Maldicenza e calunnia

07 Novembre 1997 | di

Si può partire da definizioni. È maldicenza il riferire ad altri, che non hanno né il diritto né il dovere di conoscere, delle azioni moralmente riprovevoli avvenute davvero, con nome e circostanze che permettono di identificare l'autore del male.

Calunnia, invece, è quando si attribuiscono a un innocente dei comportamenti cattivi mai avvenuti. Si intuisce la ragione del disordine che è proprio della calunnia. Una persona ha il diritto al proprio buon nome così che l'incrinarne la stima è una ferita ingiustamente provocata.

Occorre essere attenti nel riportare dei fatti. Spesso si passa quasi insensibilmente dalla maldicenza alla calunnia: una nota di colore qui, un colpo di pollice là  nel racconto, e così via: ne vien fuori una menzogna incisiva come un epigramma, o slavata come un romanzo d'appendice.

Anche se può sembrare impegnativo e perfino aspro, occorre ammettere che, nei limiti del possibile - ma davvero di tutto il possibile - , la menzogna va riparata. Se si vuole, in chiave positiva: si impone di ridare la fama, o almeno la stima, alla persona che si è offesa. E la stima non costa meno di cose sottratte all'altro: di vere e proprie ricchezze.

Per quanto concerne la maldicenza, l'osservazione può sembrare eccessiva, ma costringe ad ammettere che si compie un atto ingiusto, quando si toglie la stima a qualcuno senza motivi sufficienti. E, anche qui, non sembra si possa tralasciare il dovere della riparazione. Per quanto si riesce.

A questo punto, sembra di trovarsi di fronte a una morale da cortile o da ballatoio, in un periodo in cui ci si rende presenti a tutti i punti del mondo in tempo reale. Si metta davanti la domanda senza soverchie moine: ma, allora, i tre quarti di ciò che narrano i mass media sono maldicenze?

Non bisognerà  essere troppo precipitosi. Vi sono notizie che si riferiscono a uomini pubblici i quali, liberamente, hanno accettato di buttarsi nella mischia della politica, della magistratura, del governo, ecc. Ebbene, costoro tacitamente accettano che si frughi nella loro vita per stabilire se sono galantuomini o bricconi. Ciò si dica anche se bisogna subito aggiungere che c'è qualche diversità  fra notizie e pettegolezzi.

Se, invece, alcune cronache non entrano nel circuito dell'interesse di una città , di una nazione e così via, rimane l'obbligo di non denigrare inutilmente persone anche non irreprensibili, le quali, però, non rischiano le indagini subìte dai responsabili socialmente rilevanti nei diversi settori palesi di attività .

A costo di passar per 'codini' - ma è solo questione di onestà  - , giustizia vuole che certi colpi giornalistici siano chiamati maldicenze gratuite o delazioni inutili. Il giornalismo non è professione che esonera dagli obblighi propri di una casalinga, di un ferroviere o di un industriale.

Il disordine morale si fa ancor più grave quando non si raccontano fatti accertati - e nemmeno fatti inventati di sana pianta - , ma avvenimenti non ancora provati, verosimili più che veri, surreali più che reali.

Si impone l'obbligo di sceverare gli accadimenti riferibili e quelli no. Si impone anche l'obbligo di una oggettività  che narri soltanto ciò che è narrabile ed è verificato con prove indiscutibili.

Dopo di che, si facciano l'esame di coscienza gli operatori dei mass media, desiderosi di dare le notizie anche quando non sono sufficientemente vagliate e con tendenza alla gonfiatura, oltre che ai particolari inutili, pruriginosi e quasi masochistici.

Invece che allentare le maglie della norma morale, sarebbe meglio chiamare le vicende col loro vero nome, anche se esse si moltiplicano a dismisura tra le mani. Segno che il giornalismo è professione rischiosa: può essere servizio al pubblico, e può essere esercizio di chiacchiere da lavatoio.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017