Magie d'utunno
Bilancia e Scorpione, sono le costellazioni d`autunno. Ogni creatura nasce vive e muore entro il grande e misterioso corpo della natura, questo corpo materno che chiamiamo Terra. Assistiamo e partecipiamo a quegli eterni ritorni che chiamiamo stagioni e che il minuscolo nostro pianeta eternamente prepara e persegue nella immutabile armonia celeste.
All`equinozio di autunno si entra nel segno zodiacale della Bilancia. Il 23 settembre: in questa data, in cui il Sole è a metà dell`anno astronomico, il giorno e la notte hanno la medesima durata cosi come la medesima durata hanno il giorno e la notte all`equinozio di primavera. La Bilancia, dunque, che indica la soglia dell`autunno, è segno di giusto mezzo, di equanimità , di giustizia, ma è anche emblema del tempo, Cronos, che a sua volta è giudice tra la vita e la morte, quel tempo che a ciascuno di noi è concesso secondo una imperscrutabile giustizia.
L`armonia della Bilancia. La Bilancia ha due piatti sempre in bilico, come ago ha una spada, da un lato il buio, dall`altra la luce, da un lato il pieno dall`altra il vuoto. Sui piatti della bilancia san Michele pesa le anime in un dipinto del XII secolo: su un piatto ciò che è buono, sull`altro ciò che è cattivo poiché la costellazione tende da una parte verso la Vergine, dall`altra verso lo Scorpione. Inizia cosi l`autunno, stagione di mutazione dei colori, di passaggio dalla calda alla fredda stagione, di sempre più brevi tempi di luce e sempre più lunghi tempi di buio. Il 23 di ottobre alla Bilancia seguirà lo Scorpione, al segno dell`aria farà seguito quello dell`acqua.
In un cielo sbiadito e striato come un paio di jeans screziati a varechina, ho visto una sera salire dal mare, davanti alla mia casa in Liguria, gli stormi lenti delle migrazioni. Venivano dal mare stanchi, per raggiungere prima del buio la terra, le colline coperte di pini, di eriche e di corbezzoli. Qualche volta giungevano all`alba, erano cesene e colombacci, le avanguardie delle popolazioni alate. Avrebbero trovato ad attenderle le doppie canne dei cacciatori appostati sui roccoli, in attesa, saliti in alto sulle piattaforme di tavole incrociate, lungo le alte scale di pioli traballanti e male inchiodati, al primo chiaro, quando ancora la luce nel bosco non è luce e il sentiero che s`inerpica tra gli scopeti, lo si ritrova a memoria sentendo sotto le suole degli stivali i bossoli azzurri e rossi con la testa metallica, esplosi l`anno precedente.
«I colombi passano due volte, in primavera e in ottobre», dice il vecchio cacciatore di Cerreto, quattro case in cima alla salita, dove il terreno si scopre e il sentiero si fa polvere con il secco e torrente con le piogge. Siede avanti casa, sotto il pergolo delle zucche a fiasco, il gambo lungo e maculato come un collo di giraffa. «È tempo di caccia. Non ha piovuto, ma la stagione si riconosce dal cielo, quando ha questo colore. Cesene, tordi e qualche merlo. Il fucile è pronto, ma le gambe non vanno più bene. Lo tengo così sulle ginocchia, e quando vedo passare cesene e colombacci so che se voglio lo posso usare. Ho pagato la licenza. Ma non lo faccio. L`autunno passato sono salito fin lassù, dove finisce la vigna, mi sono seduto su un sasso e ho sparato in aria, due, tre volte, per sentire la voce del fucile, cosi, sotto il cielo, e nessuno poteva dirmi nulla se avevo avuto voglia di farlo, perché ho pagato la licenza».
A settembre, da un giorno all`altro le eriche sono fiorite, interi campi color malva sotto la pineta, ma a ottobre già si è colorato di zafferano il frutto del corbezzolo. A novembre, per «i morti», le «ciliege di mare» rosseggeranno sulle colline. Arbusto dalle foglie dure e persistenti, il corbezzolo era legato nell`antichità allo stesso pensiero di morte e di immortalità . Un letto funebre di rami di corbezzolo e di quercia fa preparare Enea per il compagno Pallade.
«Io credo, risorgerò, questo mio corpo vedrà il Salvatore», cantavano le donne il giorno dei morti nella chiesina della Misericordia, tornate dalla visita al cimitero sdraiato ai piedi della collina, tra i Sibillini e l`Adriatico, su cui sorge la piccola città marchigiana della mia infanzia, la torre quadrata, absidi e campanili circondati da mura da cui nei giorni chiari si scorge una minuscola fetta di mare. Cantavano le donne vestite di nero con ferma, inattaccabile fiducia. «Risorgerò». Morte e resurrezione, come oggi, in vista di un altro mare, sotto il sole ancora tiepido dei primi giorni di novembre, mi ricorda il rosseggiare dei corbezzoli.
