Musulmani in Italia
L'ignoranza è spesso fonte di pregiudizi e di incomprensioni, di paure, che creano divisioni, ghetti, origine di contrapposizioni anche violente. La conoscenza, al contrario, aiuta a capire, fuga le paure e facilita il dialogo. È per questo che abbiamo dedicato questo dossier ai musulmani che vivono in Italia, una presenza consistente, ma della quale conosciamo poco, e quel poco inficiato da pregiudizi e paure. Ci aiuta nella comprensione il sociologo Stefano Allievi, e lo fa con competenza e grande equilibrio, fornendo buoni criteri di valutazione e di giudizio.
Chi sono i musulmani d'Italia? Qualche dato, innanzitutto. Si tratta di quasi un milione di persone, grosso modo, circa il 2 per cento della popolazione residente nel nostro Paese (contro il 4 per cento della media europea, con punte del 7 per cento, come in Francia). I praticanti, categoria in realtà poco pertinente per definire l'appartenenza religiosa nell'islam, sono naturalmente solo una minoranza.
Il Marocco conta circa un terzo delle presenze musulmane, segue l'Albania, di cui solo una parte dei provenienti, comunque maggioritaria, è considerabile di vaga origine musulmana, quindi la Tunisia, il Senegal, l'Egitto, il Bangladesh, il Pakistan, l'Algeria, la Bosnia, e poi ancora Iran, Nigeria, Turchia, Somalia e... Italia, con un nucleo numericamente contenuto ma assai attivo di convertiti all'islam, che giocano un ruolo importante nell'islam visibile e organizzato.
Di fatto, ci si presenta l'immagine di un islam frammentato, disperso anche sul territorio. Anche perché, a differenza di altri Paesi, non è identificabile solo con le comunità delle grandi città , anche se quasi solo di esse si parla. La presenza islamica, anche organizzata con propri luoghi di culto, per quanto spesso piccoli e precari, in Italia, è significativa anche nelle città medie e piccole, e nei paesi. Quello che potremmo chiamare l'islam dialettale: più locale che nazionale, in un certo senso, ma che spesso manifesta processi di integrazione, e di accettazione, più elevati di quelli visibili in alcune realtà metropolitane.
Un islam che è ancora essenzialmente di prima generazione, con un tasso di presenza femminile relativamente basso, e una presenza delle seconde generazioni ugualmente ancora poco visibile, anche se in veloce crescita (si pensi al mondo della scuola), anche in termini di organizzazione. Il fatto che sia un islam di prima generazione fa di esso un islam ancora voltato all'indietro: che parla arabo (o altra lingua materna) più che italiano, e che guarda ancora molto alle realtà d'origine. Per il quale la non conoscenza della realtà italiana può più di frequente portare a incomprensioni e difficoltà . Si tratta, tuttavia, di un fattore in rapida evoluzione: l'islam comincia a entrare in quella che possiamo considerare la fase della sedentarizzazione, della stabilizzazione, in parte anche dell'istituzionalizzazione.
L'organizzazione interna
Le moschee e quanto sta loro intorno (associazioni, scuole coraniche - l'equivalente islamico del catechismo - ecc.), giocano un ruolo importante, anche perché enfatizzato dalla mancanza o dalla debolezza di altri interlocutori. L'associazionismo laico, etnico o nazionale, ad esempio, è molto debole. C'è poco, insomma, in mezzo tra il bar e la moschea. E non va dimenticata quella quota significativa, ma silenziosa, di individui che effettuano il loro percorso di inserimento ai margini o al di fuori delle rispettive comunità di riferimento.
Al loro interno, i musulmani d'Italia sono organizzati in modo frammentario e diviso.
L'organizzazione principale è l'Ucoii (Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia), costituita ufficialmente nel 1990. Molte moschee fanno capo ai suoi rappresentanti, alcuni dei quali godono di una certa popolarità .
C'è poi il Centro islamico culturale d'Italia, ovvero la moschea di Roma, il principale luogo islamico del Paese, la cui costruzione è stata finanziata dalla Lega del mondo islamico saudita. Rappresenta un islam istituzionale, non molto legato al mondo delle migrazioni.
Vi sono poi altri organismi, per lo più composti da convertiti e di ridotte dimensioni. Come la Coreis (Comunità religiosa islamica), espressione di un gruppo di convertiti, con sede a Milano; o l'Umi (Unione musulmani d'Italia), guidata dal discusso Adel Smith, piccola star dell'islam televisivo, con scarso seguito.
Naturalmente, vi sono altri organismi e associazioni che, soprattutto sul piano locale, giocano un ruolo. Dai gruppi dei mistici sufi principalmente composti da convertiti e dalle confraternite a carattere etnico (si pensi ai muridi senegalesi), a organismi religiosi su base etno-nazionale (le moschee somale, bengalesi, ecc.), fino a operatori culturali e a singoli intellettuali.
