Nata il ventuno a primavera
«Sono nata il ventuno a primavera / ma non sapevo che nascere folle, / aprire le zolle / potesse scatenar tempesta» recita un verso di Vuoto d’amore (Einaudi, 1991). E il 21 marzo, Giornata mondiale della poesia, quest’anno in molti si ricorderanno «dell’Alda», com’era confidenzialmente chiamata, a dispetto della dimenticanza che l’accompagnò mentre era viva.
Sono tantissime le iniziative che, soprattutto dopo la sua morte, sono state dedicate alla Merini: solo in questi ultimi mesi, convegni, recital, presentazioni di libri, mostre, omaggi canori e cinematografici, reading…
C’è un sito web (www.aldamerini.it) che funge da collettore di idee e attira ricordi da tutto il mondo e si parla di lei anche su Twitter o su Facebook.
E in omaggio ad Alda Merini il Comune di Milano realizzerà, in uno stabile nel quartiere dei Navigli, un atelier-museo per la poesia, con gli effetti personali della poetessa e gli oggetti della sua casa.
Al di là dell’anniversario del 21 marzo, Alda Merini vivrà per sempre e più che mai nei Navigli, dove abitò tanti anni nella casa fatiscente di via Ripa di Porta Ticinese 47, una casa piena zeppa di libri, di caos, di numeri di telefono scritti sui muri, di sigarette buttate alla rinfusa… come documentano le intense foto di Giuliano Grittini, che sono state l’anima di una bella mostra allestita a Milano, a Palazzo Reale, fino al mese scorso. «Il suo appartamento era come la sua poesia» secondo Piero Manni, editore di Lecce che pubblicò diversi suoi libri tra cui Il maglio del poeta (2002) e Canto Milano (2007). Manni, una volta, recatosi da lei per lavoro, trovò sul tavolo delle bottiglie di spumante vuote. Gliene chiese ragione. E Alda «col sorriso sdentato e gli occhi illuminati di ironia» rispose: «Ieri sera è venuto a trovarmi mio marito». Lo stava prendendo in giro, ma lei sembrava crederci. Commenta Manni: «Le parole diventano lievi, sembrano prive di consistenza e assumono plurimi significati: dette in quella casa con voce ispirata e cantilenante volteggiano per l’aria, si coniugano con gli oggetti presenti, si stampano tra i numeri di telefono scritti anche col rossetto sui muri».
Finalmente il successo
Alda Merini è già un classico del Novecento e possiamo a buon diritto collocarla accanto a Montale, Quasimodo e Ungaretti.
Marco Garzonio, scrittore, psicanalista e profondo conoscitore di Alda Merini, non nasconde la sua soddisfazione perché ora finalmente ci si interessa di lei: «Un po’ tutti incominciano a occuparsi della Merini. Era una persona straordinaria, una forza della natura nella sua imponenza e nello stesso tempo nella sua estrema fragilità; capace, come fa la poesia, di andare oltre il contingente e di squarciare orizzonti. Possiamo apprezzare ancora di più il valore della sua testimonianza in quanto è passata attraverso una sofferenza così dilaniante come quella psichica, regalandoci la profondità, la radicalità di canti come il Poema della croce (2004)… Per anni la vita per lei è stata una Via Crucis, eppure ha sempre avuto la capacità di risorgere ogni volta, di trasformarsi interiormente. Lei è passata in mezzo al dolore: la vita per tutti è un attraversare».
Una presenza veramente amica (non solo per il «facile tornaconto del dopo») è stata quella di Marina Bignotti che lavorava con Vanni Scheiwiller in una delle editrici più raffinate d’Italia e che per più di vent’anni accompagnò Alda anche nei momenti difficili: «È stata – racconta – un’esperienza veramente forte. Alda non aveva pregiudizi, era una persona libera, al di là del bene e del male, con una grandissima ironia. Quando l’accompagnai a Roma in aereo, appena salita a bordo si mise a gridare: “Aiuto, aiuto il cuore”. Non aveva nulla, solo una grandissima paura».
Alda le ha dedicato molte poesie, raccolte nella silloge Le briglie d’oro (2005): «Le telefonai con in mano la prima copia. Si mise a piangere e disse: “Poesie così belle non potrò scriverne più”. Negli ultimi anni Alda conobbe la luce, il riscatto sia come poetessa che come essere umano».
