L’uomo, ostaggio delle sue macchine?
Sentimenti, razionalità, intelligen-
za. La diffusa dipendenza dalla tecnologia va radicalmente modificando la sensibilità dell’uomo contemporaneo e la sua stessa capacità di relazionarsi con gli altri e con il mondo circostante, e apre scenari inquietanti. Ne abbiamo parlato con uno dei più acuti analisti della nostra epoca: il filosofo Umberto Galimberti. Nato a Monza nel 1942, Galimberti è titolare della cattedra di Filosofia della storia all’università Ca’ Foscari di Venezia. I suoi libri sono tradotti e pubblicati in tutto il mondo.
Msa. Se non possiamo proprio dominare la tecnica, come possiamo evitare di esserne dominati?
Galimberti. Evitare di essere dominati è un problema perché può darsi che la tecnica ci domini senza che noi ce ne accorgiamo, nel senso che abitare nell’età della tecnica non è come abitare nelle altre età che l’uomo ha conosciuto. La tecnica ci modifica prima di tutto a livello mentale: trasforma la nostra intelligenza da problematica a duale, per cui finiremo per ragionare come i computer, con le tre opzioni: sì, no, non so; oppure come i sondaggisti o come i test che si fanno ormai anche a scuola. La tecnica modifica i nostri sentimenti perché è globale: ci scaraventa addosso tutto il dolore del mondo, mentre il nostro sentimento è capace di reagire solo nell’ambiente circostante, per cui diventiamo emotivamente apatici. Ecco, questi sono gli scenari di modificazione dell’uomo ad opera della tecnica, e, siccome il processo è lento, rischiamo di non accorgercene.
Come possiamo recuperare il valore umanistico della scienza?
Penso che la scienza non abbia mai avuto interessi nei confronti dell’uomo, nel senso che la scienza è semplicemente un’esecuzione rigorosa di procedure che conducono all’autopotenziamento dell’apparato tecnico-scientifico. Poi, se accade che la scienza si coniuga con l’economia e l’economia scorge un qualche vantaggio, allora si possono avere anche delle ricadute umane, alla sola condizione che l’economia intraveda la convenienza delle scoperte scientifiche. Ma la scienza è potere assoluto. Bacone l’aveva intuito subito: scientia est potentia, indipendentemente dalle vicende umane.
Le idee sono il cibo della mente, ma la società dei consumi nutre tutti noi con idee persuasive, grazie anche alla pubblicità. Eppure le idee sono il terreno in cui l’uomo coltiva la propria libertà. A chi tocca allora costruire «fabbriche» e «supermercati» di idee?
Dovrebbe toccare ai filosofi, agli uomini di religione e agli artisti. Il problema è che queste sono volontà deboli rispetto alla volontà forte della tecno-scienza. Per cui, sia il mondo della religione sia quelli della filosofia e dell’arte finiscono per essere delle «periferie simpatiche», le quali, però, non incidono sulle modalità con cui si organizza la società. Allora diventano delle oasi, dei rifugi umani, ma non sono certamente ciò attorno a cui si organizza il mondo.
C’è un’assuefazione dilagante, quasi un misto tra seduzione e dipendenza, agli strumenti tecnologici che fanno parte della nostra vita, tanto che, nonostante i tempi di ristrettezze, molti arrivano a indebitarsi pur di avere l’ultimo cellulare alla moda, la televisione al plasma o il computer con la connessione wi-fi. Secondo lei è una gratificazione narcisistica o dietro c’è di peggio?
C’è un grande vuoto di identità: abbiamo affidato agli oggetti il compito di rappre-sentare il nostro stato sociale, simbolico e personale. Gli oggetti di solito riempiono dei vuoti. Sappiamo tutti che molti depressi, come primo rimedio, vanno fuori a fare shopping in modo forsennato. Allora dobbiamo parlare di un mondo tecnologico che si avvantaggia di uno stato depressivo generalizzato nel quale ciascuno di noi ha perso in qualche modo il proprio nome e la conoscenza di se stesso.
Sempre più la nostra vita passa attraverso le connessioni internet: dalle prenotazioni degli esami clinici al pagamento delle pensioni, a scapito delle vecchie code agli sportelli tanto biasimate ma che producevano socializzazione. Finiremo sempre più reclusi in casa?
Sì, e questa sarà proprio quella solitudine di massa cui la tecnica ci abituerà, nel senso che disferà anche le fabbriche, i luoghi comunitari di lavoro, creando quei solitari che comunicano solo di fronte a un computer e attraverso la rete. Questo determinerà anche la perdita dello sguardo umano che incontra un altro sguardo. Basta far riferimento al mondo dei medici: si può benissimo andare dal medico senza che i suoi occhi incrocino mai quelli del paziente, perché tra il malato e lui c’è un esame clinico computerizzato che dà la situazione. Ecco, quando gli uomini finiranno di guardarsi, dopo dovranno chiedersi se c’è ancora qualche tratto umano che li connoti.
Che mondo sarà senza uomini capaci di sognare?
Io penso che il sogno resterà sempre. Il problema è che non venga sequestrato dalla tecnologia e non diventi solo un sogno prometeico, tenendo conto anche del fatto che di fronte alle macchine, gli uomini oggi sono già in una condizione di subordinazione e di insufficienza, perché la macchina ormai è più perfetta dell’uomo. C’è allora il rischio che gli uomini debbano continuamente adeguarsi alla perfezione «macchinale», perdendo così i tratti umani: una macchina non soffre di depressione, non si innamora, non ha passioni, non invecchia se non per usura, superata con i pezzi di ricambio; la macchina non ha le prerogative negative dell’uomo, e quindi verrà preferita sempre più all’essere umano.
Chi o che cosa salverà l’uomo dalle sue ancestrali paure. Forse la filosofia?
Devo dire che la filosofia oggi è molto ambita, probabilmente come una sorta di soccorso a una certa ansia che tutti abbiamo nei confronti del mondo tecnologico. Il quale determina uno sviluppo, ma non un progresso umano; determina qualcosa che avanza senz’altro, ma dove l’uomo finisce per perdere il suo orientamento.
Che cosa ci salverà? Non so neanche se questa può essere una domanda corretta per noi che abbiamo conosciuto l’uomo sulla base di quelle connotazioni che fanno riferimento a categorie filosofiche o letterarie, e non so se gli uomini progressivamente trasformati dalla tecnica, abbiano ancora una malinconia dell’umano.