Nomade dell'identità

«Noi siamo costretti a vivere 'un estero' interiore. La nostra cultura non sarà mai unica, pura e individuabile», dice il docente di Letteratura dell'Università della California.
15 Settembre 2006 | di

SAN DIEGO

Il professor Pasquale Verdicchio è nato a Napoli nel 1954. Ha vissuto a Vancouver, Victoria, Los Angeles e risiede ora a San Diego. Le sue poesie, rassegne critiche, fotografie e saggi sono apparsi in giornali e riviste di Canada, Stati Uniti ed Europa. È considerato il principale traduttore del lavoro di poeti italiani come Antonio Porta, Andrea Zanzotto, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Caproni e Alda Merini. I suoi scritti riguardano prevalentemente la cultura italo-nordamericana e la cultura contemporanea italiana. È stato co-fondatore dell’Associazione degli Scrittori Italocanadesi e presidente della stessa dal 1994 al 1998. È professore al dipartimento di letteratura dell’Università della California, a San Diego, dove dal 1996 al 1998 è stato a capo del Writing Program. È stato inoltre direttore dell’University of California Education Abroad Study Center.
Zampieri Pan. Lei è partito da Napoli, adolescente. Decenni dopo, e con la formazione culturale maturata vivendo prevalentemente in Nord America, quale significato attribuisce alla memoria, e come percepisce la sua identità?
Verdicchio
. È sempre difficile spiegarlo. Come reazione direi che la mia identità è da italiano, però l’identità è ovviamente cosa molto complessa da definire e da precisare. Preferirei forse dirmi cittadino del mondo, ma questa potrà sembrare una facile e anche banale risposta. Dirò che, dopo vent’anni a San Diego, mi trovo a vivere in un luogo con il quale mi identifico pochissimo: non solo la città stessa ma l’America (o gli Stati Uniti) proprio come concetto nazionale, ideologico, di cittadinanza, appartenenza, e così via. Oggi mi trovo ad aver vissuto negli Stati Uniti più di quanto abbia vissuto in Italia e in Canada. In più, forse cosa non tanto curiosa, mi sono identificato come canadese soltanto quando ho lasciato il Canada per gli Stati Uniti. Come identificazione ininterrotta, più fluida, come identificazione culturale e affinità sociale, dovrò però dirmi italiano, anche se ciò è stato complicato ultimamente dalla mia inaspettata perdita della cittadinanza italiana proprio nel momento in cui, nel 1998, sono rientrato in Italia per viverci per due anni. Recatomi al consolato di Los Angeles per rinnovare il passaporto, mi sono scoperto extra-comunitario. Per qualche ragione che io ritengo un’inspiegabile mancanza verso alcuni italiani residenti all’estero, per ragioni forse puramente burocratiche, ci è stata sottratta la cittadinanza italiana. Mi esprimo al plurale; ovviamente il mio caso non è l’unico. Si tratta, direi, di una svista da rivedere.
E poi la memoria. Forse per me la memoria non regna assoluta nel mio rapporto con l’Italia perché ci ho vissuto durante vari periodi per uno o due anni alla volta, e vi torno almeno una o due volte l’anno. Non dico di non sentirmi «fuori», ma forse questa è l’identità che tocca a noi che viviamo all’estero: siamo «fuori» da ogni situazione, viviamo o vivremo sempre una via di mezzo. Siamo costretti a «vivere sempre un estero», un estero interno, una valigia piena di estero che portiamo sempre con noi. La nostra cultura non sarà mai unica, pura, individuabile. Per questo credo che la nostra cultura, e perciò la nostra identità, sia anche rappresentativa del futuro: sarà la cultura dei nostri figli e delle società future. Il Canada, o almeno la Vancouver che vedo oggi, è molto vicino a questa cultura. La Vancouver di oggi è molto diversa da quella che conobbi quarant’anni fa: preferisco questa Vancouver per molti aspetti, anche se si avvicina un po’ troppo a una città che tende verso il materialismo e il consumismo, pericoli sui cui ci ammoniva il caro Pasolini.
Vivendo tra il Canada, gli Stati Uniti e l’Italia, e possedendo la curiosità e la possibilità di esplorare altri luoghi del mondo, lei si considera un nomade?