Alda Merini si definiva cattolica e aveva un modo tutto suo di comunicare con il divino. Nella sua poesia troviamo frequentissimi richiami a Cristo, a Maria, a Dio: mistiche altezze del cielo e sconcertanti sconfinamenti nella terra. Scrive in Spavento di Maria: «La fede è una mano / che ti prende le viscere, / la fede è una mano / che ti fa partorire». C’è un vero corpus di opere a soggetto religioso, edite da Frassinelli: Corpo d’amore. Un incontro con Gesù, Magnificat. Un incontro con Maria, La carne degli angeli, Poema della croce, Cantico dei vangeli, Francesco. Canto di una creatura e, postumo, Eternamente vivo. In Alda Merini ritroviamo ben più che semplici «tracce di sacro».
«Sacro – precisa ancora Marco Garzonio – non inteso però nel senso della dottrina, dell’ufficialità, ma come Dio che ti tocca l’anima, Dio che ti parla anche quando tu ti nascondi, come un filo sottile potentissimo che lega la vita anche nei momenti più bui, quando Dio sembrerebbe essere lontano». Del resto, Alda diceva: «Io trovo i miei versi intingendo il calamaio nel cielo». Il cardinale Gianfranco Ravasi per anni ricevette chilometriche telefonate dalla poetessa che gli declamava i suoi versi: «A me e a molti altri interlocutori, durante i dialoghi diretti o telefonici, riservava intere poesie». Ravasi fece prefazioni a diversi suoi libri e parlò per la sua poesia di «vena mistica» che «si irrobustì fino ad assumere una forma nettamente cristologica».
Anche a don Giuseppe Vegezzi, parroco di Santa Maria delle Grazie al Naviglio, Alda telefonava a tutte le ore del giorno e della notte, perché si sentiva sola. «Non veniva in chiesa spesso – ricorda don Giuseppe – però aveva un grande senso della presenza di Dio e autentici sprazzi di spiritualità. Ammirava tanto la Madonna e sapeva leggere nelle persone». Prosegue don Giuseppe: «Tre giorni prima di morire mi disse: “Lei sa che ho sempre avuto fede, anche se a volte dico delle stupidaggini”. Sapeva cogliere la bellezza che viene da Dio».
La Merini era generosa, dispensava versi e desiderava denaro soprattutto per poter fare regali. «Ho scritto migliaia di poesie – disse a Paolo Taggi (Più della poesia, Interlinea, 2010) –. Ma non ne ho conservata nessuna. Le regalo. Per me conservo i sentimenti che le hanno animate. Quelli sono i miei ricordi. Nelle poesie c’è solo l’effetto di quei sentimenti… Quello che ho provato fino in fondo, le torture che ho subito e gli elettroshock che me l’hanno fatto dimenticare, sono finiti dentro la mia anima. Qualche volta affiorano dal profondo, ma in sordina. Anch’io sono vittima del mio stesso mistero».
Anche ad Alberto Casiraghy di PulcinoElefante, la più originale editrice italiana, Alda telefonava dieci volte al giorno per dettare i suoi aforismi. Tra il 1992 e il 2009, ogni settimana, Casiraghy le stampò un libricino in 30 esemplari, per un totale di oltre 1.100 titoli, con sentenze come questa: «La morte è il grande giocattolo di Dio». E ancora: «Quando non ho più parole, vado a prendere la legna nel bosco e accendo le mie speranze». Dice Casiraghy: «La nostra Merini era una persona speciale, inimitabile».
La pazza della porta accanto
Il capitolo della malattia mentale è più di una parentesi. Alda fin da giovane dovette ricorrere alle cure dello psicanalista Cesare Musatti, su suggerimento di Giorgio Manganelli. Fu ricoverata, giovanissima, a Ville Turro, una casa di cura milanese e, nel 1965, all’Ospedale psichiatrico Paolo Pini (allora un «manicomio»). Su tale esperienza sono stati scritti i suoi versi più sofferti e le prose de L’altra verità. Diario di una diversa (Scheiwiller 1986) in cui si legge: «Ci svegliavano di buon’ora alle cinque del mattino e ci allineavano su delle pancacce in uno stanzone orrendo che preludeva alla stanza degli elettroshock: così ben presente potevamo avere la punizione che ci sarebbe toccata non appena avessimo sgarrato. Per tutto il giorno non ci facevano fare nulla, non ci davano né sigarette né cibo al di fuori del pranzo e della cena; e vietato era anche il parlare. D’altra parte, trattandosi tutte di forme schizofreniche e paranoidee, ben poco ci sarebbe stato da dire con le altre malate».
