A Marzabotto fu strage. I giorni del ricordo
In una guerra, a morire non sono soltanto i soldati sui fronti del combattimento, ma anche i civili innocenti, bambini, persone anziane, donne. E i sacerdoti, che pur si adoperano nel soccorrere le popolazioni e nel confortarle con le parole del Vangelo. Nell'ultimo conflitto mondiale, l'Italia, più di altri Paesi, ha contato un numero altissimo di vittime fra la popolazione non belligerante.
All'indomani dell'armistizio dell'8 settembre 1943, la nazione si trovò nettamente divisa in due, militarmente e politicamente. Nelle regioni meridionali, lo sbarco degli alleati aveva creato una zona franca in cui saggiamente Vittorio Emanuele III, lasciando Roma, aveva potuto rifugiarsi perché non cadessero in mano tedesca i vertici del potere istituzionale italiano. Nelle zone centro-settentrionali, sotto il tallone delle truppe germaniche, era stata invece istituita la Repubblica Sociale, con sede a Salò, che Hitler aveva affidato all'ormai stanco e sfiduciato Benito Mussolini rocambolescamente liberato dalla prigionia del Gran Sasso e posto a capo di uno Stato fantoccio come un qualsiasi Quisling. Era una Repubblica che avrebbe resistito alla stregua delle linee fortificate con cui la Wermacht aveva diviso in due lo Stivale: la Gustav, la Albert e la Gotica. Così vi era una parte della popolazione italiana libera dal giogo nazista e un'altra che si apprestava a subire le severe ritorsioni delle armate del Terzo Reich.
L'anomala situazione in cui venne a trovarsi l'Italia, diede origine alla formazione di numerosi gruppi di partigiani composti da civili e anche da ex militari che, dopo lo sfascio delle forze armate, avevano gettato le uniformi per combattere autonomamente in nome della liberazione della patria dallo straniero. E si era nel pieno della resistenza.
La feroce repressione con cui risposero i tedeschi, alla quale non mancò di associarsi quella delle molte brigate nere della Repubblica Sociale, provocò, nel biennio 1943-45, oltre quattrocento stragi di civili italiani con un bilancio di circa quindicimila vittime.
Uno fra i più abominevoli eccidi di civili si consumò nella pianura padana quando, nell'autunno del 1944, la situazione delle forze militari tedesche era già diventata fortemente critica. Dopo il cedimento della linea Gustav, sul fronte di Cassino, anche la linea Albert, che andava da Grosseto a Perugia, si era sbriciolata sotto l'assalto degli Alleati, i quali avevano già liberato Roma. Fra l'agosto e il settembre il fronte si era stabilizzato sulla linea Gotica, per cui l'area a nord di questo estremo argine difensivo era ormai vitale per le truppe della Wermacht che si assicuravano retrovie sufficientemente tranquille in caso di ulteriori ritirate verso i confini alpini.
Ma eccoci a Marzabotto, uno dei paesini emiliani, ad appena venticinque chilometri da Bologna, sulle colline appenniniche digradanti verso l'alta valle del Reno. All'epoca contava all'incirca seimila abitanti, per lo più dediti all'agricoltura e all'industria cartaria. Il luogo aveva acquisito una certa notorietà all'inizio dell'800 quando, nei pressi, era stato riportato alla luce il primo insediamento urbano etrusco, l'antica polis di Misa, distrutta dalle orde dei galli nel IV secolo a.C. Chi avrebbe mai potuto immaginare che duemila e quattrocento anni più tardi, una squadra di feroci aquile nere avrebbe seminato morte e distruzione in quella cittadina!