Infine, come hanno mostrato anche alcune inchieste giudiziarie, sono presenti gruppi di simpatizzanti e militanti anche con legami dimostrati con la galassia terroristica: ovviamente, in questo caso, non organizzati in maniera aperta. Molto diverse sono tuttavia, in materia, le risultanze delle inchieste giudiziarie e quelle delle inchieste giornalistiche,portatea un'enfatizzazione del fenomeno spesso spettacolarizzata, ma con modesto fondamento. Si tratta, del resto, di un settore in cui, essendo il pericolo effettivamente esistente e l'allarme doverosamente elevato, l'esagerazione paga, garantendo facili rendite in termini di visibilità : che si tratti del mondo politico (qualche partito in particolare), o di quello giornalistico e intellettuale (il caso più clamoroso è quello di Oriana Fallaci, ma ve ne sono molti altri).
Anche nella Chiesa cattolica, dopo tutto, le posizioni più visibili sono le poche che puntano sullo scontro, mentre quelle più pacate, e più numerose, hanno meno visibilità . Come sempre, fa meno rumore una foresta che cresce di un albero che cade. Lo stesso dicasi dei musulmani stessi: i molti che si dissociano fanno meno rumore dei pochi che polemizzano o peggio.
Un'evoluzione interessante è costituita dall'affacciarsi sulla scena delle seconde generazioni, attraverso i Gmi (Giovani musulmani in Italia). I giovani musulmani si propongono con una buona capacità organizzativa e un'ottima visibilità , favorita dal buon livello culturale e di conoscenza della lingua oltre che della società italiana, essendo essi nati e secolarizzati in Italia.
Tutte insieme queste organizzazioni rappresentano, tuttavia, solo una parte minoritaria dell'islam presente in Italia: che, se credente, si accontenta spesso di ritrovarsi nelle moschee, senza interessi di rappresentanza più larga. E va tenuto conto che vi è una vasta maggioranza silenziosa di provenienti da Paesi musulmani che, per impossibilità logistica (le moschee sono ancora poche e spesso distanti, e il venerdì è comunque giorno lavorativo), ma ancora di più per scelta, non frequentano il mondo delle moschee e dell'associazionismo, e non si sentono da esso rappresentati.
Cruciale, nel favorire o meno i processi di integrazione, è ovviamente il ruolo della politica e dei soggetti religiosi: in particolare, in Italia, la Chiesa cattolica, ma anche le altre minoranze.
La politica mostra attenzione al problema islam nella sua complessità , nei suoi vertici istituzionali: si pensi al ruolo cauto e moderato del ministro Pisanu. Lo stesso si può dire di altre alte cariche dello Stato. Molta meno moderazione e cautela si è vista nel mondo politico, la cui agenda è stata di fatto dominata dalla polemica anti-islamica leghista, configurabile come una vera e propria campagna, anche se essa non è ovviamente rappresentativa delle posizioni dell'intero quadro politico, e nemmeno della maggioranza. La via dell'intesa, che sancirebbe il riconoscimento simbolico e l'avvenuta istituzionalizzazione dell'islam italiano, è quindi bloccata e appare ancora lontana. Per ragioni inerenti al rifiuto del quadro politico, ma anche, e soprattutto, per dinamiche proprie, interne al mondo islamico, ancora diviso, non preparato e non pronto a giocare questa partita.
Il ruolo della Chiesa
Più articolato il ruolo della Chiesa cattolica. Che, a parte alcune posizioni più chiuse, nella realtà di molte diocesi locali e del grosso dell'associazionismo (Caritas, Acli, Focolari, Sant'Egidio, ecc.) mostra un volto attento e sfumato nei suoi giudizi e, quel che più conta, nella sua attività e nella sua pastorale. Se, da un lato, l'Italia, Paese maggioritariamente cattolico, si trova in difficoltà nel dover imparare la diversità e la pluralità religiosa nel confronto con un diverso più diverso, quale è l'islam, che in più è stato uno storico nemico, dall'altro, grazie proprio alla presenza di una diffusa cultura cattolica, dispone della capacità di comprendere le esigenze religiose poste dai musulmani, dal problema dei luoghi di culto a quello delle prescrizioni alimentari. Una comprensione che spesso non troviamo nel mondo laico. La Chiesa cattolica è, del resto, guardata spesso con simpatia da moltissimi musulmani: per il suo ruolo nell'accoglienza degli immigrati; per le sue posizioni contro la guerra e contro il terrorismo in Iraq e in altre parti del mondo; per l'impegno per la pace del Papa, nonché per il suo riconoscimento dello specifico religioso dell'islam in occasione dei suoi viaggi (di particolare valore simbolico la sua visita alla moschea di Damasco); per le posizioni assunte in difesa dei più deboli a proposito del conflitto israelo-palestinese.
