Nei panni degli altri

È utile un viaggio tra i più poveri del mondo, uomini come noi anche quando la miseria ne ha annullato la dignità.
25 Settembre 2008 | di

Un anno fa sono stata in Angola per intervistare la dottoressa Marina Trivelli, donna straordinaria, volontaria del Cuamm-Medici con l’Africa di Padova. Da sola meriterebbe un libro, ma diremo qualcosa in più su di lei in qualche altra occasione. Al rientro, molti amici mi hanno chiesto dell’Angola, un Paese uscito da pochi anni dalla guerra civile, con almeno il 20-30 per cento del territorio ancora minato, e i problemi che si possono immaginare. Il punto è proprio questo: sono situazioni che possiamo solo immaginare. E al ritorno dall’Angola ho avuto la riprova che tra giudizio generale ed esperienza diretta corre un oceano. Un’amica, progressista e sensibile, mi ha chiesto perché i bambini poveri non vengono fatti adottare in Occidente. Mi sono ritrovata a dirle che anche chi muore di fame ama i suoi figli. È rimasta zitta, si vedeva che quel pensiero per lei era nuovo. Un’altra amica, che a parole ricaccerebbe in mare tutti gli immigrati, ha ascoltato un po’ accigliata la descrizione dei bambini che dormono con le loro mamme fuori dagli ospedali della savana, tra rifiuti e pericoli, aspettando che un parente ricoverato sia dimesso o muoia. Ho rivisto dopo due giorni quell’amica. Con mia sorpresa ha sbottato: «Dobbiamo fare qualcosa per quei bambini». Si capiva che ci rifletteva da due giorni. Ogni tanto penso che almeno una volta nella vita sarebbe utile a tutti fare un viaggio tra i più poveri del mondo. Perché ci si rende conto con i propri occhi – e il naso, e le mani – che non sono sotto-uomini, anche quando la miseria ne ha annullato la dignità, e che soffrono proprio come noi. Sembra una banalità, eppure non è così scontata. Credo che la differenza tra l’essere razzisti, o semplicemente indifferenti, oppure cercare di non esserlo, passi proprio da un processo di identificazione. Un conto è sentire il numero di bambini che muoiono ogni anno per fame, e un altro è vederne uno di pochi mesi che sta morendo di denutrizione. Non lo si dimentica più. Come cittadina italiana penso che l’immigrazione vada regolata e che chi vuol vivere da noi debba accettare le leggi di una democrazia occidentale. Tuttavia mi disturba sentir spesso parlare degli immigrati solo come forza lavoro. Mi viene in mente allora quel poco che ho visto della miseria africana, e capisco perché chi ci nasce voglia qualcosa di diverso. Immaginarsi qualche volta nei loro panni non basta certo a governare l’immigrazione. Ma aiuta a non dimenticare l’umanità, anche quando si applicano misure severe.



 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017