Metà cuore alla Chiesa e l’altra alla Statua della libertà

Quanti sono, come vivono, che valori condividono i cattolici italiani emigrati nella Grande Mela? A colloquio con don Robert Aufieri, direttore dell’apostolato italiano nella città di New York.
28 Gennaio 2014 | di

Da quando il cardinale di New York, John O’Connor, nel 2001 lo nominò direttore dell’apostolato italiano, don Robert Aufieri ha visto arrivare nel suo ufficio (nella First Avenue in Manhattan) decine di nuovi emigrati italiani ogni settimana e li ha aiutati a diventare cittadini americani, ad apprendere l’inglese, a cercare lavoro o a scoprire il modo per non perdere i contatti con le famiglie. Ogni anno circa 1500 italiani emigrano qui in cerca di lavoro, vista la crescente disoccupazione che sta dilagando in patria. I nuovi arrivati si stabiliscono in tutte e cinque le zone che compongono la città di New York, (Staten Island, Bronx, Brooklyn, Queens e Manhattan). Ma ad accoglierli non ci sono quasi più i sacerdoti italiani venuti qui tra il 1950 e il 1960: molti sono morti, altri sono ormai molto anziani. Oggi sono stati rimpiazzati da sacerdoti americani, spagnoli, africani o polacchi che hanno studiato a Roma e sanno parlare italiano, alcuni con grande proprietà. Ben ottanta parrocchie newyorkesi celebrano la messa domenicale in italiano, e molte altre offrono nella lingua di Dante celebrazioni saltuarie come novene, tridui, anniversari di matrimonio, feste di santi, funerali e confessioni.

Don Robert Aufieri, originario di Napoli da parte di mamma e di Palermo da parte di papà, dal suo osservatorio privilegiato ha ormai un quadro dettagliato della comunità italiana nella Grande Mela: «Circa il 30 per cento dei cattolici della città sono di origine italiana. Orgogliosi della propria lingua e delle proprie tradizioni – anche se non parlano più l’italiano –, frequentano in numero crescente la Messa annuale nella cattedrale di San Patrizio a Manhattan, officiata dal cardinale in onore di Cristoforo Colombo, e partecipano all’enorme parata che segue». 

Don Robert parla un buon italiano; l’ha imparato prima dai suoi genitori e poi nel seminario diocesano di San Giuseppe di Yorkers. Ha prestato servizio in varie parrocchie e, di tanto in tanto, ritorna in Italia per visitare i luoghi di origine della sua famiglia o dei suoi parrocchiani. Ha inoltre frequenti contatti con l’attuale cardinale di New York, Timothy Dolan, il quale a sua volta parla bene l’italiano perché è stato per molti anni a Roma come direttore del clero americano. Insieme discutono le priorità per l’apostolato italiano, per meglio servire questa comunità: l’obiettivo non è solo continuare a offrire risorse liturgiche per sacerdoti, diaconi e fedeli impegnati nelle parrocchie italiane ma anche generare senso di appartenenza e orgoglio per le loro radici, coltivando la collaborazione con le associazioni italo americane e con l’Apostolato italiano nazionale.
 
La pastorale per gli italiani
Don Aufieri è convinto che ogni emigrato italiano che arriva a New York abbia due madri: la Statua della Libertà e la Chiesa. Questa convinzione ispira i suoi orientamenti pastorali, che egli condivide ogni volta che incontra i sacerdoti e i laici responsabili delle parrocchie italiane. A suo avviso, la prima cosa da tenere presente è che gli emigrati sono persone provate dalle fatiche e dalle sofferenze di un cammino che le ha portate lontane dalla patria, dalla famiglia e dalle proprie tradizioni sociali e culturali, in un’avventura piena d’incognite e difficoltà.

«A questi fratelli – spiega – i cattolici devono riservare un’accoglienza che sia espressione dell’amore di Gesù Cristo, che ha detto: “Ero forestiero e mi avete ospitato”».