La zona di Marzabotto dipendeva da un ufficiale delle SS, il maggiore austriaco Walther Reder, che comandava uno squadrone della sedicesima divisione Panzergrenadier, Adolf Hitler. Egli era un freddo e rude discepolo del leader nazista viennese Arthur Seyss-Inquart, e nel 1938 era stato coinvolto nell'assassinio del cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss. Aveva partecipato all'occupazione della Francia, e per l'occasione si vantava di essersi lavato i denti con lo champagne. Poi in Ucraina, mentre - come diceva - contemplava le acque di un ruscello presso Charkov, un proiettile dell'Armata Rossa gli aveva staccato un braccio. Da allora fu soprannominato il monco, ma per gli amici era Bubi, tra loro famoso perché andava all'assalto ripetendo a gran voce il ritornello di una canzonetta spagnola: Caramba, caracho, ein whisky, invece del più classico grido guerriero Heil Hitler. Insomma, era uno di quei soldati che avevano recepito appieno un comandamentodelFà¼hrer: Dovete essere crudeli, dovete esserlo con coscienza, dovete distruggere tecnicamente, scientificamente, tutti i nemici.
Don Fornasini l'aveva previsto
E così avrebbe fatto nelle campagne di Marzabotto in cui già nel mese di giugno i tedeschi avevano massacrato quattro civili. In quell'occasione, un energico prete di Sperticato, don Giovanni Fornasini, aveva disobbedito all'ordine di lasciare i cadaveri insepolti, e aveva altresì pronunciato dal pulpito alcune parole tristemente profetiche: Queste sono le prime quattro vittime innocenti!. Non immaginava che il 12 ottobre anche lui avrebbe versato il suo sangue, come avvenne nel paesino di San Martino di Caprara quando rimproverò per i suoi misfatti un ufficiale delle SS.
Il comandante dell'armata tedesca in Italia, Albert Kesselring, aveva gettato gli occhi su Reder fra tanti essendosi egli specializzato nella caccia ai partigiani. Così il monco cominciava una sua lenta marcia che dalla Versilia lo avrebbe condotto nel bolognese, lasciando dietro di sé un'interminabile scia di sangue, colpendo soprattutto i paesi di Sant'Anna di Strazzema, di Valla, di San Terenzio, di Vinca, di Frigido e di Bergiola.
I valichi dell'Appennino romagnolo erano nelle mani della brigata partigiana Stella Rossa che operava specificamente nell'area di Monte Sole. I tedeschi si erano posti l'obiettivo di liquidare queste truppe per garantire alle forze delle Wermacht un più sicuro ritiro. Dopo una dura caccia ai banditi italiani che aveva portato alla decimazione della brigata Stella Rossa, la domenica del 29 settembre si dava inizio a una severa rappresaglia contro la popolazione civile nei comuni ai piedi del Monte Sole. L'eccidio ebbe inizio a Caviglia, nella chiesetta del paese. Qui il parroco don Ubaldo Marchioni aveva radunato la popolazione per la recita serale del Santo rosario. Proprio mentre i fedeli innalzavano al cielo i loro ora pro nobis in risposta alle litanie lauretane, a centinaia furono colpiti da scariche di mitragliatrici e dal lancio di bombe a mano attraverso le finestre dell'edificio sacro. I grani delle corone del rosario nelle mani dei fedeli si intrisero di sangue.
Seguì una serie di altri rastrellamenti, come in una sorta di ordalia: a Castellano furono falcidiati una donna con i suoi sette figlioletti, a Caprara vennero fucilate centootto persone fra cui dieci bambini, a Tagliadazza caddero undici donne e otto fanciulli. Ma il peggio doveva ancora arrivare!
Dal 29 settembre al 18 ottobre gli abitanti di Marzabotto, Grizzana e Vado di Monzuno furono sterminati senza riguardo al sesso e all'età : 1836 persone! Fra di esse vi erano duecento bambini, il più piccolo si chiamava Walter Cardi e aveva appena due settimane. Nel comune di Marzabotto si distrussero centinaia di abitazioni, scuole, cartiere, ponti, chiese e oratori in cui i sacerdoti ospitavano e curavano i giovani che la guerra aveva privato dei genitori e di un tetto. Non furono risparmiati neppure i cimiteri.
La stampa locale nega la strage
A Bologna la notizia del massacro si seppe rapidamente per bocca degli stessi scampati alla strage. Costoro, sotto i colonnati di piazza Maggiore, di fronte al Palazzo del Podestà e a San Petronio, raccontavano inorriditi l'esecrando crimine di cui erano stati attoniti testimoni. Lo sdegno e lo sgomento dei bolognesi si mutarono in condanna, e non soltanto verso l'odiata tedesca rabbia - così Francesco Petrarca aveva apostrofato secoli addietro gli eserciti germanici che già allora imperversavano in Emilia - ma anche verso i molti fascisti del luogo e i piccoli gerarchi che come conigli si erano rintanati tra le mura delle caserme cittadine.
