Matrimonio oggi: una fedeltà a dura prova
È stato senatore della Repubblica e docente universitario. È saggista e fondatore di comunità di accoglienza, direttore scientifico della Scuola Superiore di Umanizzazione della Medicina, giornalista nonché autore televisivo.
Ma Alessandro Meluzzi è, soprattutto, un uomo di profonda fede (può vantare anche un baccalaureato in Filosofia e Mistica presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma) che – ci ha confessato – nutre la speranza di diventare diacono permanente.
Lo abbiamo incontrato in occasione dell’uscita del suo ultimo libro: ErosAgape. Un’unica forma d’amore (pubblicato dall’editrice dei Carmelitani).
Msa. Professor Meluzzi, come mai la scelta di un tema così impegnativo?
Meluzzi. Perché sono rimasto profondamente colpito dalla lettura dell’enciclica di Benedetto XVI, Dio è amore, nella quale il concetto della stretta integrazione tra la passione (eros), e l’amore-dono (agape), che è anche scambio e solidarietà, è espresso in modo magistrale. Quell’enciclica per me è stata come un canto all’unità, un segno profetico, e con il mio piccolissimo saggio ho inteso leggere quell’insegnamento alla luce della realtà del mondo, dell’amore tra uomo e donna, dell’amicizia, della famiglia, della maternità e della paternità, della cura del dolore nei medici, fino ad approdare al tema della croce. E sono rimasto stupito leggendo il messaggio del Pontefice per la Quaresima, nel quale questi stessi temi sono ripresi con forza.
Oggi che cos’è l’amore?
L’amore è tante cose insieme. È, soprattutto, incomprensibilità e mistero, perché ha in sé il germe dell’infinito ed è in sé una delle manifestazioni dell’infinito. È quella tensione all’altro che nasce anche da un’assenza e che fa continuamente ricercare l’assente, chiunque esso sia. È manifestazione di una tensione alla totalità (lo spazio) e all’eterno (il tempo), cui la natura umana non può sottrarsi. L’amore, in definitiva, è una manifestazione di eternità nell’uomo.
Lei apre il suo saggio con il tema del deserto. Ma in che rapporto stanno «deserto, amore e relazione»? In altri termini: per imparare ad amare bisogna per forza imparare a «sostare nel deserto»?
Per imparare ad amare bisogna imparare a spegnere quell’assordante rumore di fondo che spesso ci impedisce di guardarci dentro e di guardare l’altro. Un chiasso che non ci permette di amare l’altro come noi stessi, perché non ci fa incontrare noi stessi. Ma se per poter amare l’altro bisogna avere la capacità di sostare nel deserto, è anche vero che l’identità e la profondità della conquista di sé sono il risultato di una relazione. Quindi non c’è relazione senza deserto, ma non c’è intimità con se stessi e conoscenza di sé senza relazione. Se ci pensiamo bene, anche l’approdo del monachesimo è uno straordinario amore erotico con la dimensione del divino. Quindi, sempre e comunque, anche al centro della solitudine, c’è una relazione.
In quale modo l’incontro con l’altro ci apre al Mistero?
Dischiudendoci alla nostra non autosufficienza, ci apre alla dimensione dell’ascolto e, soprattutto, alla sensazione che quella scintilla divina che c’è in noi può trovare conferma e realizzazione soltanto nel rispecchiamento e nell’incontro con l’altro. Gli indiani hanno una bella espressione, namasté, «saluto il divino che c’è in te»: la reciprocità di questo saluto è la più formidabile riprova della presenza del divino nel cuore dell’uomo, per citare sant’Agostino.
Qual è, secondo lei, la più grave «malattia» di cui soffre la coppia moderna?
Soffre soprattutto del fatto di essere coppia. Nel libro ci ritorno spesso: la coppia è un’invenzione recentissima, degli ultimi cinquant’anni. Prima esisteva la famiglia, che aveva altri tempi, altre distanze, altre finalità, un’altra vitalità basata sulla sua intrinseca fecondità, non solo riproduttiva. La coppia è un’illusione un po’ neoromantica, un po’ razionalista basata sulla convinzione che i meccanismi funzionali in grado di mettere insieme un uomo e una donna siano gli stessi che possono mantenerli insieme a lungo. Ma è un errore. Questa incapacità di crescere, di «coevolvere» insieme è una delle malattie principali della coppia, proprio perché è coppia e non famiglia.
Che cos’è la famiglia?
La famiglia è la condizione naturale della vita dell’uomo. Perché è condizione naturale della trasmissione del mistero della vita, che è dono attraverso un atto gratuito d’amore.
E la maternità?
La maternità è il centro della dimensione del femminile, ma anche di tutta la condizione umana che, ovviamente, senza maternità cesserebbe. Ma anziché un evento che ha la supremazia su ogni altro ragionamento e progettualità razionalista, la maternità oggi rischia di diventare un tardivo atto narcisistico che si compie al termine di una specie di cursus honorum della vita, una sorta di tappa conclusiva che viene posizionata inevitabilmente alle soglie della menopausa.
Nel suo libro scrive che «il coniugato sessualmente attivo e fedele è una sorta di monaco, che pratica una forma di eroismo erotico. Questo implica un esercizio di tipo monastico che passa attraverso la contemplazione». Vale a dire?
