Nelle scuole per non dimenticare
I capelli brillano d'argento, la figura minuta si muove quasi in punta di piedi, il garbo misurato dei gesti ricorda modi d'altri tempi; solo la forza delle parole di questa anziana maestra rivela la sua comunicativa, l'attenzione costante all'attualità , la riflessione critica e sofferta su quanto accadde nel nostro paese nel periodo della seconda guerra mondiale.
Bruna Schreiber, che oggi ha settantacinque anni, ha insegnato nella scuola ebraica di Trieste e l'ha diretta per venticinque anni, fino al momento del pensionamento. Proprio quando molti preferiscono rinchiudersi in se stessi, vinti dalla stanchezza e dall'indifferenza per il mondo attorno a sé, la signora Schreiber ha scelto di andare nelle scuole a parlare della propria esperienza, spiegando ai ragazzi che cosa significhi veramente il razzismo.
Msa. Cosa l'ha spinta ad assumersi questo impegno, che talora può essere gravoso?
Schreiber. Appartengo agli ultimi momenti di quella generazione che può raccontare in prima persona ciò che accadde negli anni delle persecuzioni razziali in Italia. Infatti, chi è più giovane di me soffrì le stesse discriminazioni, ma non si rese conto di cosa stava succedendo. Chi ha qualche anno più di me probabilmente non ha la forza di salire in autobus o in treno al mattino presto per parlare ai ragazzi. Quindi rendere testimonianza di quegli avvenimenti mi sembra doveroso, un obbligo morale ancor più forte oggi, alla luce degli episodi di razzismo che si registrano molto spesso in tutta Europa senza suscitare l'attenzione e lo sdegno che destavano qualche anno fa.
Nel 1938 furono introdotte in Italia leggi razziali che colpirono duramente gli ebrei. Quali effetti ebbero?
La discriminazione fu assoluta. Gli ebrei, insegnanti e allievi, furono allontanati dalla scuola, dagli uffici pubblici, dalle libere professioni, dall'esercito. In casa era vietato avere la radio; a teatro era meglio sedersi nelle ultime file per non dare nell'occhio; prima di entrare in un bar bisognava controllare che non fosse appeso il cartello 'È vietato l'ingresso ai cani e agli ebrei'; molti alberghi negavano ospitalità agli ebrei. Le leggi di morte della persecuzione nazista vennero abolite cinque anni più tardi, dopo l'armistizio del 1943, ma il binario per Auschwitz era tracciato.
Come si visse dal 1938 al 1943?
A diciassette anni mi si chiusero in faccia le porte del futuro. Venni allontanata dalla mia scuola, per gli amici divenni improvvisamente trasparente. Non mi sentivo diversa, ma le leggi razziali stabilirono che lo ero. Si viveva in un regime in cui il popolo imparava ad accettare supinamente tutto, perché la paura lo induceva a obbedire per sopravvivere. Cominciammo a salutarci 'romanamente', col braccio teso, a darci del 'voi' invece che del 'lei'. Quando il governo stabilì che gli italiani erano troppo piccoli di statura, noi ragazzi, convinti di poter diventare più alti, ci impegnammo in palestra in un esercizio agli anelli: naturalmente non servì a nulla. In una situazione di questo genere le leggi razziali divennero provvedimenti come tanti altri, accolti con indifferenza da chi non venne direttamente colpito. Mi preme ricordare che le eccezioni ci furono: alcuni sacerdoti cattolici ed enti religiosi aiutarono gli ebrei, pur consapevoli di correre rischi terribili. La mia vita proseguì con una parvenza di normalità grazie alla scuola ebraica. Fu istituita due mesi dopo le leggi razziali e mi consentì di continuare gli studi fino alla maturità .
Dopo l'armistizio del 1943 lei si rifugiò in Svizzera. Fu una sorta di esilio agiato?
No, certamente. I contrabbandieri italiani ci accompagnarono al confine chiedendoci tremila lire ciascuno, una cifra enorme per allora. Poi, nel buio della notte, ci avventurammo tra i campi in preda all'angoscia di sbagliare direzione e di ritrovarci di nuovo in Italia. Quando un soldato svizzero ci individuò, fummo portati alla dogana: lì passammo una notte da incubo con pressanti insistenze a tornare nel nostro paese. Chiesi addirittura di essere fucilata. Dopo dodici ore ci venne accordato il permesso di restare. Da allora vivemmo in un campo profughi, dormendo sulla paglia, soffrendo il freddo e la fame. Ma fu la salvezza.
