Lucilla Giagnoni. Quando l'arte salva l'anima

Da bambina guardava le stelle insieme al padre. Da grande, questa attrice porta sul palcoscenico testi che aiutano a meditare sulle origini, sul senso della vita e sul mistero dell’esistenza.
25 Gennaio 2012 | di

«Il compito di un artista è quello di rivelare, attraverso parole di bellezza, quale sia la via per fuggire dall’inferno. La poesia, che tanto somiglia alla preghiera, è una di queste vie. Essa abbraccia il tempo, vi si immerge e tuttavia non lo consuma, ma lo espande!». Esordisce così l’attrice Lucilla Giagnoni che ha al suo attivo importanti esperienze teatrali con maestri del calibro di Vittorio Gassman e Jeanne Moreau, trasmissioni radiofoniche, televisive e, non ultimo, l’insegnamento.
Il suo recente spettacolo, Apocalisse (capitolo finale di una «trilogia della spiritualità» composta dagli spettacoli Vergine Madre e Big Bang), indaga sul vero significato della fine attraverso l’analisi, appunto, della parola «apocalisse», che significa «rivelazione», contrapposta alla parola «cecità». Al testo sacro viene affiancato l’Edipo re di Sofocle, un classico del teatro greco, ma, cosa sorprendente e commovente, Lucilla apre e chiude lo spettacolo con un’inattesa narrazione di brevi episodi di vita familiare. Una testimonianza d’amore, una riflessione sull’essere figli e sul fatto che il mistero si rivela a chi sceglie la strada della fiducia e della relazione.

La profonda ricerca di senso partita con i precedenti lavori dell’artista trova probabilmente il suo compimento nella grande confidenza che la Giagnoni ha con la figura di Dante. «Tutta la Divina Commedia – afferma durante lo spettacolo Big Bang – finisce con la parola “stelle”, quasi che Dante ci volesse far capire l’importanza di guardarle. Le stelle sono diventate un orizzonte che Dante ci indica per poterci affacciare verso quella parte d’infinito che è dentro di noi. E di stelle e di luce – dice l’attrice – sembra disseminata anche la mia vita, a partire dal mio nome. Mi chiamo Lucilla, un nome con la luce nel “corpo”, e ho chiamato mia figlia Bianca, cioè “lucente”, come mia nonna che ha centosei anni. È lei che da piccola mi ripeteva a memoria la Divina Commedia. Nella vita adulta mi è capitato raramente di guardare le stelle, eppure, ora lo posso dire con certezza, loro mi hanno sempre accompagnata».

Msa. È importante ripensare al proprio passato per ritrovarsi?
Giagnoni. Ognuno di noi ha una sua storia passata. La famiglia di mio padre viveva tra le colline toscane ed era poverissima. Nel ventennio fascista i primogeniti delle famiglie più umili avevano diritto a un’istruzione gratuita, così lui, uomo di montagna, fu mandato a scuola all’Istituto nautico e ne uscì ufficiale di marina. Anche qui strane coincidenze di nomi. Mio padre, infatti, si chiama Maris. Conosceva tutte le costellazioni ed era lui che, quando ero piccola, mi mostrava le stelle; poi io sono cresciuta, e dentro di me si è perso il ricordo di quei momenti. Se ci pensiamo bene, scopriamo che sono rare le volte in cui ci è capitato di alzare lo sguardo per ammirare le stelle. Siamo spesso distratti e tendiamo a dimenticarci di loro, così come tendiamo a dimenticare l’infinito che è dentro di noi.

Quando ha cominciato a lavorare sulla Divina Commedia?
Ho iniziato sulla scia degli eventi dell’11 settembre 2001.

Quindi prima di grandi interpreti maschili come Roberto Benigni?
Sì, molto prima, ma questo non è importante, perché Dante è lì per noi da almeno settecento anni. Lui è di tutti. È un poeta che mi ha accompagnato lungo un percorso di spiritualità, e le stelle di cui lui parla sono diventate, a poco a poco, il mio contatto con l’infinito. Dobbiamo metterci in ascolto: viviamo per conoscere noi stessi e, per questo, non possiamo fare a meno di entrare in relazione con gli altri. Ho imparato che dobbiamo avere dentro di noi la poesia per salvarci dall’inferno che la vita a volte ci riserva. Abbiamo a disposizione uno scrigno di ricchezza interiore che, quando si svela, ci incute timore. La nostra vita è un meraviglioso viaggio di scoperta che può intimorire soprattutto i ragazzi, ma vale la pena ricordare loro che se si cade ci si può rialzare e guadagnare una porzione di stella. Tutto l’Edipo re, che cito nel mio spettacolo, è un viaggio di rivelazione, di caduta e di spoliazione massima fino alla risalita, una risalita di santità.