La seconda cosa da tener presente è che la lunga e faticosa esperienza d’emigrazione provoca varie forme di disadattamento. Innanzitutto disadattamento psicologico, che nasce dal senso di frustrazione, da delusioni, da insicurezze e solitudini. Poi il disadattamento sociale (causato dalla difficoltà d’integrarsi in una nazione diversa dalla propria) che può portare all’emarginazione e all’isolamento. Frequenti anche i casi di disadattamento culturale, prodotto dall’estraneità del nuovo ambiente alla propria mentalità, abitudini e stili di vita; da ultimo il disadattamento religioso, dovuto alla presenza di fedi diverse o al modo diverso di esprimere la medesima fede.

Il terzo punto su cui don Aufieri insiste è il fatto che, ovunque si rechi, l’emigrato italiano «deve trovarsi in una comunità cattolica come a casa propria, perché nella chiesa non vi possono essere stranieri». Con l’annuncio della Parola, la celebrazione del sacramento e il servizio della carità, la Chiesa deve curare il bene dell’emigrante. In pratica deve impegnarsi ad assicurare una catechesi organica e continua, favorire lo svolgimento in lingua italiana delle celebrazioni, sostenere pastoralmente e anche economicamente gli operatori pastorali (sacerdoti, religiosi e laici) e inserire sacerdoti e fedeli stranieri negli organismi ecclesiali di partecipazione.
 
A lezione dagli emigrati
«Fin dalla mia ordinazione sacerdotale nel 1974 – sottolinea don Aufieri – ho sempre servito in varie parrocchie con una forte presenza di italiani, i quali mi hanno insegnato la ricchezza dei loro valori: l’importanza della diversità e del dialogo, la gioia della famiglia, l’impegno nel lavoro, lo sforzo di individuare spazi e tempi di aggregazione e la ricerca della giustizia e della solidarietà».

Egli ricorda che, fin da principio, le loro processioni e le sontuose statue dei santi patroni hanno colpito la sua immaginazione, a volte l’hanno persino scandalizzato, perché alcune manifestazioni di fede contraddicevano le regole della sua devozione. Tuttavia – ci tiene a precisare – nelle parrocchie che gli italiani hanno costruito è sempre nato un nuovo senso di solidarietà che andava al di là delle divisioni regionali così presenti nei paesi d’origine: mantenersi legati alle proprie radici era ciò che più contava. Nelle zone dove gli emigrati vivono, le chiese italiane hanno rafforzato i vincoli tramite le benedizioni delle famiglie, hanno incoraggiato i giovani a essere istruiti nella fede cattolica, e hanno sollecitato i fedeli ad aiutare i bisognosi integrandoli, per quanto è possibile, nella loro comunità religiosa.

«Gli emigrati italiani mi hanno sempre dimostrato una grande benevolenza – aggiunge don Aufieri –; il loro patrimonio umano e cristiano li distingue dagli altri gruppi etnici. L’Italia, infatti, ha moltissimo da offrire all’America, al fine di favorire un’unità solidale, fecondata dalla luce e dalla forza del Vangelo. Personalmente non dimenticherò mai i tridui e le novene predicate agli emigrati italiani in onore della Madonna e di san Giuseppe. Questi emigrati, senza essere teologi, mi hanno insegnato che in Maria si realizza pienamente il Vangelo. Ella è la prima cristiana, annuncio e dono di Cristo figlio suo, pienezza delle beatitudini e immagine perfetta del discepolo di Gesù. La Madonna è il modello di un amore senza frontiere, la nostra vera educatrice nel cammino della fede. La devozione verso san Giuseppe, praticata soprattutto dai siciliani, mi ha avvicinato alla santità di questo “uomo giusto”, testimone eroico accanto a Maria vergine sua sposa del mistero dell’Incarnazione di Dio. L’alleanza tra lavoro e famiglia che si attuò nella vita di san Giuseppe trova il suo riflesso nella vita di ogni famiglia italiana e nella vicenda umana di ogni lavoratore».

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017