Luigi Alici. Sguardo corto se manca la politica

Riusciremo a superare la crisi della politica che attanaglia il nostro Paese? A colloquio con Luigi Alici, docente di Filosofia morale e mente tra le più lucide del panorama intellettuale italiano.
20 Maggio 2014 | di

Luigi Alici non è un politologo: si occupa, e bene, di filosofia. Ma è comunque una delle voci più autorevoli nel panorama italiano quando si ragiona di politica, forse proprio perché è abituato a indagare l’animo umano di cui la politica è specchio fedele.

Msa. Mai come oggi la politica ha perso di fascino, ma soprattutto di credibilità. È una situazione irrecuperabile? E come rimediare?
Alici. La crisi di credibilità della politica è il riflesso, in superficie, di una rottura più radicale che si è prodotta nel «sottosuolo» della cultura e del costume. Certamente l’edificio della politica è pericolante e va messo al più presto in sicurezza: le istituzioni, dopo decenni di abusi sistematici, sembrano esposte a un logoramento, oltre il quale è a rischio la stessa stabilità democratica. Tuttavia non possiamo scambiare i sintomi con la malattia: c’è qualcosa che si sta rompendo nella trama profonda delle relazioni umane. Non riusciamo a fare nulla insieme, perché non sappiamo più essere – e stare! – insieme. In Italia in questo momento tutti vogliono dividersi da qualcosa o da qualcuno: è una secessione silenziosa dai valori della solidarietà e della partecipazione.

Come legge l’attuale situazione del nostro Paese? Questo clima «antipolitico» che sempre più spesso si respira non rischia di togliere dignità a quella che, in fondo, per la Dottrina sociale della Chiesa, è «la più alta forma di Carità»?
La crisi della politica è aggravata da due tentazioni opposte: la sudditanza e la rabbia. La prima risolve tutto con una domanda di leadership, avallando una voglia di delega che è la morte della democrazia; la seconda cavalca in modo spregiudicato l’antipolitica, promettendo una democrazia diretta che può nascondere inquietanti burattinai invisibili. Due forme opposte di populismo, che solleticano la pancia del Paese. In entrambi i casi viene sfregiata la dignità della politica. Per un non credente la politica è la forma più alta di giustizia, per un credente addirittura la forma più alta di Carità. Su questo punto, credenti e non credenti possono e debbono incontrarsi.

Il binomio cattolici-politica è diventato vago. Nella prima pagina del suo libro I cattolici e il paese, dello scorso anno, lei cita una frase significativa del professor Dario Antiseri: «La diaspora dei cattolici, seguita vent’anni fa al collasso della DC, li ha resi presenti ovunque e inefficaci dappertutto». È proprio così?
Se ci riferiamo alla presenza diretta dei cattolici nei partiti e nelle istituzioni, temo che Antiseri abbia ragione. Un discorso opposto si dovrebbe fare per la loro presenza – diffusa e generosa – nella società civile, nelle reti del volontariato e del privato sociale. Perché però questo scarto? Perché un giovane preferisce spezzarsi la schiena in una mensa Caritas anziché entrare in una commissione parlamentare, dove si potrebbero risolvere molti problemi alla radice? Mi limito a segnalare tre motivi: una scarsa cultura istituzionale, che privilegia in modo miope solo le azioni più immediatamente gratificanti; una difficoltà culturale di inserirsi in modo costruttivo nel bipolarismo nato dopo la fine della DC; una serie di operazioni di piccolo cabotaggio, nell’illusione di gestire il voto cattolico inseguendo una logica di schieramenti, senza la minima elaborazione progettuale.

L’idea di Europa non decolla. L’euro, una moneta senza politiche comuni, è condannato alla perenne instabilità. Che cosa manca all’Europa per non essere identificata solo con la burocrazia di Bruxelles?
Secondo Guardini la burocrazia è «una modalità del totalitarismo nella sua corrente fredda». Il fenomeno è pervasivo: riguarda non solo le istituzioni europee e mondiali (l’Onu, in particolare), ma anche il mondo della sanità, della ricerca, dell’amministrazione pubblica. Sembra che la condanna unanime della burocrazia sia il suo ricostituente più efficace… Nel caso dell’Europa, la deriva burocratica è una supplenza funzionale al deficit della politica; quando manca la politica, si accorcia lo sguardo: all’indietro (quanta paura di evocare le radici cristiane dell’Europa!) e in avanti (il diritto di veto trasformato in alibi per coprire il vuoto di progetti e il deficit di coraggio…).

Da dove partire per far fruttificare, in Italia, la presenza in politica dei cattolici? Non sono pochi, almeno numericamente...
La questione è complessa e investe l’educazione alla fede e la forma di Chiesa. Occorre anzitutto assumere come parte integrante dei cammini di educazione cristiana la dimensione sociale dell’evangelizzazione. L’annuncio del Vangelo non può essere imprigionato in un intimismo evasivo e disincarnato: inclusione dei poveri, bene comune, pace e dialogo sociale, ricorda papa Francesco in Evangelii Gaudium, non possono ridursi per un cristiano a un corollario facoltativo. In secondo luogo, la Chiesa non può invitare i cristiani all’impegno politico e poi prendere le distanze da loro, quasi fossero degli appestati. La comunità cristiana deve sperimentare forme più articolate e accoglienti di comunione, capaci di suscitare esperienze di attenzione differenziata verso chi s’impegna a vari livelli nella vita politica; tenendosi alla larga da questo, per evitare di fare i conti con problemi complessi, la fede non abita più la storia e gli organismi pastorali si riducono a luoghi burocratici e insignificanti.