L’immagine del nomade mi è sempre stata cara. Sì, mi sento rientrare in questa immagine. E, infatti, una delle mie raccolte di poesia s’intitola Nomadi Trajectory (Guernica Editions). Ma vorrei ricordarle che il nomade non si protrae caoticamente senza meta lungo il paesaggio. L’immagine del nomade che trovo di grande valore è quella del viaggiatore che tocca mete pre-esistenti ma di carattere cangiante. Il nomade è anche colui che sa leggere il paesaggio che attraversa in ogni piccolo dettaglio come traccia di segni che gli possano assicurare la sopravvivenza. Il nomadismo è una cultura d’adozione e di adattamento. Il viaggio è tra una meta e l’altra, è di massima importanza, un po’ come la poesia Itaca di Costantino Kavafis: non l’arrivare a Itaca, ma il viaggio verso la città è di estrema importanza. E io viaggio spesso in un circuito tra mete o punti d’arrivo già conosciuti: San Diego, Vancouver, Savary Island, Napoli, Lanciano; luoghi ben precisi, ben conosciuti, che però, volta dopo volta, anno dopo anno, offrono sempre nuovi aspetti e nuove esperienze. Altrimenti non ci tornerei.
Quali sono i suoi punti di riferimento?
Ovviamente le conoscenze che uno ha, le conoscenze che si creano, sono tra i primi punti di riferimento. Forse non so se ho dei veri e propri punti di riferimento e per questo, a volte, il mio viaggiare è anche un viaggiare da solo, senza famiglia, passando dei lunghi periodi in solitudine. Il mio è un viaggiare fisico verso altri luoghi, ma che si esprime prevalentemente come viaggio interiore: in questo caso non ci sono assolutamente punti di riferimento.
Quale importanza ha il nucleo familiare nella vita di una persona come lei?
Potrò sembrare pieno di contraddizioni, perché il nucleo familiare è per me di massima importanza. È stato importantissimo per noi avere parenti a Vancouver al nostro arrivo: il non arrivare da soli senza conoscenze, senza nessun punto di riferimento. La nostra esperienza a Vancouver sarebbe forse stata diversa e più difficile senza tutto ciò. Oggi, anche non sentendomi del tutto convinto della mia residenza in California, ciò che mi trattiene è la mia famiglia: i miei figli sono nati a San Diego, sono cittadini statunitensi, canadesi ed europei, ma sono (almeno per ora) negli Stati Uniti. Mia madre, i miei fratelli e altri parenti definiscono l’importanza di Vancouver come punto d’appoggio. Non saprei dire se, venendo in un certo momento a mancare la famiglia in questi luoghi, tornerei a viaggiarci o no. Forse dovrei trovare qualche altro luogo, e fermarmi.
C’è poi il discorso della comunità, che per me è sempre stato importante. A Vancouver forse meno perché sono maturato come attivista all’interno della comunità italiana dopo la mia partenza da Vancouver. Ma a San Diego ho trovato senz’altro nella comunità italiana una grande fonte di attivismo sociale e culturale, e continuo tutt’oggi ad organizzare e facilitare attività all’interno di quella comunità. Mi fa piacere dire, inoltre, che nella mia comunità adottiva di Lanciano, in Abruzzo, ho trovato una grande quantità di iniziative alle quali mi è stato concesso di partecipare anche a livello organizzativo. Per questo, quando manca il legame più immediato qual è quello familiare, la comunità diventa importantissima: perché è anche il luogo del mantenimento della cultura e dell’esplorazione e della «produzione» di nuovi sentieri culturali. E come comunità bisogna dire che per noi è necessario ampliare il significato del concetto di accoglienza, che deve essere valido non solo per gli italiani ultimi arrivati, o gli immigrati di vecchie generazioni: non solo per gli italiani ma anche per gli italofili. Amo il calcio, ho seguito tutto il recente campionato mondiale; ma per me la cosa più importante è lanciare una campagna per attrarre ancora più persone verso la cultura italiana. Sono convintissimo che le iscrizioni presso i corsi d’italiano nelle università nordamericane vedranno un aumento nei prossimi due anni. La cultura italiana è una cultura «di» e «da» comunità: si basa sul sociale, sul vedere e il mostrare, sul vivere insieme, anche in solitudine.
Quale e quanta italianità può esserci negli italiani che vivono all’estero, spesso mescolati con altre culture ed etnie; ibridi in trasformazione?
