Mio papà era uno straniero
«Settembre, andiamo. È tempo di migrare». Lo so: citare questa poesia di Gabriele D’Annunzio non è così originale. Ma di questi tempi l’argomento mi pare interessante, e neanche tanto per le barconate di umanità disperata che vanno a sbattere contro gli scogli dei nostri (ingiustificabili) egoismi e delle nostre (a volte comprensibili) paure. Questa semmai è emergenza, che come tutte le situazioni urgenti, chiede risposte veloci e, pur rimestando emozioni forti, non concede quasi spazio ai pensieri.
Mi è invece capitato che il tema mi si imponesse letteralmente davanti agli occhi, in alcuni spunti di letture che desidero condividere con voi. E che chiedono di esistere in uno spazio che non sia solo quello intermittente delle emergenze umanitarie.
In un primo testo, leggevo di «stranierità», sorta di parola-chiave per capire più a fondo Gesù Cristo. Che è vero che, a parte la fuga in Egitto appena nato, non si è mai più di tanto allontanato dalla Palestina, ma di fatto vi è vissuto come straniero, senza fissa dimora, ai margini della vita religiosa dei suoi conterranei. Parlando una lingua che gli altri faticavano a comprendere. Proclamando lui stesso la sua «estraneità», non essendo di questo mondo ma venendo da «altrove», dal Padre. Solo così quasi costringendo i suoi ascoltatori, che pur presumevano di conoscerne luogo di nascita e stato di famiglia, ad aprirsi alla novità di Dio! La Bibbia, del resto, era stata chiara da subito: «Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri» (Lv 19,34). Gesù, consapevole di destare risentimenti, non temerà perciò di lodare la fede di alcuni stranieri (il centurione, la donna cananea, i greci che desiderano vederlo).
A questo punto le letture si sono accavallate: «Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» (Eb 13,14). Così commentato da sant’Antonio: «Tutti siamo forestieri, perché veniamo da un altro luogo: dal gaudio del paradiso siamo arrivati alla misera condizione di questo esilio; siamo anche pellegrini perché, cacciati dal volto e dagli occhi di Dio, ce ne andiamo mendicando, lontani dalla patria del cielo». Che, del resto, da francescano, per giunta spiaggiato in Sicilia nel tentativo di tornarsene in Portogallo dal Marocco, si sarà ricordato l’affermazione che san Francesco aveva fatto scrivere nella Regola non bollata: «I frati, come pellegrini e forestieri in questo mondo, servendo al Signore in povertà e umiltà, vadano»!
Giungendo a «parrocchia», che etimologicamente significa «comunità di stranieri in cammino». E a quella che i padri del deserto chiamavano xeniteia, l’essere straniero, circondati da linguaggi e paesaggi sconosciuti. Resi così capaci, là dove i nostri sentimenti sono più disarmati e predisposti al dialogo e all’apertura, a vivere l’ospitalità.
C’è qualcosa di evangelico, in questi tempi in cui le comunità locali sono fin troppo fiere della loro identità, nell’imparare daccapo la nostra «stranierità»: siamo tutti stranieri! Evangelicamente di sicuro, ma anche umanamente, figli tutti di un antenato che abitava in Africa, 150 mila anni fa (ma io anche bresciano, figlio di un emigrato dal Veneto). E se fosse che per tutti, credenti e no, potesse essere utile la soluzione ben sintetizzata dalla Lettera a Diogneto? «I cristiani abitano in questo mondo, ma non sono del mondo». Con tutta l’operosa responsabilità dell’essere cittadini di questo pezzetto di storia, ma con tutta la libertà di non dover assolutizzare nulla. Nemmeno la mia identità. Dove l’accoglienza è sacramento dell’ospitalità: di Dio per ognuno di noi. Della nostra per Dio, che sta alla porta e bussa come qualsiasi vu’ cumprà (Ap 3,20). E della nostra reciproca: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,25).