Non sparate sui disperati!

Dall'Africa all'Europa, dal Messico al Nord America, dall'Asia all'Australia. L'onda lunga della miseria lambisce i Paesi ricchi che pensano a soluzioni "militari".
26 Agosto 2003 | di

Quanti semi trasportano i venti? Quanti fruttificano? Quanti vanno dispersi? E i venti della sventura quanti uomini, quanti bambini, quante donne afferrano, travolgono e troppo spesso disperdono? Sono come semi nel vento le migliaia di sventurati che la fame, la guerra, le epidemie, spingono lungo le strade e lungo le rotte dolorose delle migrazioni. Semi che possono fecondare civiltà , laddove trovino terreno fertile. Semi che più spesso vengono frantumati dall'incuria, dall'egoismo, dalla violenza.
Da decenni i mari del mondo sono patria del popolo stremato dei boat people condannati a vagare per sempre, in un'atroce storicizzazione della leggenda dell'Olandese volante. Da decenni, una tragica linea di morte segna il confine terrestre tra Messico e Stati Uniti, e non mancano atroci notizie di battute di caccia al clandestino. Negli Usa, il concetto di frontiera - quello che era un luogo dell'anima da porre  sempre più avanti, quello che ha saputo produrre, pur con innumerevoli e devastanti errori, un avamposto di democrazia destinato a diventare la maggiore potenza planetaria - esprime oggi, sempre di più, l'immagine di una cinta di difesa, di   una barriera contro il diverso, in un contrasto stridente con l'intera tradizione di quel Paese, un contrasto che non bastano a spiegare i tragici fatti di terrorismo dell'11 settembre 2001.
Così come il Canada, diventato, più di recente, meta di tanti asiatici in cerca di un futuro, il Canada dove il multiculturalismo si è sperimentato vincente ben prima che in Europa se ne parlasse persino, oggi guarda con sospetto, se non con atteggiamento di minaccia, alle masse che cercano di raggiungere il suo territorio e, soprattutto, la sua qualità  di vita. Entrambi quei grandi Paesi, resi tali proprio dall'apporto di lavoro, di intelligenza, di cultura, di speranza e di fantasia di generazioni e generazioni di immigrati, oggi sembrano chiudersi sempre di più. Così come, dall'altra parte del mondo, l'Australia terra di tradizionale accoglienza e di infinite risorse, chiude i suoi porti ai battelli della speranza destinati a diventare traghetti da una disperazione a una disperazione diversa.
Non è migliore la situazione in Europa, l'altra parte del Nord ricco del mondo. Nell'estate appena trascorsa, il Mediterraneo è stato la tomba di centinaia di infelici in fuga dalle immani tragedie dell'Africa. E in Europa, culla di una civiltà  che del diritto d'asilo ha fatto per tutta la sua storia uno dei propri capisaldi, nell'affrontare la questione migrazioni, non hanno trovato spazio e orgoglio la rivendicazione e la tutela di quei valori, ma piuttosto i dibattiti su aspetti tecnici, quando non militari, e persino le farneticazioni di chi chiede di usare i cannoni contro le carrette del mare. Eppure non sono passati molti mesi da quando, con la Dichiarazione di Atene, i Paesi dell'Ue ribadivano solennemente un progetto collettivo per condividere il nostro futuro come una comunità  dei valori, dichiarando di rispettare i diritti e la dignità  dei cittadini di Paesi terzi e sostenendo  che i valori che noi apprezziamo non sono riservati solo ai nostri cittadini.
Ciò nonostante, con il cupo sarcasmo che qualche volta la cronaca impone alla storia, nelle stesse ore in cui si consumava al largo delle coste tunisine una tra le più gravi tragedie dell'immigrazione, con l'affondamento di una nave carica di 250 sventurati, i leader europei si occupavano del controllo armato della frontiera marittima meridionale, ripartendo le spese relative. E amareggia che quei leader, compresi quanti si stracciano le vesti per i mancati richiami all'eredità  giudaico-cristiana nella futura Costituzione europea, potessero in un'ora simile, far mostra di fredda indifferenza per la tutela della vita umana e di quei valori che la sostanziano, compreso lo spirito di accoglienza e di protezione del povero e del perseguitato: quello sì segno irrinunciabile della civiltà  maturata nei secoli dall'Europa cristiana.
Sui mari d'Europa oggi si disperdono vite e si spargono veleni, senza controllo, senza leggi che non siano quelle del profitto e della forza. Ma nessuno parla di abbordare le navi, spesso fatiscenti, stivate di petrolio o di altri carichi inquinanti. No, si parla di abbordare e persino di cannoneggiare quegli infelici che spendono tutto il poco che posseggono per procurarsi un imbarco su vecchie navi mercantili; si parla di respingere l'invasione di quanti affidano la loro speranza ai moderni negrieri che lucrano sulla clandestinità  alla quale l'egoismo dei ricchi obbliga le migrazioni dei disperati. La loro vita non conta. Pagano in anticipo: l'importante è imbarcarli non che arrivino.
Del resto, i naufragi ci sono sempre stati e il mare ci mette tempo a restituire le sue testimonianze. Forse, tra qualche secolo, i nostri pronipoti vedranno esposte in un museo le suppellettili trovate sul relitto di una carretta del mare, così come noi oggi facciamo con quelle delle navi greche o  fenicie. I corpi dei naufraghi no. Quanto alle anime, possiamo anche non preoccuparci: la superficie del mare non sembra più solcata dai fantasmi. Forse anche l'Olandese volante è approdato finalmente sulle sponde di questa nostra epoca moderna e civile che sa fare a meno del rimorso, che non dà  cittadinanza al senso del peccato.  

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017