Le difficoltà dell'integrazione
Noi spesso abbiamo un'immagine dell'islam come realtà statica, definita e immodificabile. Questa percezione, non vera nemmeno per i Paesi d'origine, è ancora meno vera in Europa. L'islam immigrato, infatti, si modifica con una velocità che solo un'osservazione attenta e non preconcetta è in grado di mostrarci.
È qui, nei processi lunghi dell'integrazione silenziosa nel mondo del lavoro e della scuola, nelle realtà associative, nella presenza in movimento dell'islam femminile, tra le seconde generazioni, che è visibile e misurabile il terreno reale dell'incontro tra l'islam e il mondo europeo-occidentale, e anche con gli altri soggetti religiosi che questo mondo abitano da più tempo. Sapendo che, nel contempo, continueranno momenti e terreni di scontro, legati tanto alla politica estera quanto a quella interna: l'attualità ce ne fornisce ormai ogni giorno, come mostra un sempre più feroce terrorismo islamico transnazionale, che non va, tuttavia, confuso con la presenza degli immigrati in Europa.
È soprattutto sul piano locale che si manifestano i momenti e i luoghi di confronto, di incontro e anche di scontro: che si manifestano i problemi, insomma, e che si sperimentano le possibili soluzioni dei medesimi. Ci preme, a questo proposito, contro ogni buonismo o irenismo facile, notare che incomprensioni e problemi, rispetto a un fenomeno nuovo e quasi mai spiegato, e anche iniziali reazioni di rifiuto, sono sociologicamente non solo comprensibili, ma in un certo senso normali, fisiologiche. Possono diventare patologiche, come accaduto talvolta in tempi recenti, soprattutto quando a esse si sovrappone una qualche forma di strumentalizzazione politica. In sostanza, non è patologico il conflitto, ma lo è il non volerne uscire, o addirittura il cercarlo. E questo avviene, ovviamente, perché c'è chi dal conflitto ci guadagna: tra gli italiani (politici, giornalisti, ecc.: la paura è un prodotto che si vende molto bene), come tra certi leader religiosi islamici in cerca di visibilità .
Al di là dei conflitti più presenti sui giornali, spesso riguardanti simboli religiosi (il velo, il crocifisso), vi sono processi di integrazione quotidiana almeno altrettanto importanti, e nel lungo termine decisivi: nelle scuole, nel mondo del lavoro, nei luoghi della sofferenza (ospedali, carceri, ecc.), come pure in quelli del divertimento e della socializzazione. Ed è a questi che dobbiamo guardare per comprendere il processo di integrazione dei musulmani in Italia e in Europa. Con intelligenza. Con attenzione. Con la capacità di non cancellare la propria identità nel rapporto con l'altro: cosa non richiesta né tanto meno auspicabile. Né per noi né per gli immigrati, a cui si richiede invece, come ovvio, il rispetto delle leggi del Paese in cui si inseriscono. Mentre a entrambi si richiede il rispetto della propria identità e dei propri simboli. Su questa base è possibile costruire una convivenza comune.
Convivere con l'islam?
di Luciano Bertazzo
Imusulmani tra noi sono quasi un milione. Sono diventati, insomma, una realtà con la quale dover fare i conti. Un'invasione, secondo molti. Quello che stiamo vivendo nel rapporto con l'islam è esperienza drammatica per tutti, che ci porta a non cogliere le differenze e la complessità che pur è dentro quel mondo.
Nonostante tutto pensiamo che la cosa peggiore sia di erigere tra noi e loro steccati di incomunicabilità o, ancora peggio, di ostilità , terreno ideale per ridurli in quei ghetti dove la frustrazione degenera in pericolosa contrapposizione. Occorre percorrere la strada del loro inserimento nella nostra società , nel rispetto delle diversità e nella valorizzazione di ciò che si ha in comune. Difficile, non ci facciamo illusioni, ma anche precisa in alcuni punti, come richiamato di recente dal presidente Ciampi. A questo si giunge con il dialogo che richiede reciproca conoscenza per demolire pregiudizi e vincere la paura. Ed è appunto il motivo di questo dossier.
Le atrocità dei fondamentalisti stanno gettando una luce sinistra su tutto l'Islam, come se questo fosse per sua natura una religione senza alcuna potenzialità di pace e di convivenza. Ma è davvero così? Vi suggeriamo la lettura di un libro, Vivere in pace con i musulmani, di Adel Theodor Khoury (Queriniana) che dimostra il contrario e proprio l'aspirazione alla pace può essere il punto di partenza per un dialogo efficace (al vertice come nei rapporti quotidiani) al fine di allontanare lo spettro di quello scontro tra mondo occidentale e mondo islamico che alcuni hanno sinistramente preconizzato.