Spesso è difficile trovare la propria strada. Mancano delle guide, soprattutto per i più giovani?
La nostra è un’epoca senza maestri e a volte senza genitori che insegnino a crescere. Se da un lato la tecnologia ci permette di comunicare e attingere informazioni da qualunque parte del mondo con il semplice gesto di una mano, dall’altro sperimentiamo la drammatica mancanza della compagnia delle persone. Bisogna invece cercare i propri maestri. Anche Dante quando si smarrisce nella selva oscura cerca qualcuno che possa fargli da guida. Lui ha trovato Virgilio e noi ora ricorriamo a Dante, perché la vita è un viaggio che non possiamo fare da soli; abbiamo più che mai bisogno di entrare in relazione con l’altro.

Un artista è anche un testimone?
So di avere un talento e so di poter far provare emozioni. Ciò mi ha permesso di usare questo dono per essere appunto un testimone che offre fiducia e apre gli animi alla riflessione. Credo sia doveroso mettere in campo le proprie qualità: tutti dovrebbero impegnarsi a fare bene qualcosa, a realizzare qualcosa di bello, in qualsiasi campo. Anche in questo modo si diventa testimoni di bellezza.

L’essere testimoni presuppone una grande responsabilità.
La vita comporta inevitabili dolori e per un attore che voglia lavorare anche con le anime altrui, per renderle più vive, è fondamentale che questi dolori siano racchiusi dentro uno scrigno. Racchiusi e fatti respirare durante l’azione teatrale, come un cuore che pulsa. Lo scrigno va aperto ogni tanto, deve prendere ossigeno per poi confrontarsi col dolore del prossimo, e, in seguito, richiuso con pudore. Se lo scrigno rimane aperto, il dolore perde consistenza e l’esperienza più drammatica rischia di diventare insignificante. Se invece apro e chiudo con delicatezza lo scrigno del dolore, permetto all’esperienza di essere condivisa. Su questo delicato equilibrio scrivo i miei spettacoli.

Spettacoli che lei apre tra la gente che sta seduta in platea. Perché questa scelta?
Tendo a non iniziare dal palco, ma dal pubblico. Prendo tempo, ma in cambio offro fiducia. Ho rinunciato al costume di scena, che non uso più, perché voglio iniziare i miei spettacoli tra la gente, da persona tra le persone.

Che cos’è la narrazione nel teatro?
È raccontare il mondo come lo si è visto e secondo un ordine che abbia senso. Siamo creature che hanno bisogno di dare un significato a ciò che ci accade. La storia ne è un esempio: essa è il tentativo di inanellare un percorso di senso. L’artista narra delle porzioni di storia, dei piccoli disegni che si chiudono e che mettono lo spettatore nella condizione di ascoltare. Bisogna ritrovare una comunione e una semplicità di parole che arrivino dritte a chi ascolta. La vita è fatta di piccole rivelazioni in cui, improvvisamente, cogliamo delle grandi verità su di noi e sugli altri, che non possiamo sempre vedere con chiarezza. Non so se queste rivelazioni si possano chiamare grazia, ma lo diventano sicuramente quando, ascoltandole o vedendole, non ci accecano, ma ci illuminano il cammino.

Quale strada intraprende un artista per avviare la costruzione dei suoi spettacoli? E, nello specifico: come maturano i suoi lavori dentro di lei?
Ho spesso costruito i miei spettacoli correndo. Abito nella campagna novarese delle risaie, dove il paesaggio, soprattutto d’inverno, è surreale. Correndo nel silenzio, la mattina, capitava che portassi con me le conferenze dei grandi esegeti, perché dovevo studiare e quello era un buon metodo per ottimizzare il tempo. La corsa diventava quasi un atto di meditazione. Sentire queste parole, mentre il corpo lavorava e l’occhio spaziava in quei paesaggi vastissimi, era un dono: il mio appuntamento con me stessa, con il silenzio e l’ascolto di quella voce interiore che tutti abbiamo dentro.
Mi sono trovata tante volte a dire: «Grazie, qualunque cosa tu sia, grazie di esserti rivelato!».
 
 
Biografia
 
Lucilla Giagnoni nasce a Firenze nel 1964. A diciannove anni, nella sua città natale, frequenta la bottega di Vittorio Gassman dove lavora,oltre che con lo stesso Gassman, anche con la grande attrice Jeanne Moreau e con Paolo Giuranna.
Dal 1985 al 2002 concentra quasi tutta la sua opera all’interno della compagnia teatrale torinese Teatro Settimo.

Non mancano altre collaborazioni con nomi illustri: Alessandro Baricco, Paola Borboni, Giuseppe Bertolucci, con cui ha girato il film Il dolce rumore della vita; nel 1999 ha lavorato inoltre con Katie Mitchell, regista della «RoyalShakespeare Company».

Ha partecipato a Teatri alla radio, diretta da Luca Ronconi, realizzando Le intellettuali di Molière con Ottavia Piccolo e Massimo Venturiello, e La cimice di Majakovskij per la regia diGabriele Vacis. È autrice di trasmissioni radiofoniche e televisive per la Rai. Dal 1997 insegna narrazione alla scuola di scrittura «Holden» di Torino. Peril suo lavoro ha ricevuto numerosi riconoscimenti e premi. L’opera che più la rappresenta è Vergine Madre, un lavoro sulla Divina Commedia da lei scritto e interpretato. 
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017