Martiri, fedeli per amore
Martedì 3 febbraio. Sulla scrivania di papa Francesco arrivano alcuni documenti un po’ particolari. Manca solo la sua firma per riconoscere che gli omicidi di quattro sacerdoti, alla fine del secolo scorso in America Latina, non sono stati «solo» feroci delitti: le circostanze degli attentati rendono le vittime veri martiri, perché sono state uccise – così si esprime il linguaggio giuridico – «in odio alla fede». Le loro storie lo dimostrano oltre ogni dubbio: erano cristiani che cercavano di seguire le orme di Gesù là dove erano stati chiamati a vivere. Sono stati fermati, ammazzati, proprio perché ci stavano riuscendo, e quindi davano fastidio.
I loro nomi sono Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, ammazzato il 24 marzo 1980; Miguel Tomaszek e Zbigniew Strzałkowski, frati conventuali uccisi a Pariacoto, in Perù, il 9 agosto 1991; infine Alessandro Dordi, missionario bergamasco ucciso a Rinconada, sempre in Perù, il 25 agosto dello stesso anno.
Ma torniamo per un attimo al 3 febbraio nell’ufficio del Papa. Francesco prende visione dei documenti, presentati dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi. Poi dà il suo via libera: sì, sono davvero martiri della fede. Per come abbiamo imparato a conoscere papa Bergoglio, il colloquio deve essere stato tutto tranne che freddo e burocratico, ma non è dato sapere quali parole il Santo Padre abbia riservato per le figure che ora saranno proclamate beate. Sì, perché il riconoscimento ufficiale del martirio produce questa conseguenza diretta: i quattro diventeranno beati. Già fissata per il 5 dicembre la cerimonia per i martiri del Perù, mentre, al momento in cui scriviamo, non è ancora stata comunicata la data della celebrazione per monsignor Romero. All’inizio si era diffusa la suggestiva ipotesi che la beatificazione si sarebbe tenuta il 24 marzo, trentacinquesimo anniversario del martirio. Significativo, invece, che proprio questo giorno sia stato scelto, ventitré anni fa, dalla Cei per celebrare la Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri, a dimostrazione che la fama di santità di Romero era già diffusa tra innumerevoli fedeli.
I frati martiri del Perù Rispetto all’arcivescovo Romero, i martiri del Perù – i primi beati martiri che questo Paese possa vantare! – sono di certo meno famosi. I lettori del «Messaggero di sant’Antonio», però, ricorderanno forse di aver letto di loro su queste pagine, in particolare nel ventesimo anno della loro scomparsa, quando Caritas Antoniana dedicò al Perù la sua principale iniziativa annuale: il Progetto 13 giugno. Così, nel paesino tra le Ande dove fra Miguel e fra Zbigniew operarono, sorge oggi il «Centro pastoral social san Antonio de Padua in Pariacoto», gestito dai frati, che accoglie i bambini del villaggio e quelli delle montagne della zona, per dare loro un’istruzione di base più solida che inneschi un futuro migliore.
Pariacoto sorge non troppo distante dall’Oceano Pacifico, in quella terra di mezzo dove la pianura inizia a incresparsi, in vista delle vette andine. L’altitudine è di 1.200 metri, ma tutto intorno si superano già i 4 mila: il territorio della missione comprende cinque parrocchie e settantaquattro villaggi andini delle alture. Qui, il ministero di fra Miguel e fra Zbigniew è durato solo un paio d’anni (ma il loro, e nostro, Maestro testimonia che pochi anni sono un tempo sufficiente per annunciare l’intero Vangelo). Erano arrivati dalla Polonia, freschi di ordinazione, nel 1989, per fondare la missione di Pariacoto, la prima presenza dei frati conventuali in Perù.
La foto che li ritrae sorridenti, in saio grigio, con le palme alle spalle, risale a quel momento iniziale. Il terzo di loro era fra Jarek Wysoczan´ski, votato come guardiano della piccola fraternità. L’ambiente povero, senza tanti mezzi; la vita fraterna, e la fraternità come stile di relazione con tutti; la pastorale giovanile e vocazionale; la liturgia partecipata e il catechismo; la grande fiducia nella Provvidenza; l’aiuto medico, sociale e caritativo offerto tanto ai vicini che ai lontani, quelli delle alture, da raggiungere con giornate di cammino. Tutte queste attenzioni hanno caratterizzato il ministero dei tre frati, vissuto con l’entusiasmo dei 30 anni unito a genuina passione francescana. Il «guaio» è che hanno avuto successo.
Gli abitanti della missione si sono lasciati contagiare da questi bianchi poveri, sacerdoti e servi, maestri e compagni di strada al contempo. Hanno cominciato ad apprezzarli e a coinvolgersi: alcuni giovani addirittura sono entrati in postulandato, per prendere sul serio la possibilità di essere chiamati a consacrarsi. Il punto di svolta, poi, è il 4 ottobre 1990, festa di San Francesco. Vengono invitate le cinque parrocchie, e gli abitanti dei villaggi. Verranno? Con tutta la strada che hanno da fare? Vengono! Portando chi una capra, chi del mais, chi delle galline. Sono offerte per il convento, ma vengono messe subito a disposizione e cucinate, per festeggiare tutti insieme, tra musiche e danze. «Mai si era vista tanta gente a Pariacoto – ricorda fra Jarek –. Ripensandoci, credo che quella festa così riuscita fu la nostra condanna. Era una manifestazione di fede, di amore, di solidarietà, di condivisione, la scelta del popolo di diventare protagonista del territorio insieme con i frati, con la Chiesa. Non tutti potevano esserne soddisfatti».