I suoi interventi riguardano solo l'antisemitismo o allarga il discorso anche al razzismo?
Comincio proprio parlando del razzismo che è 'pregiudizio', cioè un giudizio avventato espresso senza riflettere, è l'opinione che una maggioranza si fa, ritenendo di valere di più per il fatto di essere in più rispetto a una minoranza. L'uomo è fatto di un cuore e di un'anima che aspirano all'eternità e di un corpo che rivela la fragilità della natura: la sofferenza accomuna tutti. Se un medico trovasse il rimedio per una malattia incurabile di certo nessuno lo giudicherebbe per il colore della pelle o per la religione: saremmo tutti felici di poterci curare grazie alla sua scoperta.
La scuola per prima ci ha avvicinato alla 'diversità '. Abbiamo studiato la geografia di altri paesi, la storia di epoche passate e lingue diverse dalla nostra. Questo dovrebbe farci capire che la 'diversità ' non deve comportare 'discriminazione'. Né dobbiamo 'tollerare' chi è diverso da noi, perché questo termine significa 'sopportare'; dobbiamo, invece, conoscerlo, rispettarlo, sentirci affini a lui e amarlo imparando ad arricchirci delle differenze che esistono tra gli uomini.
Una forma di razzismo che si sta radicando da noi è quella tra meridionali e settentrionali. Affiora questo tema nei suoi colloqui?
Sì, sempre. Un preside inaspettatamente ha interrotto il mio dialogo con i ragazzi per confessare di aver provato sulla propria pelle questo razzismo. Viveva da molto tempo al Nord, ma ricordava ancora l'umiliazione subita tanti anni prima, quando, cercando casa a Torino, gli venivano chiuse le porte in faccia perché era napoletano. Anche questo razzismo è pericoloso e insensato. Se chi è settentrionale ha qualcosa da rimproverare al Sud, allo stesso modo i meridionali nutrono qualche risentimento verso chi è del Nord: le difficoltà di convivenza sono sempre reciproche.
I ragazzi sono descritti spesso come indifferenti e privi di interessi. Che accoglienza le riservano?
Sono catturati completamente. Mi riservano un interesse e una emozione al di sopra di ogni attesa. L'attenzione è vivissima e stupisce gli stessi insegnanti. Alla fine del mio intervento sollecito sempre i ragazzi a rivolgermi domande: arrivano sempre interrogativi pertinenti che alimentano un dibattito cui partecipano tutti.
Lei ha parlato anche agli adulti. Ha notato un atteggiamento diverso?
I ragazzi, più aperti e ricettivi, percepiscono il valore della libertà e della democrazia. Gli adulti hanno un atteggiamento di maggiore chiusura. Molti insegnanti di storia mi hanno confessato di saper poco della seconda guerra mondiale e nulla delle leggi razziali. Purtroppo anche durante numerose trasmissioni radiofoniche e televisive si è detto che nel nostro paese mai ci furono leggi razziali. I miei colloqui diventano più stimolanti con chi ha già approfondito l'argomento e ciò si è verificato spesso con gli insegnanti di religione.
Il contatto con i ragazzi l'ha arricchita sotto il profilo umano?
Quando ricevo l'invito a intervenire a un dibattito o a una tavola rotonda, accetto e ringrazio. Per me è un regalo portare la mia testimonianza. Come ricompensa spero che i ragazzi a cui parlo riflettano e raccontino a loro volta ciò che hanno ascoltato. Solo così la testimonianza potrà passare alle generazioni future.
Ha notato affinità tra il suo messaggio e quello cristiano?
Il messaggio cristiano indica la via della fratellanza e della solidarietà : testimoniare e diffondere questi valori significa combattere il pregiudizio, la discriminazione e il razzismo. Il seme delle atrocità della seconda guerra mondiale fu la presunzione della superiorità di una razza rispetto a tutte le altre. Se lo dimentichiamo, in qualunque parte del nostro mondo, contro qualunque minoranza etnica o religiosa, contro un gruppo di uomini che abbia occhi o capelli diversi dai più, la follia omicida potrebbe ricominciare.