Dopo aver sposato il poeta tarantino Michele Pierri, nel 1983, fu internata in manicomio anche a Taranto. Quando tornò a Milano, la pensione del marito non le bastava per vivere. Nel 1995, grazie alla legge Bacchelli, finalmente la Merini risolse i suoi problemi economici e negli anni riprese anche i contatti con le figlie, per le quali il destino aveva voluto l’allontanamento dalla famiglia. E Alda raccontava di loro: «Ho avuto quattro figlie. Allevate poi da altre famiglie. Non so neppure come ho trovato il tempo per farle. Si chiamano Emanuela, Barbara, Flavia e Simonetta. A loro raccomando sempre di non dire che sono figlie della poetessa Alda Merini. Quella pazza. Rispondono che io sono la loro mamma e basta, che non si vergognano di me. Mi commuovono».
Emanuela, la maggiore, quella che rimase di più in casa, si sposò giovanissima e come professione scelse di fare, non a caso, l’infermiera in psichiatria. «Un lavoro – dice – che mi ha dato molto: lo faccio da 32 anni, motivata anche dalla nostra storia. Io – racconta Emanuela – ho ricordi belli: prima che la mamma si ammalasse suonava il piano e dava ripetizioni. Quando io e Flavia eravamo piccole in casa venivano Pierpaolo Pasolini e Salvatore Quasimodo. Dopo è stato tutto un “rappezzare” qualcosa che si era rotto. L’ultimo periodo fu il migliore della sua vita; quando la mamma tornò a Milano, ripartì alla grande: televisione, interviste, contatti. La poesia era la sua vita».
Ha vissuto a dispetto di tutto
«Era una donna incredibilmente viva nello sguardo – scrive Ambrogio Borsani nella prefazione a Alda Merini, Il suono dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009, Mondadori 2010 –, nel modo di muoversi, trascurata nel vestire, una gonna sbilenca, una camicetta macchiata, ma con vistosi tocchi di civetteria, collane, spille, foulard».
Ci sono anche stravaganze divertententi come quella riferita da Piero Manni. Nel 1999 le fu assegnato un premio promosso, a Carpignano Salentino, dall’amministrazione comunale, che consisteva nella fornitura per un anno di un pregiato olio di oliva. «La premiazione – ricorda Manni – avveniva nei giorni intorno a ferragosto, e Alda scese dall’areo a Brindisi (40 gradi di temperatura, umidità appicicaticcia) in pelliccia e senza bagaglio; per fortuna trascorrevano le loro vacanze a Otranto Vanni Scheiwiller e sua moglie, la quale si fece carico delle necessità di abbigliamento».
Soprattutto negli ultimi anni si infittì il suo rapporto con artisti (lei diceva che erano molto «più buoni dei poeti») come Giovanni Nuti, con cui ci fu un lungo sodalizio artistico, Milva, che interpretò in maniera eccelsa le sue poesie, Lucia Bosè, Roberto Vecchioni, Lucio Dalla, Roberto Benigni: in molti diedero corpo e suono ai suoi versi. A tutti lasciò qualcosa.
La vita
Alda Merini nasce il 21 marzo 1931. Nella Milano del dopoguerra frequenta Giacinto Spagnoletti,Maria Corti, David Maria Turoldo, Luciano Erba, Giorgio Manganelli. Pubblica la sue prime poesie e viene inclusa in un’antologia curata da Eugenio Montale e da Maria Luisa Spaziani. Nel 1953 esce La presenza di Orfeo. Nel 1954 sposa Ettore Carniti, un panettiere, padre delle sue quattro figlie, Emanuela, Flavia, Barbara e Simona. Nel 1965 avviene il primo internamento all’Ospedale psichiatrico Paolo Pini: ricoveri e dimissioni si susseguono per circa quindici anni. Nel 1983 escono ben tre raccolte di versi.
Dopo la morte del marito, sposa il poeta tarantino Michele Pierri. Seguono anni di dolore, di difficoltà economiche, poi finalmente arriva il successo editoriale e mediatico. Nell’84 esce La Terra Santa. Nel 1993 le viene conferito il Premio Librex Montale e nel 1996 il Viareggio. La «piccola ape furibonda» muore il 1° novembre 2009; il 4 vengono celebrati i funerali di Stato nel Duomo di Milano. Nata il primo giorno di primavera e morta nella solennità di tutti i Santi, «la ritroveremo – ha scritto il cardinale Gianfranco Ravasi – su altre strade».