere in città era differente. Mentre il papà era al lavoro (in una cooperativa sociale), la mamma dormiva anche fino a mezzogiorno, per poi portarlo con sé al Sert (Servizio per le tossicodipendenze), dove poteva dimenticarlo per ore sulle scale, mentre lei chiacchierava con gli amici. Se Luca aveva fame, la mamma lo portava al bar o in pasticceria. Mangiavano senza orari e senza regole, così come capitava. Quando mamma e papà, (che a volte erano molto nervosi, o semplicemente si dimenticavano di lui) non potevano stare con Luca, lo affidavano alla nonna, la quale però, dovendo lavorare, lo teneva volentieri buono davanti alla tivù, promettendogli giochi e regali.
Luca ora sa che suo papà non era stato tanto contento di andare alla Cascina, con altri «grandi» e bambini, dove la vita era così diversa dalla loro, però lo ha comunque disegnato accanto alla stalla, dove spesso lavora. Sa anche che questo lavoro costa fatica a suo papà: lui era abituato ad avere soldi facili, molti di più di quelli che il suo lavoro «ufficiale» gli permetteva di avere; era nato in una famiglia poverissima del Sud, aveva dovuto crescere in fretta, senza contare su nessuno, e aveva visto la madre tirare avanti da sola, con tanti figli e un marito assente. Per questo si era ripromesso di fare qualsiasi sacrificio per non perdere Luca, per non abbandonarlo come suo padre aveva fatto con lui.
La ragazza piccolina del disegno, molto più giovane dell’uomo grosso, è la mamma di Luca. Anche lei con una storia difficile alle spalle: uscita di casa a diciassette anni, dopo una vita fatta di trascuratezze e abusi, si era ben presto innamorata del papà di Luca, così grande e forte, pensando di trovare in lui qualcuno che finalmente la proteggesse e si occupasse di lei.
Quando Luca è arrivato alla Cascina, sembrava quasi un animaletto selvatico: sempre agitato, continuamente in cerca dell’attenzione di un adulto che lo facesse sentire importante. Non riusciva a mangiare seduto a tavola, e si faceva spesso la pipì addosso.
Piano piano, le cose sono cambiate: mamma e papà oggi sembrano meno distratti e nervosi, più capaci di dargli retta e di occuparsi di lui. Oltre a lavorare, in casa e fuori, i genitori di Luca si riuniscono con gli altri «grandi» della Cascina, insieme con gli operatori, per parlare, per confrontarsi e capire come diventare bravi genitori capaci di offrire al loro figlio tutto ciò di cui ha bisogno. Il papà, prima sempre così orgoglioso, adesso chiede anche aiuto e consiglio agli altri, cerca di arrabbiarsi di meno e di non alzare troppo la voce. Sua mamma è come se fosse più forte e sicura.
Anche se gli piace la compagnia di altri bambini con cui giocare, mentre un’educatrice si occupa in modo particolare di loro, Luca qualche volta pensa a come sarebbe bello tornare a vivere da solo con mamma e papà. Non come prima, però, quando i suoi «stavano male»; no, lui li vorrebbe tutti per sé, ma come stanno adesso, che hanno più voglia di rimanere con lui.
Così, Luca è stato proprio contento e fiero quando gli hanno detto che presto tutti e tre insieme potranno andare a vivere in una casetta, vicina alla Cascina ma autonoma. Suo papà cercherà un lavoro fuori e sua mamma starà con lui, occupandosi della casa. Luca non vede l’ora, ma ha anche un po’ di paura: le nuvole è meglio non toglierle, per ora, dal disegno; solo quando finalmente andrà nella casa nuova, potrà aggiungere qualcosa alla sua «opera»: se stesso, un bel bambino bruno che saluta con la mano, quasi a dire che è davvero possibile essere contenti!
Mariana, il sogno realizzato
Mariana è ucraina: volto esile, occhi azzurri, capelli corti e biondi. Oggi lavora in una cooperativa sociale come responsabile del magazzino.
Le «fatiche» di Mariana iniziano presto: ha solo dodici anni, un’età difficile, quando muore sua mamma. Il papà si risposa, e lei va via di casa. Continua a studiare, ma per mantenersi deve lavorare al pomeriggio. A costo di grandi sacrifici, riesce a diplomarsi e a trovare un’occupazione stabile. Ma si sente sola, cerca amici ovunque e in qualunque modo. All’improvviso, perde il lavoro e, quasi nello stesso tempo, si accorge di aspettare un figlio dal fidanzato. Dà così alla luce Mir-ko, che il papà non vuole però riconoscere. E ancora una volta Mariana si ritrova sola e cerca di sopravvivere alla meno peggio: lavori saltuari, l’aiuto di qualche amica. Finché, un giorno, una vicina di casa le propone un lavoro in Italia, con la prospettiva di guadagnare tanti soldi, ma soprattutto di garantirsi un futuro per sé e per il suo bambino. Mariana non ci pensa su due volte. Dopo aver lasciato Mirko a un’amica, parte per l’Italia con altre tre ragazze e alcuni accompagnatori. Attraversano l’Ungheria e la Slovenia, cambiando spesso auto e compagni di viaggio. Passano il confine italiano a piedi, tagliando attraverso i boschi. Durante quel tragitto, un albanese, il capo di coloro che le accompagnano, tenta di metterle le mani addosso. Mariana si ribella, ma si prende un ceffone talmente forte che le si spezza un dente. Un altro «accompagnatore» a quel punto interviene, ma non per proteggerla, come lei crede, bensì perché «la “merce” deve essere integra».
Mariana non riesce a capire che cosa significhi quella frase. Forse non vuole capire. Ma quando arriva a Trieste, deve capire per forza: le viene detto chiaramente che è costata, tanto, e che dovrà guadagnare in fretta per ripagare l’investimento. Se si rifiuta, si rivarranno su di lei e su Mirko. Inizia così a prostituirsi, piangendo e tacendo, perché non facciano del male al suo bambino. Come un pacco, viene trasferita a Padova, poi a Torino.
La vita di strada è sempre più difficile, e sente che non ce la fa più. Della polizia però ha paura, tanta. Solo un cliente, più gentile degli altri, le chiede ogni tanto come sta. All’inizio Mariana non risponde, poi, un po’ alla volta, gli racconta alcune cose di sé. Finché, un giorno, lui la convince a telefonare e chiedere aiuto per uscire da quella situazione. Chiama il «Numero Verde contro la Tratta»: le fissano un appuntamento al centro di accoglienza del «Progetto Prostituzione e Tratta» del Gruppo Abele. Il suo amico-cliente l’accompagna. Comincia così il «percorso sociale» di Mariana. Quelli del Gruppo Abele l’accompagnano in Questura per la denuncia, le rimangono accanto, la iscrivono a un corso di italiano.
Oggi Mariana ha un permesso di soggiorno per protezione sociale. Mette da parte i soldi per il suo bambino, che però non può far venire in Italia. Non si sente più sola e ha imparato, attraverso la sofferenza, ad aiutare tante persone che, come lei, hanno capito che c’è un grande scarto tra la realtà e il sogno con cui sono partite dal proprio Paese. Persone che, però, sanno che non si può vivere senza sogni e cercano, con fatica, di realizzarne almeno uno.