Avevano 31 e 33 anni Il Perù di quegli anni vive la piaga di Sendero Luminoso, movimento guerrigliero maoista che mira a rovesciare il governo e a prendere il potere. Alcuni attacchi sono contro la Chiesa, presa di mira quando esce dalle sacrestie e si impegna attivamente nello sviluppo umano dei poveri. Nei dintorni di Pariacoto i segnali della presenza dei senderisti si moltiplicano: anche il vescovo locale viene fatto oggetto di attentati, tuttavia senza conseguenze.
Non arriva nessun avvertimento diretto contro la missione francescana, ma la tensione è palpabile. Pur sapendo di rischiare, i frati decidono di rimanere con i propri fedeli. Anche in quel 9 agosto 1991. Un venerdì qualsiasi, verso sera. Strani movimenti in paese. La cuoca se ne rende conto, e corre ad avvisare i frati. «Non abbiamo niente da nascondere. Se vengono, daremo testimonianza della verità» risponde fra Zbigniew, e si appresta a celebrare la Messa. Con lui fra Miguel, mentre fra Jarek è in Polonia, rientrato per il matrimonio della sorella. Verso le 21, i senderisti si fanno aprire il convento e chiedono dei frati; legano loro le mani e li spingono dentro una jeep. Una suora, Berta, non vuole lasciare soli i religiosi, e così viene sequestrata anche lei. È testimone del processo sommario al quale Miguel e Zbigniew vengono sottoposti. Le accuse sono di ingannare il popolo per intorpidirlo e dominarlo, usando il rosario, il culto dei santi, la Messa e la Bibbia: menzogne. Ai due frati viene imputato anche di anestetizzare la gente, frenandone l’impeto rivoluzionario, con la predicazione della pace; di essere servi della religione, che per i guerriglieri è l’oppio dei popoli. Non c’è spazio per ribattere: suor Berta viene scaraventata fuori dall’auto in corsa. I terroristi si proteggono la fuga bruciando un ponte, e a Pueblo Viejo, poco fuori dal paese, fanno scendere i due e li freddano con un colpo in testa.
Avevano 31 e 33 anni. Sui corpi è lasciato un biglietto col simbolo della falce e martello e una scritta: «Così muoiono i servi dell’imperialismo».
Oggi è certo quello che fin da subito in tanti pensarono: il loro fu vero martirio. E tra qualche mese potremo pregare sulle tombe di fra Miguel e fra Zbigniew – e su quella di don Sandro Dordi, morto pochi giorni dopo in circostanze analoghe – invocandoli come «beati». Non sappiamo se così muoiano i servi dell’imperialismo. Di certo così vivono i servi di Dio.
ZOOM È l’ora del perdono Quante volte il suo pensiero e la sua preghiera vanno a Pariacoto, ai compagni martiri, alla loro missione… La vita di fra Jarek Wysoczański da quel 9 agosto 1991 è cambiata. Non era lì a donare la vita con Miguel e Zbigniew, ma qualcosa è morto ed è rinato anche in lui. Ora che i suoi amici confratelli sono sul punto di diventare beati, le emozioni si accavallano: «Il processo di beatificazione – racconta poche ore prima di imbarcarsi proprio per Lima – è stato lungo e impegnativo, e in tanti hanno lavorato sodo, in Perù, in Polonia e in Italia, per raggiungere questo risultato. È davvero una grazia essere arrivati fin qui».
Msa. Quali sensazioni ha provato?Fra Jarek. Due principalmente: da una parte ho la conferma che Miguel e Zbigniew hanno sempre vegliato su di noi e sul nostro percorso, proteggendoci e rinfrancandoci nei momenti di scoramento e sostenendoci nel cercare sempre il bene. Dall’altra, sento che ora ci provocano in maniera ancora più forte a diventare santi, ci invitano a vivere il Vangelo con coraggio, secondo lo stile delle beatitudini, vivendo da poveri tra i poveri. È in linea con quanto chiede papa Francesco: loro sono l’esempio di come andare nelle periferie.
Coraggio, Vangelo, periferie. C’è qualche altra parola chiave da aggiungere? Sì, e fondamentale. È perdono. Vorrei incontrare ciascuna persona che ha avuto a che fare con gli omicidi e offrire l’abbraccio della riconciliazione. C’è già tanta guerra nel mondo: la beatificazione deve diventare l’occasione per perdonare. Non significa dimenticare: significa che il male non ha l’ultima parola, e che umilmente, tutti, possiamo imboccare la strada della pace.
Oggi lei è segretario generale dei frati conventuali per l’animazione missionaria. Miguel e Zbigniew cosa insegnano alle missioni? Mi piacerebbe imparassimo da loro questo modo umile, semplice, di stare in mezzo alle persone, e a quelle più povere in particolare. Non sono i mezzi economici che contano. Miguel e Zbigniew ci interrogano: dove fondi la tua sicurezza? La tua missione? I frati martiri sono un simbolo della missione francescana: incarnano fino in fondo il coraggio di lasciarsi guidare da Dio e di abbracciare il Vangelo, restando uniti a Gesù fino a donare la vita.