La fedeltà, nel mondo in cui viviamo, è altamente improbabile. Per questo oggi più che mai la fedeltà coniugale è una sorta di sacerdozio. Ed è un sacerdozio nel quale l’incontro con il corpo della partner, dopo cinque, quindici, trent’anni, è quasi un miracolo. Nelle generazioni che ci hanno preceduto c’era una specie di compressione e rallentamento della sessualità. Oggi, invece, la possibilità di avere rapporti promiscui, diversi, paralleli e la nostalgia dell’emozione del primo incontro, spinge gli uomini e le donne lontano da questo mistero di totalità che è la sponsalità. Senza l’aiuto di una grazia particolare, senza una vera sacramentalità che trasformi il matrimonio in un grande sogno spirituale, la fedeltà rischia di essere impossibile. È davvero tempo di matrimonio consacrato!
Un capitolo intero del suo libro è riservato ai giovani. Ma i giovani d’oggi, sono emotivamente più fragili?
In realtà i giovani sono sempre stati fragili. È la società di oggi a essere diversa. I nostri ragazzi sono cresciuti senza tanti fratelli o cugini, circondati solo da adulti o vecchi che proiettavano su di loro aspettative, desideri, bisogni affettivi propri. Sono cresciuti in una specie di narcisismo che ha fatto di loro degli eterni fanciulli, piccoli «totem-bambini» portati in processione da famiglie frequentemente disperate. A volte (ma neanche tanto raramente se pensiamo che un terzo delle famiglie si separa) si sono trasformati addirittura in «totem-con-la-valigia», dovendo spostarsi continuamente tra la casa del padre e quella della madre divorziati. I «totem con la valigia» sono destinati a moltiplicarsi e questa è una fonte di fragilità. Così com’è fonte di fragilità il fatto che essi appartengono a una generazione che per la prima volta ha la sensazione che la propria vita, dal punto di vista materiale, non sarà migliore di quella dei genitori o dei nonni. E anche questo crea una diffusa ipocondria sociale.
Il cammino di ogni ricerca, soprattutto quella spirituale, parte dall’etica del dubbio, da un atteggiamento di stupore nei confronti della vita. Ma l’uomo d’oggi, secondo lei, è ancora in grado di provare stupore?
L’uomo di oggi prova stupore come non mai. Si stupisce innanzitutto di fronte all’incomprensibilità delle cose che lo circondano, di fronte all’alterità di culture che irrompono nelle sue quiete abitudini e le perturbano, di fronte al fatto che certe cose che credeva onnipotenti, come la scienza e l’economia, non lo sono; prova stupore di fronte alle proprie inquietudini e a quelle nelle quali s’imbatte. Direi che l’uomo contemporaneo è circondato dallo stupore, benché spesso non ne sia adeguatamente consapevole. E, invece, lo stupore è la base di ogni filosofia possibile.
In un altro passo del suo saggio lei afferma che «l’unica mistica oggi possibile è quella della relazione, del dialogo e dell’incontro nella libertà caotica del reale».
I mistici sono quelle grandi anime che, attraverso un carisma particolare, hanno potuto sperimentare nella propria carne la presenza del divino. E oggi la presenza del divino si manifesta, oltre che nelle forme straordinarie, nella pressante e inquietante presenza dell’altro nella nostra vita, nella sua capacità di interpellarci, nell’ultimo, che spesso è la persona a noi più vicina: è la moglie trascurata, è il marito disorientato, è il figlio assente o incomprensibile. Gli ultimi di cui ci parla il Discorso della montagna, qualche volta sono dentro le nostre case illuminate dalla luce azzurrognola del televisore.
Il suo libro si chiude con una ipotetica «intervista a Maria». Ma che cosa ha da dire una donna come Maria alle donne, alle famiglie, alla società del nostro tempo?
Dice una cosa fondamentale: la salvezza, se verrà, verrà dalle donne. Com’è venuto attraverso la donna per eccellenza, Maria, il mistero dell’incarnazione di Dio, allo stesso modo, oggi, la salvezza verrà da una sensibilità femminile capace di recuperare compiutamente, dopo un tempo di legittima emancipazione, la forza della fecondità, dell’accoglienza e della famiglia.
Se le donne sapranno dire sì alla vita e alla presenza anche di ciò che non è completamente riconducibile alla dimensione della ragione, allora c’è una speranza per l’umanità. In caso contrario, non ce n’è alcuna.
Meluzzi in breve
Alessandro Meluzzi è medico e psicologo, psichiatra e psicoterapeuta, giornalista e autore televisivo.
È stato senatore della Repubblica e docente universitario, a Siena (Genetica del comportamento umano) e a Torino (Psicoendocrinologia).
Ha scritto numerosi saggi, tra i quali ricordiamo: Neomonasteri e RiEvoluzione: Utopia, Comunità e Spiritualità nell’era della New Economy (Marsilio, 2001); Ulisse e il monaco zen. Manuale di viaggio verso il terzo millenio (Larus,1994).
È fondatore delle Comunità di accoglienza del disagio psichico ed esistenziale per minori e adulti «Agape Madre dell’accoglienza». È direttore scientifico della Scuola Superiore di Umanizzazione della Medicina. Il suo ultimo libro è ErosAgape. Un’unica forma d’amore (Edizioni OCD, 2006).