A mancare non è solo l’acqua
La crisi idrica che torna a colpire il nostro Paese non è, agli occhi dei responsabili politici nazionali e locali oltre che degli operatori economici e sociali, l’occasione per definire, finalmente, una politica dell’acqua, di tutte le acque, della quale il Paese ha un enorme bisogno. Nell’immaginario collettivo l’emergenza idrica resta, anche grazie ai media, un «evento». Certo, ci si rende conto che la crisi è diventata ricorrente e che essa è grave per il fatto che non riguarda più solamente le regioni meridionali, cronicamente in deficit idrico nei mesi estivi, ma tocca oramai sempre di più i bacini delle regioni del Nord Italia – motore economico del Paese – e del centro Nord. Si inizia a realizzare che la crisi riflette un gap strutturale del sistema idrico italiano legato al dissesto generale del territorio, a un livello di perdite delle reti attorno al 35 per cento (media nazionale) con punte che superano il 50 per cento nelle regioni del Sud, agli sprechi e prelievi eccessivi specie nel campo dell’agricoltura e dell’industria, usi energetici compresi.
Ciononostante, le misure adottate dal governo per far fronte alla difficoltà oggettiva mirano principalmente ad «alleviare» le conseguenze negative della riduzione di disponibilità idrica, a cercare di mantenere, malgrado tutto, un’offerta d’acqua sufficiente, a far ricorso a interventi amministrativi e a divieti dei quali in Italia sappiamo il debolissimo valore pratico, al trasferimento di sussidi finanziari per sopperire «localmente» ai bisogni urgenti sul piano dell’ammodernamento delle reti e della qualità del servizio idrico. Ancora una volta sta prevalendo la «cultura dell’emergenza» tradotta semplicemente in aiuti speciali governativi, come se un’ondata di denaro potesse sopperire alla mancanza di una politica di governo pubblico nazionale di tutte le acque, che stabilisce le priorità e i mezzi in maniera precisa, trasparente e partecipata. Diversamente, la pressione degli interessi corporativi sia economici che finanziari e dei soggetti territoriali pubblici forti (Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte), riescono a imporsi, permettendo il prevalere di tante «politiche» settoriali impostate su una logica di difesa di una visione privatistica dell’acqua. Non v’è, così, alcun riferimento al fatto che l’acqua debba essere «governata» in quanto «bene comune» pubblico. Il ruolo principale di coordinamento affidato al ministero dello Sviluppo e delle Attività produttive la dice lunga sulle priorità: l’acqua è vista come risorsa produttiva al servizio dell’economia che rende e dello sviluppo competitivo dei vari territori e delle regioni strategicamente importanti per la competitività delle imprese italiane. Altro che «bene comune»!
Il «male idrico» italiano rischia anche questa volta di non essere sanato mediante interventi strutturali radicali, ormai sempre più imprescindibili. Quali sono? Anzitutto, approfittando della grande campagna di firme per una legge nazionale sull’acqua di iniziativa popolare, è d’obbligo procedere quanto prima alla definizione di un nuovo quadro normativo nazionale di governo di tutte le acque e del territorio fondato sul principio della proprietà e della gestione pubbliche delle infrastrutture. In secondo luogo è doveroso adottare un decreto urgente che sancisca chiaramente la moratoria di qualsiasi affidamento della gestione del servizio idrico integrato nell’attesa del nuovo quadro di normative nazionale, per evitare la prevaricazione di Società per azioni che, sebbene a capitale sociale a maggioranza pubblica, rimangono pur sempre ispirate da una logica privata mercantile e finanziaria. Infine, è urgente fare attenzione agli sprechi: l’acqua per usi irrigui, industriali ed energetici è prelevata senza nessun limite, a costo quasi nullo per gli utilizzatori ma a costi inaccettabili per la collettività.