Il cuore dello Scorpione. Dal 23 ottobre siamo usciti dall`armonia della Bilancia per entrare, fino al 21 dicembre, nell`ottavo segno dello Zodiaco, lo Scorpione dove rosseggia la grande stella Antares che gli arabi chiamavano «cuore dello Scorpione». Lo Scorpione domina il centro dell`autunno quando animali e piante si preparano, dopo i venti e le tempeste, ai silenzi dell`inverno in attesa di una nuova esistenza. Nulla rappresenta meglio questa inquietante costellazione se non le procellarie che, dispiegando le ali, volano gridando sopra le onde che battono gli scogli del litorale. Segno in rosso e in nero lo Scorpione: è grido di guerra e canto d`amore.
Gli olivi si caricano dei frutti invernali, tra i loro tronchi, ritorti come membra umane, sono state tese le reti rosse per la raccolta e perché i venti non disperdano il prezioso carico tra i sassi del terreno inclinato e aspro. Nel bosco, dove ogni salto di merlo sulle foglie secche fa sostare di colpo il solitario passeggiatore che fantastica timoroso il passaggio del cinghiale, il sentiero è ricoperto dai tondi involucri aculeati della castagne cadute. Sono piccole castagne selvatiche di cui ci si può riempire le tasche per metterle poi ad arrostire sul fuoco del camino. La polpa è poca ma il profumo è egualmente delizioso, allegria per i più piccini a cui i grandi si prestano volentieri fingendo l`occasione di un`insolita, selvatica merenda nel giorno di Ognissanti, giorno di festa per ognuno.
Nel ricordo della Venuta. Nelle serene notti di dicembre il cielo è alto e stellato ma sui colli liguri non brillano i fuochi dell`attesa, nessuno scruta il cielo nella speranza di veder passare un volo di angeli. Si accendono invece, nella notte tra il 9 e il 10 dicembre, sui colli marchigiani nel ricordo della Venuta, quando la Santa Casa di Maria in Nazareth venne trasportata in volo, dal mare e depositata tra i lauri del colle di Loreto che dai lauri prende il nome.
A mezzanotte, tutte le campane delle Marche suonano a distesa, rintronano i colpi dei mortaretti, spari di fucili si alzano dalle aie e ridestano la campagna dalle montagne al mare. Dal monte della Sibilia, al porto di San Benedetto del Tronto, dal Chienti all`Esino, tutta la valle del Tronto, dal Chienti all`Esino tutta la Marca è in fiamme, nessuna casa è al buio per rischiarare la via della Venuta. Sulle aie delle case coloniche, nelle piazze di ogni paese si è fatta raccolta di fascine per i «focaracci» che ora ardono di religiosa esultanza mentre si alzano i canti in onore della Vergine.
Nove volte i giovani e i fanciulli hanno saltato attraverso i fuochi della Venuta, della cenere e dei tizzoni si farà raccolta per conservarli contro la grandine e le streghe. I pellegrini si preparano a partire alla volta del santuario di Loreto dove giungono a piedi, o su carri trainati da muli e somarelli infioccati di rosso contro l`invidia, o su birocci tirati da una coppia di buoi. Bivaccheranno dinanzi al Tempio, baceranno il suolo e canteranno, si trascineranno ginocchioni fino alla Santa Casa.
Quando faranno ritorno alle loro case porteranno con sé, a protezione e ricordo, piccoli oggetti sacri, frutto di arte e di devozione popolare, statuine della Madonna, nastri istoriati, stoviglie figurate, povere catenine e medagliette, anellini con l`immagine della Vergine lauretana. Alcuni hanno sfiorato con la punta delle dita la porta di bronzo del tempio, altri, i più coraggiosi, si sono fatti incidere alla buona, sull`avambraccio uso a rivoltare le zolle, l`immagine della Signora con Bambino seduta in cima a una pianta di pero in onore di Felice Peretti di Grottammare, salito al soglio pontificio nell`anno 1585 con il nome di papa Sisto V. Francescano di fermi princìpi, repressore del brigantaggio, magnifico realizzatore della cupola di San Pietro, ricordato con orgoglio nella Marca che di lui tramanda il popolare detto «Papa Sisto che non la perdonò nemmeno a Cristo».