L’uomo che ad Auschwitz prestò la voce a Dio

A settant’anni dalla morte di padre Kolbe nel campo di sterminio, che valore ha il suo martirio e perché decise di accettarlo? Il segreto è in una scelta che padre Kolbe condivideva con sant’Antonio. E se il Santo oggi lo incontrasse gli direbbe che…
09 Settembre 2011 | di

Che cosa unisce sant’Antonio e padre Massimiliano Kolbe, due santi confratelli, vissuti a sette secoli di distanza? La domanda sorge spontanea nell’anno in cui si celebra il settantesimo anniversario della morte del frate polacco ad Auschwitz, avvenuta il 14 agosto 1941. Li unisce la tonaca, certamente, il destino di santità, ma soprattutto il desiderio di testimoniare la fede fino al sacrificio estremo. Se Antonio tornasse, credo che andrebbe incontro a padre Kolbe con le braccia aperte per dirgli: «Fratello, tu hai realizzato il mio sogno». Morire da martire era infatti il progetto del giovane Antonio, che ai suoi tempi era rimasto affascinato dal martirio dei primi francescani in Marocco. Poi la strada della sua vita aveva preso, suo malgrado, tutt’altro corso. Ma quel desiderio rimase nel suo cuore. Sette secoli dopo, il suo confratello Massimiliano veniva a Padova a posare la mano sul marmo grigio della sua tomba, a chiedere nella preghiera silenziosa la sua intercessione. Non sapeva ancora che a lui sarebbe toccato di raccogliere il testimone del martirio, di coronare quell’antico sogno di Antonio.
C’è una frase di Massimiliano del 1939 che già racchiude il senso delle sue scelte future: «Soffrire, lavorare e morire da cavaliere dell’Immacolata, non di una morte comune, ma spargendo il proprio sangue, fino all’ultima goccia, per affrettare la conquista del mondo intero a Lei. Io non conosco nulla di più sublime». Quel sogno si avverò alle 12,52 del 14 agosto 1941, nel bunker della morte di Auschwitz. Dopo due settimane di atroci sofferenze. Non doveva essere lui a morire quel giorno ma un sergente polacco di 41 anni, Francesco Gajowniczek. Fu il suo pianto di dolore con i nomi dei figli e della moglie sulle labbra a convincere padre Kolbe che era arrivato il «momento sublime». Si offrì al suo posto, strappando al feroce Karl Fritsch, il vicecomandante del campo, un gesto inaudito e mai concesso in un lager nazista: quello di poter morire per salvare la vita di un altro. Ho intervistato Francesco Gajowniczek, il 25 ottobre 1981, per farmi raccontare i nudi fatti: «Nel mio blocco, il 14°, alla fine di maggio del 1941, era arrivato un convoglio da Varsavia, nel quale c’era anche padre Kolbe. Si era subito presentato come frate francescano minore conventuale. Per me fu una grande gioia, perché lo conoscevo dal periodico “Il Cavaliere dell’Immacolata”, a cui la mia famiglia era abbonata, stampato a Niepokalanow, città di soli frati operai, fondata dallo stesso Kolbe». Per i prigionieri egli rappresentava un faro di speranza. «Ci incitava a non perdere il coraggio. Diceva che la guerra sarebbe finita presto. La sera ci riuniva e ci trasmetteva la forza per resistere. Ascoltava le nostre confessioni ed era pronto a dividere anche il suo pezzo di pane». Per questo era molto conosciuto in tutto il campo. Alla fine di luglio, uscendo da Auschwitz per andare al lavoro, uno dei prigionieri del blocco 14 fuggì. All’appello della sera i soldati se ne accorsero: «Ci tennero in piedi sulla piazza, in attesa di ritrovarlo. Ma visto che si andava per le lunghe, i capi ordinarono una rappresaglia: dieci persone dovevano morire di fame e sete nel bunker per dissuaderci dai tentativi di fuga. Karl Fritsch iniziò a selezionare i condannati. Passava vicino alle file e faceva segno con la mano. Infine giunse alla mia fila e mi indicò. Mi presero e mi aggregarono agli altri nove, già scelti. In quel momento gridai disperato: “Elena, povera moglie mia, figli miei non vi vedrò più”. Mi accorsi che un prigioniero uscì spontaneamente dalla fila: era padre Kolbe. Si fermò davanti a Fritsch, che stava estraendo la pistola per ucciderlo all’istante, secondo quanto imponeva il regolamento. Gli chiese: “Cosa vuole questo porco polacco?”. E padre Kolbe: “Vorrei prendere il posto di uno di quei condannati, quello che ha moglie e figli, io sono solo”. “Chi sei?”, domandò il vicecomandante con voce di sfida e la pistola puntata: “Sono un prete cattolico”, rispose padre Kolbe». Le guardie del campo sghignazzavano. Ma Fritsch stranamente accettò, incassando inconsapevolmente, proprio lui che uccideva ogni giorno decine di persone, una tremenda sconfitta. «Quando padre Kolbe mi si avvicinò per prendere il mio posto (non potevo parlargli), ci siamo guardati profondamente negli occhi e in fondo ai suoi ho visto che era contento della vittoria». Poi condussero i dieci sventurati nel blocco tredici e infine nell’undici. «So che i prigionieri, nudi nel bunker, con un secchio per le urine, pregavano e cantavano guidati da padre Kolbe. Noi da fuori, sentivamo la voce calare con il passare dei giorni». Padre Kolbe sopravvisse a tutti gli altri e alla vigilia della festa dell’Assunzione di Maria in cielo, il 14 agosto, fu ucciso con un’iniezione di acido fenico, come testimoniò un prigioniero che faceva l’interprete nel bunker della morte. «Sono molto contento che il sacrificio di padre Kolbe non sia avvenuto invano e di aver potuto presenziare nel 1971 alla sua beatificazione». Francesco Gajowniczek morì a 94 anni, il 13 marzo 1995. Riposa nel cimitero di Niepokalanow, a fianco di padre Alfonso Kolbe, il fratello di padre Massimiliano. Guardando la vicenda di Massimiliano nell’ottica di Antonio, ora è più semplice capire il filo rosso che li unisce a tanti secoli di distanza: l’ardore missionario, il dovere della testimonianza, con coerenza, a costo di qualsiasi sacrificio. «Vorrei essere  polvere – scrive padre Kolbe – per viaggiare con il vento e raggiungere ogni parte del mondo a predicare il Vangelo». Questa volta Antonio, grande predicatore, l’ha preceduto per le strade del mondo mostrandogli la via, testimoniando il Vangelo nella parola e nel suo stare dalla parte degli ultimi, consumandosi nella sua missione, come polvere che rende fertile il terreno. Al contempo simili e molto diversi, Massimiliano e Antonio, hanno incarnato nel mondo due espressioni irripetibili dello Spirito. E a me, nel settantesimo anniversario della morte di padre Kolbe, piace pensare che Antonio abbia pregato con lui quel 14 agosto, nella cella numero 18 del braccio della morte ad Auschwitz.
 
 
 
Il riconoscimento di Ionesco
 
Gli invidio la vita
 
«Massimiliano Kolbe
è un santo.
Io ammiro e adoro in lui ciò che è difficile:
il sacrificio e la santità.
Vivere e morire per gli altri,
nell’amore della vita e della morte:
ecco quanto fece,
ecco ciò che fu l’esistenza di
Massimiliano Kolbe.
Per me è la sola esistenza
invidiabile,
la sola esistenza che merita di
essere vissuta,
che giustifica, abbondantemente,
sia la vita che la morte».         
        
         Eugène Ionesco, drammaturgo.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017