Mano tesa a tutte le povertà
L";anno che si apre si annuncia denso di sfide per la comunità internazionale e "; al suo interno, e come parte tanto rilevante della sua coscienza critica "; per la Santa Sede e per Papa Benedetto XVI. Il 2005 non ha segnato il necessario mutamento di rotta sulle questioni mondiali più cruciali, quelle delineate dai cosiddetti «Millennium Devolopment Goals», gli obiettivi del Millennio a suo tempo fissati dall";Onu. Il 2005 che si era aperto con la commendevole solidarietà alle vittime dello Tsunami in Asia "; per una volta concretamente dimostrata da molti Governi "; non ha saputo trovare strumenti per «rendere sistema», nei rapporti mondiali, tale solidarietà . La situazione è anzi peggiorata in base a tutti i parametri sui quali gli organismi internazionali valutano lo sviluppo: aspettativa di vita, accesso alle risorse, qualità dei servizi. Insomma, il mondo sta sempre peggio. Persistono le guerre, aumentano denutrizione e malattie, diminuiscono redditi e tutela dei diritti fondamentali.
Sul piano ambientale, una lezione dolorosa è venuta quest";anno proprio dagli Stati Uniti, cioè dal Paese più ricco del mondo, con il prezzo terribile in vite umane pagato a scelte politiche che alla mitizzazione del mercato, all";individualismo elevato a sistema, sacrificano l";impegno pubblico a tutela del territorio. E tale tragedia statunitense appare persino contenuta, se paragonata a quelle dell";Asia, dove sterminate popolazioni restano esposte alla devastante minaccia non solo e non tanto delle catastrofi naturali, quanto della miseria che le rende immense. E ciò è valido anche dove "; si pensi alla Cina "; la tanto decantata crescita economica sembra far registrare un";avanzata inarrestabile, ma la società civile sconta una visione dello sviluppo che assomma i difetti del liberismo selvaggio e quelli di uno statalismo esasperato che non cede terreno. In America Latina, un";uguale miseria è il prezzo pagato all";omologazione a modelli di altrettanto presunto sviluppo, gestiti con una forzata moltiplicazione dei bisogni indotti per moltiplicare i consumi, una finanza internazionale sempre più scollegata dall";economia reale.
Democrazie assediate dagli speculatori
Anche nel Nord ricco del mondo, la tutela del lavoro arretra a livelli mai conosciuti in epoca industriale, le democrazie subiscono e non governano i processi della cosiddetta globalizzazione, e sempre più spesso confidano nella forza, economica o militare che sia, e non sui valori di cui pure restano i principali alfieri. La stessa Europa, forgiata dall";idea cristiana di fratellanza, e culla dello Stato sociale, sembra segnare il passo, dopo tanti e commendevoli sforzi verso un processo di unificazione che è stato certo l";evento più rilevante nella storia della mutualità tra i popoli.
Né, tale denuncia riguarda solo la sfera più propriamente economica e sociale. Anche gli strumenti propri della politica si banalizzano, e gli slogan, spesso beceri, quasi sempre urlati, prendono il posto del severo confronto tra programmi e della ricerca di contemperamento tra interessi diversi. Eppure, già ai propri immediati confini, per non parlare delle minacce interne, l";Europa può leggere chiaramente le conseguenze inevitabili dell";affidarsi meramente alla forza. L";Iraq e l";Afghanistan sono ancora oggi zone di guerra, qualunque sia il nome che si voglia dare a chi la conduce e a chi vi è coinvolto. In tutto il Medio Oriente è proseguita "; nonostante sviluppi significativi e complessivamente positivi dell";annoso conflitto israelo-palestinese "; la spirale cruenta delle violenze. La stessa lotta al terrorismo è scandita (si pensi alle tante denunce di violazioni dei diritti umani), da arretramenti di principi che negano nei fatti il presupposto, tanto sbandierato da laudatori almeno sospetti, della battaglia a difesa di una civiltà rispettosa dell";uomo.