La Chiesa italiana, da quando papa Francesco è salito al soglio pontificio, sembra più neutra rispetto alla politica partitica italiana e più attenta alla dimensione del sociale. Eppure papa Francesco ha incoraggiato l’impegno dei cattolici in politica, arrivando a dire che «un buon cattolico si immischia in politica, offrendo il meglio di sé» (Omelia Santa Marta, 16 settembre 2013). Che cosa ne pensa?
A partire dalla rinuncia di papa Benedetto e quindi dall’elezione di Francesco è in atto una svolta profonda nella vita della Chiesa, una nuova primavera dello Spirito di cui intravediamo appena gli sviluppi. Protagoniste di tale svolta saranno sempre più le chiese giovani, «alla fine del mondo», che guardano alla storia con una freschezza, una libertà e un’energia propositiva di cui noi sembriamo privi. È questa distanza dalle beghe provinciali della politica italiana che può aiutare a guardare con occhi diversi alla vita sociale. Non possiamo pensare, però, di nascondere dietro il coraggio profetico di papa Francesco le nostre stanchezze e la nostra sterilità.

Si fa un gran parlare di bene comune, ma molti ne hanno un concetto vago e sbiadito. Che cos’è, in poche parole?
Dobbiamo impedire che questo principio si riduca a un orpello retorico vuoto. Secondo il Compendio della dottrina sociale della Chiesa, il bene comune «può essere inteso come la dimensione sociale e comunitaria del bene morale» (165). Dunque non una somma di interessi – o, peggio, di egoismi – individuali, né l’insieme dei beni naturali di uso comune, come l’acqua, le foreste o lo strato dell’ozono, che ancora non dicono nulla su ciò che accomuna veramente gli umani: gli umani sono accomunati dalla qualità delle loro relazioni, non dalle cose che usano o che decidono di proteggere. Il bene comune è la vita buona condivisa, che genera il «noi», trasformando un insieme di individui in una comunità di cittadini.

Dei giovani tutti parlano e nulla cambia. Sono, per lo più, un serbatoio di energie inutilizzate, un futuro che non sboccia mai. Da dove ripartire? È ancora possibile trasmettere loro una sana passione per la politica?
Ha scritto La Pira: «I giovani sono come le rondini: vanno verso la primavera». Oggi, però, anche i giovani risentono di questo clima da life is now (letteralmente: «vita è ora», ndr), che li spinge a volare basso. La scuola è l’anello più debole di una catena intergenerazionale che si sta sbriciolando. Non sappiamo più che cosa significhi educare e ci trasciniamo nella trasmissione apatica e disorganica di banali pillole di sapere. Dobbiamo invece ripensare in profondità i tempi, gli spazi, i progetti, i contenuti, le idealità, gli interlocutori, in una parola la missione educativa della scuola pubblica, statale e non statale. Una rigenerazione per la quale c’è bisogno di tante idee, tanti soldi e tanto tempo. Anche la politica, su questo punto, dovrà ricordare che «uno semina e l’altro miete», mentre sembra che nessuno voglia seminare se non è sicuro di mietere o che addirittura pretenda di mietere là dove non ha nemmeno seminato!

La crisi economica, che non è solo crisi economica, finirà, e quando? Che lettura dobbiamo farne, come cristiani?
Miguel Benasayag e Gérard Schmit, autori del libro L’epoca delle passioni tristi, parlano di «crisi nella crisi» per indicare una crisi non congiunturale, ma strutturale, che ci è entrata nella testa, paralizzandoci e mettendo l’intero assetto sociale in stand-by. Perché la barca della vita – personale e comunitaria – torni a navigare c’è bisogno di una nuova sintesi creativa tra passato e futuro. Una società cresce quando l’ultima generazione riconosce un debito di gratitudine verso la precedente e lo trasforma in un atto di restituzione, intelligente e generosa, alle generazioni successive. Ai cristiani tocca oggi un ruolo storico insostituibile: elaborare progetti, tessere reti di solidarietà, onorare le istituzioni, lavorare per una società più lungimirante e inclusiva, accreditare il primato del ricevere e del restituire sul prendere e sul consumare. Essere in questo modo testimoni di speranza, tra memoria e promessa, non è solo un aiuto al Paese: rende credibile l’annuncio della vera, grande Buona Notizia.
 
La scheda
Luigi Alici (Grottazzolina, FM, 1950) è professore ordinario di Filosofia morale nell’Università di Macerata, dove è responsabile del dottorato di ricerca in Filosofia e presidente del Presidio di Qualità di Ateneo. Ha insegnato Filosofia morale all’Università di Perugia e Filosofia teoretica presso la Lumsa (Roma). È stato presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana (2005-2008). Tra i suoi libri più recenti: Cielo di plastica. L’eclisse dell’infinito nell’epoca delle idolatrie (San Paolo, 2009 – Premio Capri-San Michele); Filosofia morale (La Scuola, 2011); I cattolici e il paese. Provocazioni per la politica (La Scuola, 2013); L’angelo della gratitudine (Ave, Roma 2014).

È autore del blog «Dialogando» (http://luigialici.blogspot.it/).

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017