Devo dire che questo mi preoccupa poco perché l’ibridazione è sempre stata con noi. La cosa che può nuocere ad una comunità o ad una nazione è definirsi «pura». E, poi, noi italiani non lo siamo mai stati. Perché sprecare tante energie, generare tanta sofferenze per ideali fittizi, per finzioni che noi diciamo realtà e alle quali diamo carta d’identità e passaporto? Non dico di abolire i confini, dico soltanto di tentare di riconoscere ciò che tutti siamo: esseri umani, senza pretesa di sangue o etnia o razza pura. In fondo, la cultura è ciò che accade quando due persone si incontrano, tutto ciò che accade tra di loro è cultura. Non credo all’italianità come concetto espressivo di cultura pura: per me è un termine troppo legato ai dettati del fascismo. Anche se si vuole riscattare oggigiorno per descrivere una cultura italiana universale, non mi sembra il termine adatto. Preferisco forse il termine «italicità» come accenno alla cultura che ha radici sul territorio italico e che però si è poi sparsa per il mondo. Con le migrazioni si è accertata un’evoluzione culturale che comprende tutti noi all’estero. Che si parli italiano oppure no, come discendenti di questa cultura italica noi siamo espressioni della trasformata cultura italiana. Forse ci sarà pochissima «italianità» che un italiano da sempre in Italia potrà riconoscere in noi: ciò nonostante ci lega una cosa in comune ed è una sicura, anche se a volte minima, discendenza.
Da artista e da uomo di cultura, come vede il rapporto cultura-politica? Quali sono, secondo lei, i punti d’incontro e di scontro? Che ne pensa del voto in loco per gli italiani all’estero?
Non so se da artista e da uomo di cultura, ma da persona che vive tra altre persone, il rapporto cultura-politica è innegabile. Non è possibile fare cultura nel vuoto. Come dicevo, la cultura avviene quando due persone s’incontrano: quell’incontro è anche politica perché impone nel rapporto un certo saper fare che definirà il successo o no del rapporto. Non capisco autori e artisti che si dichiarano apolitici. Come si può aprire bocca o mettere pennello su tela senza capire che ogni traccia, ogni segno, ogni parola e urlo porta con sé una storia d’uso e di interpretazione? E come si può negare l’interpretazione di questi stessi elementi da parte di altri che consumano questi prodotti culturali? Si può dire, senz’altro, di non essere politicizzati nel fare arte, ma forse la materia stessa non ci lascia scelta. E i punti d’incontro e di scontro sono tanti. Quelli da me più recentemente vissuti si sono espressi all’interno di una serie di filmati che ho presentato presso la comunità italiana di San Diego. Alcune persone hanno reagito ad alcuni film in modo pesantemente politico: anche se da loro negato, li hanno fraintesi come mia espressione politica. Tutto bene fino a un certo punto perché a me non dispiace questo tipo di scontro. Però è anche accaduto che questi momenti sono stati presi come piattaforma per lanciare discorsi politici con dettagli ben precisi, per effettuare una retorica da adoperare nelle recenti elezioni politiche, il che mi porta ad esprimermi sul voto agli italiani all’estero. Direi che il voto agli italiani all’estero non mi convince perché l’italiano all’estero segue poco la politica italiana e raramente visita l’Italia. Parliamo ovviamente qui di un grande numero di italiani che hanno ora il voto come risultato del riacquisto della cittadinanza. Spesso, però, si tratta soltanto di un interesse ad avere la cittadinanza e non il voto, e ciò è stato espresso dalla bassa percentuale di votanti nell’ultimo referendum. Per rendere il voto e la rappresentanza degli italiani all’estero più efficace e più realistica, i consolati e principalmente gli Istituti Italiani di Cultura all’estero dovranno svolgere un’attività più impegnata e presente all’interno delle varie comunità. Le posso dire che San Diego e l’Università della California a San Diego sono totalmente inesistenti per quanto riguarda l’Istituto Italiano di Cultura che in questo caso ha sede a Los Angeles.
Pur lavorando e risiedendo a San Diego, lei è spesso a Vancouver: il primo approdo nordamericano, la casa canadese della sua famiglia, l’ambiente degli studi secondari e universitari, il luogo da cui ha preso il volo da giovanissimo. Ci tornerebbe a vivere e a lavorare?
Sì, ci tornerei volentieri. Come ho già detto, per me San Diego è ancora un luogo di passaggio. Forse mi sentirò californiano quando lascerò la città, ma per ora è Vancouver la mia città nordamericana. Mia moglie è della British Columbia, le nostre famiglie sono qui, torniamo varie volte all’anno, e in particolare d’estate, per un paio di mesi, siamo alla Savary Island dove abbiamo una piccola casa. Per essere un «guaglione» napoletano, mi trovo molto bene nelle foreste canadesi. Non ho mai avuto l’opportunità di un richiamo dal Canada con un posto accademico, per questo sono rimasto a San Diego.
Qual è il messaggio fondamentale che lei sta trasmettendo ai suoi studenti e ai suoi figli?
Cito semplicemente i tre versi conclusivi di una poesia di Gary Snyder che leggo ai miei studenti, e che tento di vivere sia insegnando loro che ai miei figli: stay together/learn the flowers/go light (state assieme/imparate dai fiori/siate lievi).

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017