Nel tentativo di evitare che divampasse una reazione popolare incontenibile, il prefetto Fantozzi, il questore Fabiani e il segretario federale del fascio, Tebaldi, cercarono di soffocare le voci dei testimoni dell'eccidio. E arrivarono a smentire la notizia sul giornale della città Il Resto del Carlino che l'11 ottobre 1944, XXII dell'Era Fascista, scriveva: Le solite voci incontrollate, prodotto tipico di galoppanti fantasie in tempo di guerra, assicuravano fino a ieri che nel corso di un'operazione di polizia contro una banda di fuorilegge, ben centocinquanta fra donne, vecchi e bambini, erano stati fucilati da truppe germaniche durante un rastrellamento nel Comune di Marzabotto. Siamo in grado di smentire queste macabre voci e il fatto da esse propalato.
La notizia non mancava, però, di arrivare a Salò, sulle rive sassose del lago di Garda. Inizialmente fra le mani di Mussolini finì soltanto una sintetica nota inviatagli dal questore di Bologna, il quale descriveva le vittime dei rastrellamenti come settecento fuorilegge della brigata partigiana Lupo. Si adombrava l'ipotesi che potessero essere stati uccisi anche degli abitanti, compresa qualche donna, in quanto molti casolari sparsi nella campagna erano stati trasformati dai banditi in veri e propri fortilizi.
Il duce però seppe la verità da un ulteriore dispaccio che gli inviò il segretario comunale di Marzabotto e, a onor di cronaca, egli ne rimase scosso al punto da inviare una lettera di protesta a Hitler, una missiva che rimase senza risposta. L'unico provvedimento che il duce riuscì a prendere fu di rimuovere alcuni ufficiali dalla piazza di Bologna, ma nulla poté contro il maggiore Reder, poiché, ironia della sorte, un semplice graduato delle SS era nei fatti più potente del capo della Repubblica Sociale. La sequela di morte non ebbe termine neppure con la fine della guerra, nella primavera del '45. La Romagna fu insanguinata da una violenta guerra civile combattuta fra partigiani e fascisti, e che doveva tingere di rosso le acque del Po e dei suoi affluenti.
Il processo a Walther Reder
Ma la strage di Marzabotto fu archiviata? Nel 1946 la Corte di assise di Brescia giudicava due italiani, i repubblichini Lorenzo Mingardi e Giovanni Quadri, rei di aver preso parte alla strage. Ai loro danni fu pronunciata una sentenza per collaborazione, omicidio, incendio e devastazione. Mingardi fu condannato alla pena capitale, poi tramutata in ergastolo; Quadri a trent'anni. Entrambi sarebbero stati scarcerati nel 1953 in seguito a un'amnistia. L'anno successivo toccava a uno degli ufficiali tedeschi, Max Simon, che era stato uno dei collaboratori di Reder.
Reder restava invece latitante. Dopo la rotta dell'esercito tedesco e la morte del suo osannato Fà¼hrer era fuggito in Baviera con la speranza di potersi nascondere sotto falso nome per poi spiccare il volo oltre Oceano. Ma neppure lui poté sfuggire alla Nemesi, alla giustizia vendicatrice: fu infatti catturato dagli americani e condotto a Bologna per essere a sua volta processato. E lì, nel 1951, il Tribunale militare lo riconosceva personalmente colpevole di gran parte dei 1836 omicidi commessi nell'eccidio. Il monco avrebbe trascorso più di trent'anni in una cella del forte angioino di Gaeta, la stessa prigione in cui era stato rinchiuso un altro boia nazista, Herbert Kappler, uno dei responsabili dell'eccidio delle fosse Ardeatine.
In seguito, il desiderio di verità fece aprire gli armadi della vergogna dove erano stati sepolti i fascicoli della strage per individuare e processare altri colpevoli, non per spirito di vendetta ma per amore di giustizia.