E poi c";è il «continente martire»: l";Africa che versa da mille e mille ferite il sangue dei suoi figli stremati da conflitti incancreniti. C";è l";Africa che muore per fame. Un senso di scoramento e di impotenza, che pure non deve e non può tradursi in una flessione dell";impegno e della denuncia, coglie ogni retta coscienza alla lettura dei rapporti internazionali. Si pensi all";ultimo, diffuso dalla Fao, l";agenzia dell";Onu per l";alimentazione e l";agricoltura, sullo «Stato di insicurezza alimentare nel mondo». Ed è certo difficile trovare motivi di consolazione se ogni anno sei milioni di bambini sono uccisi dalla fame, una cifra che è quasi raddoppiata da malattie che della denutrizione sono conseguenza diretta o indiretta, se tutti i parametri mostrano il persistere di una strage di innocenti che ha come armi, accanto a quelle proprie della guerra e dello sfruttamento, malattie facilmente curabili o già sconfitte in parti del mondo più fortunate del suo Sud devastato.
Una convivenza basata sullo sviluppo
Chiunque abbia studiato anche un minimo di geopolitica non ignora che sarebbero facilmente sostenibili, per non dire irrisori su scala planetaria, i costi per fornire i necessari sostegni alimentari e sociali attraverso reti di sicurezza per i poveri e programmi di alimentazione per le madri e i neonati. Ma la comunità internazionale sembra ancora lontana dal comprendere "; e dall";applicare nei fatti "; l";assioma evidente che la riduzione della fame è l";unica forza trainante verso il progresso e l";unico strumento per dare davvero sostanza alla speranza dei popoli, per costruire l";assenza di conflitti, la parità tra uomini e donne, il principio del buon governo.
In tale contesto, con Papa Benedetto XVI la Santa Sede mantiene ferma la direzione tracciata dal Concilio e dai grandi pontificati del secolo appena trascorso. I riferimenti continui fatti da Benedetto XVI all";insegnamento del suo grande predecessore non sono un «tributo» dovuto e in qualche modo «scontato», ma piuttosto una riaffermazione "; con stile e con modalità proprie "; di un impegno per la causa dell";uomo che resta immutato. In questo senso, per quanti cercano di testimoniare in questi anni cruciali la dottrina sociale e l";impegno internazionale della Chiesa, e per quanti ne sono osservatori attenti, sarebbe sciocco qualunque rimpianto "; che non è certo memore gratitudine "; per Giovanni Paolo II. Numerosi e autorevoli interventi, del Papa e dei suoi collaboratori nei diversi consessi internazionali, a partire dalla diplomazia vaticana e dai dicasteri operativi della Santa Sede, mostrano tale convincimento. Per fare un solo esempio, l";azione divulgativa del nuovo ed esaustivo compendio della Dottrina sociale della Chiesa che negli ultimi mesi ha condotto in tutto il mondo il Pontificio Consiglio della Giustizia della Pace, a partire dal suo Presidente, il Cardinale Renato Raffaele Martino, testimonia di una persistente e rafforzata convinzione della scelta prioritaria al servizio dei più poveri.
Allo stesso modo, a quanti hanno voluto «leggere» i primi mesi del nuovo pontificato come una sorta di «restaurazione» dell";identità cattolica in senso occidentalista, danno smentita le reiterate insistenze della Santa Sede e di Benedetto XVI sulla dimensione planetaria delle diverse questioni aperte della convivenza tra i popoli e tra le culture.
In questo senso, le organizzazioni internazionali, prima tra tutte l";Onu, restano insostituibili, indipendentemente dalla necessità di riformarne la natura e le strutture. All";approfondirsi dei legami esistenti tra gli Stati, corrisponde un";aumentata coscienza "; della quale la Chiesa offre un";indubbia e consequenziale testimonianza "; dei rapporti di interdipendenza che ne derivano e della necessità di accrescere gli strumenti mondiali di concertazione e di indirizzo. Se c";è una convinzione che i decenni del post Concilio hanno chiarito a tutti, è proprio questa: la Chiesa "; e in essa l";azione della Santa Sede "; non ha «alleati preferenziali». Semmai, preferenziale e irrinunciabile è la scelta di aprire le braccia nel gesto della fratellanza a tutte le religioni, di tendere la mano a tutte le povertà di ogni donna, di ogni uomo, di ogni vecchio e di ogni bambino.